PRIMA PARTE
INFANZIA
Proveniamo un po’ tutti dalla campagna e
se i nostri genitori fossero stati abitanti di una città, forse i nostri
ricordi non sarebbero così ruspanti e casalinghi. Per esempio mio padre aveva
conosciuto mia madre in una di quelle feste da ballo della Garfagnana, forse a
Barga o a Gallicano. Ero nato di conseguenza, come a volte succede in questi
casi. La mia famiglia viveva a Marilia, nella casa paterna a tre piani che ora
è occupata dalla famiglia di Giorgio, che è figlio di Lorenzo, fratello di mio
padre, il quale è stato il primo a morire dei quattro. Poi credo che sia stata
Ada, mio padre e per ultima Magali.
Della casa paterna i ricordi più concreti me li sono fatti dopo, quando visitavo gli zii suddetti, a volte posteggiato là per alcuni giorni, al piano terra, da zia Magali. Il paradiso era però il secondo piano, non perché vi avevo abitato, agli albori della mia carriera di bambino, ma piuttosto perché allora non ci stava nessuno. Era diventata piuttosto una giungla di armadi e casse e qualsiasi tipo di involucri, insomma, che potevano contenere tesori e misteri. Scaffali alti e impolverati, oggetti sconosciuti e scatoloni pieni che non si svuotavano mai. Reti finissime ereditate da ragni che non le avevano costruite personalmente, ma ricevute dai figli di figli di pazienti pescatori d’insetti, nell’oscurità dimenticata, nell'insieme di rumori ovattati di una vita remota che, fuori di là, aveva un altro ritmo e un’altra intensità di luce.
Giocavo sul lastrico di mattoni rossi con i rocchetti di legno di
cui anche la cantina era piena, poiché un tempo si erano fabbricati
nell’adiacente segheria Milesi.
Li mettevo uno sopra l’altro, facendone costruzioni di stili diversi, per me
casuali, perché ancora sconosciute.
Palazzi pieni di colonne che s'allungavano presuntuosamente verso il cielo,
come gotiche torri di Babele, a volte si stendevano piuttosto sul terreno come
arzigogolate e barocche muraglie cinesi.
A Marilia ci sono rimasto poco tempo, due
o tre anni, perché poi ci siamo trasferiti nella casa del manicomio di Miggiano
e lì ci siamo rimasti fino al 1967. Prima di venire al Quercione eravamo andati
a vedere una casa a Pigna, abbastanza vicino al recinto dell’ospedale
psichiatrico. Era una casa vecchia, che doveva essere rimessa un po' a posto,
sicuramente una casa abbastanza affascinante, direi ora, ma quel tempo non mi
piacque, c’eravamo andati in un giorno di pioggia e mi era sembrata scura,
minacciosa. Ero un bambino di circa sette anni.
Per fortuna o per sfortuna, per quanto riguarda la memoria, quando
sono nato la mia famiglia viveva in un manicomio, quello di Miggiano, le prime
cose che rivedo, sul telone dietro ai miei occhi, sono di là.
La vita era molto più lenta di adesso, molto più a dimensione umana, c’erano
poche automobili e i computer erano chiamati ancora cervelli elettronici, erano
enormi e a disposizione di pochi, che però lavoravano per la comunità.
I mondiali di calcio, oggi come oggi mi servono per ricordarmi
cosa facevo in quell’epoca, come era la mia vita, insomma di che cosa mi
occupavo. Quei pratici intervalli di quattro anni evidenziano tendenze e
confermano (o smentiscono) alcune proiezioni della mia mente o del film di una
vita passata.
Nel 1958 il Brasile stravince in Svezia, piuttosto interessante
direi, io però non ero ancora nato. Nel 1962 ancora il Brasile in Cile, ma a
tre anni non mi rendevo bene conto di che o come, di chi né quando. Finalmente
nel 1966 sul Corriere dei Piccoli c’erano le figurine dei calciatori sagomate
da ritagliare, ma a quei tempi c’avevo la biciclettina con il manubrio da corsa
e mi garbava di più il ciclismo e poi le partite in TV, che era in bianco e
nero, non c’erano ancora.
Li avevo già sfogliati curiosamente, prima di saper
leggere, anche i fumetti, e sono stati un passaggio essenziale, senza contare
che mi piacciono ancora.
Forse il mio primo libro è stato la Bibbia dei Piccoli con tante figure a
colori, poi Pinocchio, Gian Burrasca
anche quelli con le figure. I ragazzi di via Pal, Pecos Bill, Sfida all'OK
Corral, Alice nel paese delle meraviglie e Tre uomini in barca... forse sono
stati i primi senza le figure. La mia fantasia, non mi sorpresi nemmeno di
constatare, non ne aveva bisogno.
Oltre i dieci anni poi ci sono stati progressivamente
Moby Dick, Dottor Jekyll e Mister Hyde, Padre Brown, Dracula e Frankenstein.
Al cinema i primi film che ricordo sono
stati diversi cartoni animati di Walt Disney tra cui Bambi, La Bibbia di John
Houston, Corri uomo corri con Tomas
Milian visti a Viareggio al cinema davanti alla Stazione Ferroviaria, Via col Vento a Fornaci alla SMI.
I programmi televisivi possono anche
situarti con una certa precisione in una determinata epoca, attaccati ci si
possono trovare i commenti di papà, cui nessuno replicava e i vari personaggi,
a noi sconosciuti, erano immancabilmente da lui catalogati tra i migliori del
loro campo. Lo schema delle sue frasi era sempre lo stesso, ricalcava cose già
da lui ridette e allo stesso modo, noi non dicevamo nulla. Specialmente la sera
a cena, era l’unico che parlava e di solito quello che diceva non interessava,
ma se dicevamo qualcosa avremmo dovuto affermare quello che pensavamo e allora
era più prudente tacere.
Il mondo fluttua nell’universo, che dicono addirittura sia
infinito, ma non ce n’era bisogno, a riguardo eravamo già abbastanza confusi.
Insomma se tutto è in movimento, una specie di fottuta rotazione, ci vogliono
dei punti fermi, anche se sono solo ideali, sennò ci si perde nello spazio
siderale, ci si può anche bruciare contro uno dei tanti soli, o stelle che
siano, ma l’effimera fiammata sulla terra la vedrebbero solo parecchi anni luce
dopo.
Quando le coincidenze coincidono troppo allora cambiano nome,
confesso che non so come si chiamerebbero, ma avendo tempo e voglia ci
farebbero anche riflettere.
Un giorno gli storici magari non capiranno quando scopriranno che
da piccolo abitante di Miggiano andavo a scuola a S.Marta in Collina e dopo
aver traslocato al Quercione invece andavo a scuola a Miggiano.
La legge Basaglia, senza rendersi conto, mi ha lasciato uscire dal
Manicomio e andare in giro tranquillamente fino a oggi, addirittura dopo aver
vissuto due anni in Germania e quasi trenta in Brasile.
Là c'era il Puccineli, ma con una elle sola, spiegava che durante la guerra gli avevano impiccato
l'altra, magari i tedeschi.
Pino viveva al nostro lato, era portiere del manicomio e amico di
famiglia, ci ha fatto anche dei lavori di muratura in casa poi al Quercione.
Suo figlio primogenito è stato compagno di giochi di mio fratello e io me lo
ricordo gattonare in quella cucina grande, con il blocco dei fornelli in
muratura nel mezzo della stanza. Le mattonelle per terra, sui muri e attorno ai
fornelli erano di un marroncino quasi arancione, tipo cannella. Era giorno ma
la luce era fioca, il soffitto era basso, c’era solo una finestra piccola in
alto. Franco faceva la pipì e la popò per terra e lì ci buttavano la segatura,
poi la spazzavano.
Abitavamo dentro al recinto del Manicomio, là ho conosciuto Mauro,
abbiamo giocato insieme a pallone in giardino prima ancora di andare a scuola.
Abbiamo fatto buona parte delle elementari assieme, poi le medie e un anno di
liceo scientifico.
Suo padre era assai simpatico e calmo, amico di mio padre, a suo
tempo avevano studiato insieme all’università, vivevano nella stessa stanza in
affitto, papà si lamentava per le sue eccessive scorregge. Ciò nonostante suo
padre ha frequentato il mio fin quando è morto, tutti e due sono ormai defunti,
ma prima il mio se la memoria non m’inganna.
Alla fine della giornata io facevo sempre la pipì a letto e questo
mi faceva sentire ancora più piccolo e indifeso tanto che mio fratello Umberto,
più giovane di me, non aveva paura di dormire da solo e cercava di rincuorarmi
dicendo che i fantasmi non esistevano e io al solo sentire quella parola mi sentivo
peggio ancora.
Le macchine avute in famiglia possono darmi un’idea
del tempo e delle situazioni, ricordo che una Seicento verdolina cercai di
farla sbatacchiare contro il padiglione delle donne, al Manicomio, togliendo il
freno a mano in discesa, ma mio padre saltò dentro e riuscì a evitare il
peggio. Dovevo avere quattro o cinque anni.
La Simca 1100 la collego alle serate alla palafitta a
Massaciuccoli, aveva un portabagagli capiente per i vari recipienti, per
portare i pesci vivi a casa, quindi in un’epoca confinante avevo già anche il
vivaio in muratura.
Marzio sarebbe diventato un amico di Mauro, ma non si erano ancora
conosciuti. Avevamo fatto la seconda elementare insieme poi in quarta liceo
scientifico ci siamo ritrovati. Quando andavamo all’asilo dalle suore di
S.Marta, lui si mangiava sempre anche il budino, nel senso che io invece non ne
avevo diritto. Forse i miei pagavano un po’ meno e io avevo accesso alla pasta
al pomodoro, per esempio, ma al budino no. La pasta era schifosa, il budino al
limone invece era buono assai e io avrei voluto invertire quella convenzione,
ma non si poteva.
Avrei rinunciato volentieri anche agli schiaffi di suor Loretta,
ma anche a quelli non si poteva dire di no. A volte si metteva all’entrata del
cancellino e tutti quelli che arrivavano prendevano la loro dose e non sapevano
nemmeno perché.
Dalla scuola all’asilo ci saranno stati quei duecento, trecento
metri al massimo, quando si usciva c’era una gara a chi arrivava primo
all’asilo, che vinceva sempre Marzio e io secondo, ma a volte lui doveva andare
dalla zia, che aveva una cartoleria lì accanto e allora mi mandava a prendere
ufficialmente il suo posto di primo arrivato.
Nel 1970, con l’entusiasmo attorno per l’Italia in finale, mi feci
contagiare e probabilmente visto che ci eravamo trasferiti al Quercione, non
molto tempo dopo avevo cominciato anche a giocare a pallone nel campo sotto la
chiesa.
Sicuramente nel 72, nel mio piccolo ero già un appassionato di
calcio, seguii le partite degli Europei vinti dalla Germania: uno squadrone!
Facevo l’album delle figurine, che riuscii anche a completare, mi ricordo i
pittoreschi scambi in via Fillungo, sotto la scuola media Carlo Del Prete: ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, ce l’ho, doppione
tre volte… mi manca!
Mauro c’aveva un campetto dove si sono fatte delle sfide notevoli.
Sono stato più costante, ma all’inizio io ero il peggio dei tre, sono diventato
il meglio, anche perché poi loro hanno smesso e nel frattempo io ho imparato a
vincere la mia insicurezza, ma solo parzialmente e a livello calcistico. Per un
periodo abbastanza lungo il sabato si andava a giocare a pallone dietro casa
sua, a S.Mario, anche con Roberto.
Roberto era nato in una casa tra i campi, dove vive ancora, che è
stata una delle poche vendute dai frati, di solito preferiscono affittare. La
Certosa è a duecento metri e lì c'è il famoso viale cipressato che apparirebbe
certamente tra le cartoline del Quercione, se mai esistessero.
Roberto è un curioso per natura e non c'è nessuno al Quercione che
non lo conosca. Cacciatore e pescatore appassionato, da bambino sparava già con
il fucile di suo padre e qualche volta siamo andati a caccia vicino a casa sua
in mezzo ai campi di granturco.
Beveva il vino che si portava anche a scuola in una bottiglietta
per la merenda. Suo zio Ugo aveva un motorino Garelli, di quelli con il
serbatoio in discesa e lui apriva il tappo della benzina e ci si metteva sopra
sdraiato ad aspirare con il naso.
Mangiava i girini per fare il bravo e si metteva anche i pesci in
bocca per assaporarne la fragranza, ma poi non li mordeva. Tra tutti era il
più quercionesco, campagnolo e
ruspante. Una volta si tuffò di testa nel laghetto sotto casa mia e si piantò
nel fango.
Ho fatto dalla terza alla quinta con lui a scuola a Miggiano e
c'era anche Mauro. Insieme poi noi tre abbiamo cominciato a giocare nel Nave,
categoria giovanissimi. Il più dotato era proprio Roberto, all’occorrenza era
anche un bravo portiere. Nella prima partita fece subito due gol, ma poi
smisero tutti e due quasi subito, Mauro e Roberto. Invece io fin da adulto ho
insistito, fino a spaccarmi la faccia, nel 1990 in uno scontro aereo, lì ho
capito che era il momento giusto per appendere le scarpette al cosiddetto
chiodo.
Rinaldo era arrivato dopo, là oltre il laghetto, la prima volta che
l’ho visto ha messo in fuga i presenti. Già a quei tempi non stava zitto un
secondo, con il tempo ha aumentato il ritmo, il volume e tagliato le già scarse
pause.
Non lo conoscevo ancora e già mi aveva impressionato, con il suo
ritmo e la sua parlantina.
Quei ragazzetti si erano nascosti, ma come potevano salvarsi?
Andavano lì tutti i giorni, lui lo sapeva che erano lì. Li aveva visti da
lontano, si era messo seduto tranquillamente su un tronco, nel senso che non
aveva fretta di andarsene, ma la tranquillità quella, purtroppo…
Ero ancora alle elementari, ma lui pur essendo del 1959 come me,
andava alla scuola di S.Mario, perché viveva là e io invece a Miggiano, perché
ero del Quercione, tre paesi comunque vicini e confinanti.
Ho conosciuto gente, specialmente in Italia ma non solo, per cui
parlare è un po' come respirare. Se dovessero stare zitti morirebbero per
mancanza di ossigeno, non c'è niente da fare. Rinaldo era un ribaldo perché
urlava e parlava tanto che ti annichiliva, da adulto poi ha mantenuto le
aspettative.
Quando la sua casa era in costruzione io ci andavo a giocare
dentro e sono stato accusato anche di aver rubato un trapano, da un muratore
napoletano, ma non ero stato io.
Tra le tante bischerate che diceva alcune erano simpatiche, il suo
teatro contemporaneo aveva successo con femmine e maschi, faceva divertire
assai i bambini più grandi di noi e inscenava piccole commedie improvvisate
anche al freddo invernale della fermata dell’autobus alle 8 la mattina.
Siamo stati inseparabili per anni, io parlavo poco e quindi
eravamo una coppia perfetta.
AMICIZIA
La nostra amicizia funzionava perché aveva interessi comuni:
pescare nel laghetto, giocare a pallone, esplorare boschi e insomma tutte le
cose che fanno i bambini quando sono abbastanza liberi, ma con un raggio di
azione che ora se lo sognano.
Prima di tutto oltre che a piedi ci muovevamo in bicicletta, senza
limiti né proibizioni, poi con il Ciao, lui ce ne aveva uno arancione, nel mio
caso era un Bravo marrone e beige.
Mio padre, dopo insistiti lamenti, ci aveva comprato un motorino
usato con le marce, dai Briganti di Vignavecchia, che erano i nostri benzinai e
meccanici di fiducia, si fa per dire, perché erano un po’ grossolani e se
c’erano dei guasti al motore cambiavano subito in blocco i pezzi, senza perdere
tempo a capire se era lì il problema, o meno ancora ad aggiustarli.
Più volte ho rischiato per la loro incompetenza, inutile negare
che anche noi eravamo ignoranti nel giudicarli, sennò avremmo cambiato
meccanici.
Insomma con questo motorino avevamo difficoltà a cambiare le marce
e facevano delle sfollate formidabili, che si sentivano da chilometri di
distanza e facevano sobbalzare la gente per lo spavento. Ricordo le faccette
che faceva mio fratello quando si guardava intorno per vedere se c’era qualcuno
che lo aveva notato.
Roberto disapprovò aspramente la nostra decisione di cambiarlo con
un motorino senza marce, che poi fu una scelta azzeccatissima, alla luce di
anni di fedele locomozione economica e senza problemi, ma quando la gente dice
di non fare una cosa di solito è quella la scelta giusta, questo poi è
diventato un po’ il motto ispiratore della mia vita.
Quando al Quercione è arrivato Rinaldo Biancucci avevamo circa
undici anni, avevamo terminato le scuole elementari e ci apprestavamo a
cominciare le medie. Il gruppo di ragazzetti di cui ero, senza volerlo, il
capo, era basato sul sodalizio con Roberto Ambrosini che era una specie di mio
vice, nel senso che era più sveglio di me, ma io ero più grosso e poi lui non
aveva i fondamenti necessari per essere un leader. Per esempio se si giocava a
soldati romani improvvisamente tirava fuori un mitragliatore e ci faceva la
figura dell'ignorante, anche se poi non tutti gli altri se ne accorgevano. Con
l'avvento di Rinaldo che era più sveglio, loquace e prepotente anche di lui,
insieme a me che ero fisicamente più forte, più pieno di interessi e di quella
cultura minima necessaria, Roberto fu scalzato.
Vicino a noi abitava un signore che lavorava alla Perugina e
bruciava le cioccolate scadute sotto casa, anche delle scatole di Baci o di
cose ancora confezionate. Ogni volta a bruciarle ci provava, ma appena se ne
andava, noi intervenivamo tempestivamente. Dicevano che facevano male a
mangiarsele, le cioccolate scadute, ma a noi non ce ne hanno mai fatto.
La frutta era disposta sul territorio, oltre che sugli alberi, in
una certa maniera strategica e in determinate stagioni, che ormai noi avevamo
assimilato, catalogato e mappato, in maniera che difficilmente potevamo
dimenticarci di qualcosa nell'epoca giusta e nel posto opportuno.
Le susine ce le avevamo vicino a casa e bastava scendere lungo e
verso il fondo del laghetto, le mangiavamo acerbe e mature, senza tralasciare
le intermedie. Le pesche erano là dai frati e ce n'erano anche di quelle grosse,
dure e bianche dentro. Le ciliegie, dal sarto e dal Caproni, che ci elargiva
anche le mele e le pere, di uva ce n’era tanta e a portata di mano, ma l’uva
fragola era più rara e buona, bisognava starci un po’ più attenti.
Insomma non ci mancava niente, bastava andare al momento giusto
nel posto giusto e tutto era a disposizione, se avevamo un vuoto di memoria la
nostra continua perlustrazione ci ricordava cosa e come, dove e perché.
I padroni non sempre erano comprensivi, ma non ci hanno mai preso
a fucilate, anche perché, per via di ogni dubbio possibile, eravamo felpati nei
passi e rapidi nell’azione.
Di capannelli ne abbiamo avuti diversi: al manicomio c'erano dei
finestroni abbandonati ma in perfetto stato, mettendoli insieme erano un bel
rifugio, ma si vedeva tutto dentro e questo andava contro i taciti fondamenti
di un buon capannello.
Al Quercione un capanno sulla strada sterrata che portava al
laghetto rimase il nostro rifugio per un po' di tempo e ci si teneva sempre un
barattolo grande di Nutella.
Il salottino sull'albero era a picco sul laghetto e si andava su
con dei gradini di tavolette inchiodate direttamente sul fusto di un alto
pioppo, i cui rami erano messi così bene che inchiodato un vecchio tavolino di
finta fòrmica su due di loro, messi quasi pari, sui lati altri due grossi
paralleli rami facevano da panche.
Se si cadeva sotto c'era l'acqua bassa, sotto ancora parecchio
fango, ma non credo che i genitori moderni permetterebbero ai figli di andare
su a cinque o sei metri di altezza.
Per giocare a pallone c'erano innumerevoli luoghi, sotto casa la
struttura del terrazzo era una porta perfetta, prima ancora la porta del
garage, ma si faceva troppo rumore e quando c’era mio padre non si poteva.
Stessa cosa nello spazio tra la casa e il muro alla sua sinistra,
lì si usava un pallone più piccolo, ma le botte contro la canala erano
considerevoli.
Sulla strada c'era il problema delle automobili, non si capiva
perché dovevano passare continuamente proprio di lì. Poi Rinaldo, che faceva i
cross per i miei colpi di testa, forava spesso e volentieri il nostro bel
pallone Yashin, di solito marrone, appena comprato alla cartoleria da Lola,
sulle punte della cancellata del Pelliccia.
In precedenza anche il piazzale cosparso di ghiaino della chiesa è
stato usato per un bel po'. Andavamo alla dottrina e lì ci si poteva giocare,
usando come porte i due tigli dalla parte più in basso e di sopra lo spazio tra
la statua ai caduti e la scalinata della chiesa. Non veniva considerato che la
squadra che aveva la fortuna di giocare in discesa e con la porta più visibile,
tra i due grandi alberi, vinceva sempre.
Nel campo sotto la chiesa agli stessi due problemi si aggiungeva
quello della strettezza progressiva verso la porta in salita, molto in salita e
l'erba anche era troppo alta, frenava gli attacchi e favoriva assai la difesa
da quella parte.
In più poi quella porta non aveva la traversa e per chi difendeva
ogni tiro non rasoterra era purtroppo da considerarsi alto e lì ho capito che
le interpretazioni sono sempre molteplici, anche quando la verità è univoca ed
evidente, non solo per incompetenza, ma anche per una apparentemente
confortevole disonestà.
La musica anche potrebbe essere uno scheletro del passato, per
esempio: quando esattamente ho cominciato a registrare le canzoni alla radio
con il microfono e il registratore a cassette? Penso che fosse intorno al 1974,
forse anche nel ‘73.
Un giorno stavo ascoltando alla radio una canzone che io credevo
fosse dei Beatles, ma quando arrivò Mauro mi disse che invece erano i Bee
Gees, My World, ho scoperto in seguito.
Quando comprai i primi dischi, due doppi antologici dei Beatles,
Rinaldo disse che ero scemo, ma poi anche lui fece la stessa cosa, cominciò a
spendere i pochi soldi che aveva nei dischi di vinile, che a quei tempi
i Ciddì non esistevano ancora.
Quando io mi feci comprare un modesto stereo di un catalogo per
corrispondenza, pure disse che ero stupido, passò qualche tempo, ma lui poi se
ne fece regalare uno super mega.
I Pink Floyd, i Jethro Tull, i Crosby Stills Nash & Young e
Cat Stevens per la prima volta in alta fedeltà, li ho sentiti a casa di Mauro,
erano dischi di suo fratello maggiore, ma piacevano anche a lui.
Questo mi fa ricordare che studiavamo insieme a Marzio, era il
1976 ed eravamo in quarta al liceo scientifico, giocavamo anche a pallone nel
campetto dietro casa di Mauro, ma io avevo già anni di calcio nelle squadre di
Nave e Aquila Sant’Anna, dove avevamo vinto il campionato provinciale allievi e
io ero stato uno dei migliori nella trionfale fase finale, facendo tre reti
importanti.
Nel 1974, prima del mondiale, avevo cominciato anche a fare
l’album relativo. Sento ancora l’odore delle figurine autoadesive la sera al
tavolo mentre i miei genitori guardavano il Rischiatutto e la canzone Non
gioco più, era la sigla finale, di Mina.
Roberto e Rinaldo non sono mai andati d'accordo, ancora oggi
vivono a poche centinaia di metri di distanza, ma si ignorano completamente.
È vero che c’è stata un’epoca in cui salavano insieme, a scuola,
d’accordo, ma non è durata molto tempo.
Roberto era una peste da bambino, magari più degli altri, lo
chiamavano anche Fistio per via del suo forte e improvviso lacerante sibilo da
pastore, lanciato tra i denti davanti.
Assieme a mio fratello Umberto andarono avanti e indietro, da casa
a Marina di Massa alla roulotte di Giuliana, moglie di Vicente il Pelliccia,
uomo assai simpatico, morto giovane di cancro. Quando erano là non vedevano
l’ora di tornare a casa e viceversa.
Un capitolo a parte merita Rosanna, la figlia di Vicente e
Giuliana, di cui mi ero innamorato all’inizio, ma lei non mi volle e aveva
anche ragione, ero un biscarotto, rozzo e infantile. La sua era una bellezza un
po’ differente dal solito, sembrava una principessa berbera, ma era anche furba
e simpatica in maniera naturale, come suo padre.
Nel frattempo altri bambini erano venuti ad abitare al Quercione.
Patrizio era un precursore in fatto di bullismo, una parola che non
esisteva ancora, almeno da noi. All'inizio ci dicemmo che lo dovevamo
difendere, poiché era manifestamente più debole. Successivamente picchiarlo
diventò un passatempo, quando non c'era niente da fare, io ne ridevo, ma non
partecipavo. Più che altro era Giacomo, altro nuovo al Quercione, ma un po'
precedente, oltre a mio fratello Umberto. Questi due formarono un sodalizio
piuttosto negativo, tanto che Giacomo, proveniente da Massa Carrara, finì più
volte in galera e una volta adulto sua madre ce lo portò, un giorno, a vedere
se con noi parlava. Era diventato grande e gonfio, ma non aprì mai la bocca e
giammai cambiò espressione.
La madre era una bravissima persona, ma il padre e i fratelli
avevano precedenti penali e un aspetto losco e perennemente incazzato. Elisona
lavorò da noi come donna di servizio per qualche anno, era simpatica e più che
sovrappeso e quando mio nonno le disse che era una bella donna, lei diventò
rossa e tutti si misero a ridere. Negli ultimi tempi al Quercione Giacomo ci
rubò tutte le macchinine di ferro, quando noi eravamo al mare, non ne abbiamo
mai avuto conferma, ma sicuramente era stato lui, perché aveva libero accesso
alla nostra casa per via della madre. Poi crescendo, anche fisicamente, diventò
prepotente finché una volta i bambini di Miggiano e del Quercione si riunirono
e lo pestarono per bene.
Visto che la nostra attività maggiore per un certo periodo fu
pescare nel laghetto del Caproni, sotto casa nostra, conoscemmo e frequentammo
diversi bambini e adolescenti che venivano lì per quello. Tra i quali c'era il
Salvani, ora già morto per complicazioni da alcolici o cose del genere. A quei
tempi aveva un motorino Garelli come quello di Zio Ugo, e gli aveva foderato il
sedile con una pelliccia bianca di pecora, c’aveva messo degli specchietti più
lucidi e il risultato era una solenne pacchianata, che comunque a noi - che
andavamo in bicicletta - ci piaceva e glielo invidiavamo addirittura.
Enzo era prepotente a volte, ma simpatico e abbastanza umile per
mischiarsi a noi, assai più piccoli di lui e passavamo le giornate a pescare.
Lui andava anche a pescare in fiume, cosa che noi invece noi non facevamo.
Accadde più volte che irritato dal comportamento palloso di Rinaldo e di
Roberto, Enzo ebbe a buttarli dentro il lago. Una volta addirittura la canna
telescopica con il mulinello di Roberto, fu lanciata ai pesci. Il bambino si
mise a piangere, ma era stato più volte avvertito.
A seguito di Enzo tanti altri ragazzotti di Miggiano, suoi amici,
arrivarono e frequentarono il laghetto per anni tra cui uno era Mazzino che era
un rompiscatole, nel senso buono, bravo ragazzo, ma ingarbugliatore di lenze
sue e altrui, manualmente piuttosto imbranato, tanto che Enzo creò il modo di
dire: se vuoi fare casino chiama Mazzino 3 1 3 1.
I gobbi o persici sole sono state le nostre prime prede, erano
facili da pescare, si potevano prendere anche con un secchio, specialmente
nella stagione del frego, a primavera. I maschi avevano le pinne fosforescenti
e all'ombra si vedevano solo quelle muoversi ipnoticamente. Facevano una specie
di conca nella ghiaia fina, vicino alla riva, lì dovevano poi portarci le
femmine a metterci le uova. Anche al lago di Massaciuccoli c'erano questi pesci
assai colorati di origine americana che al massimo arrivavano a un palmo e non
avevano valore alimentare perché erano pieni di lische.
In precedenza il negozio di giocattoli era stato il nostro
favorito. Una volta al 48 a Viareggio zio Albo d'Inghilterra mi portò a
scegliere un regalo. Io non avevo ancora capito bene come funzionava quella
cosa strana di fare i complimenti. Nessuno mi aveva spiegato che bisognava solo
fingere di rifiutare, ma poi accettare. Le offerte là dentro erano veramente
tante, costose e belle, ma non presi niente, tra lo stupore generale. In un
primo momento mi sentii un eroe e poi, in maniera definitiva, un fesso.
Con il tempo e il cambiare degli interessi il negozio di caccia e
pesca diventò il mio preferito, ma solo la parte delle canne e relative
attrezzature venatorie, senza interessarmi ai fucili e alle cartucce, anche
perché i pesci io li ammiravo nei vari vivai che di volta in volta mi costruivo
con grossi pezzi di nylon, per imparare che bisognava cambiargli l'acqua ogni
tanto, che troppo al sole i pesci morivano, che granchi, gamberi e pesci di
mare anche.
Mi accorgo che con la musica ho un'infinità di
ricordi, mio cugino Saverio mi fece curiosità parlando di PFM, Genesis Emerson
Lake and Palmer, quando non li conoscevo ancora. Penso che fosse in vacanza a
Mologno, viveva già in Venezuela.
Le prime canzoni dei Beatles, David Bowie, Dylan e Bee
Gees le ho registrate alla radiolina con le cassette.
Frin frin di Tony
Renis e Un giorno dopo l'altro di
Tenco erano sigle della serie televisiva di Maigret.
La canzone di Dalla, 4 marzo 1943 l'avevo ascoltata fuori dalle medie in via Fillungo,
alla scuola Carlo Del Prete.
Lo zio Rolando è stato un cantante famoso in Venezuela, prima ho
sentito i suoi dischi e le sue canzoni romantiche, poi l'ho conosciuto di
persona e mi è garbato anche lui. Pare che sia stato ammazzato a colpi di
machete e che fosse omosessuale, ma sono voci che non so se corrispondono a
verità.
Un suo LP in particolare lo sentivamo tutte le sere a letto con un
giradischi portatile rosso. C’era anche una di quelle borse a fisarmonica con
45 giri di Morandi, Rita Pavone, Claudio Villa, Johnny Dorelli e altri che
forse era stata di mia madre. Avevamo anche un mangiadischi, pure quello rosso,
ma gli Ellepì non c'entravano.
Mio padre dalla Francia mi aveva portato un 45 giri che cantava
canzonette francesi, penso ricavate da filastrocche tradizionali, sulla
copertina colorata e plastificata c’erano disegni e i testi. Io non ci capivo
granché, ma mi piacevano, ci immaginavo situazioni e scene transalpine.
Da bambino e poi da adolescente sono stato in Inghilterra, la
prima volta solo a Londra, la seconda fino in Scozia e al Loch Ness. Avevamo
parenti a Carlisle, proprio vicino al confine a nord, alcuni di loro veramente
simpatici.
Quando venivano in Italia per le ferie, le donne come gli uomini,
bevevano come dannati mischiando tutto. Anche i nonni avevano vissuto là da
giovani, insieme ad altri parenti e alcuni di loro ci si erano arricchiti, per
tornare a Mologno o a Barga. I nonni per fortuna invece non avevano fatto i
soldi, erano tornati prima e non erano diventati antipatici.
Mio padre normalmente era ostacolato da mia madre nei suoi
progetti di viaggi futuri, ai quali si era abituato forse per i congressi dei
medici, in giro per l’Europa, a volte anche fuori, nei quali era sovvenzionato
dall’associazione.
Ogni anno voleva andare da qualche parte, meglio se all’estero.
Mamma non era così appassionata di cose per le quali si spendevano soldi e
doveva convincerla con un lavorare di lima e stucco, per mesi e mesi.
Praticamente un anno prima cominciava a scassare i cosiddetti e
intanto preparava il viaggio sulle cartine, su guide come il Touring Club e poi
se le studiava durante e dopo, diceva che così viaggiava tre volte.
Io non ci volevo andare, ma poi mi garbava, anche se non lo
confessavo si vedeva. Il rapporto con mio padre non è mai stato facile, non
sempre per colpa sua.
Una volta a Londra non volevo uscire dall'albergo perché c'era una
partita di seconda divisione alla TV, Millwall-Qpr 0 a 0 !
Alla fine era un burbero benefico, la passione per i viaggi ce
l’ha tramandata un po’ a tutti e tre i figli, ma la parte buona l’ho scoperta troppo
tardi, forse perché voleva fare il prepotente e i tempi stavano cambiando, i
padri padroni erano già in disuso.
In Inghilterra la birra gli piaceva ma non troppo, quando trovava
dei negozi di prodotti italiani ne approfittava e faceva dei piccoli stock di
bottiglie di vino, sia in Inghilterra che in Scozia. A Glasgow trovò un negozio
la mattina e per tutto il giorno ci caricò un po’ troppo. Mio fratello Umberto
si lamentò con lui dicendo la frase che poi rimase negli annali:
“Compra sempre le vernacce e poi ci tocca portarle a
noi.”
Effettivamente le bottiglie erano diverse e pesanti, portarle
tutto il giorno, su e giù nelle nostre lunghe camminate da turisti era una
tortura.
GASTRONOMIA
Un cenno sulle mie abitudini alimentari può giovare forse a capire
un'indole pigra, ma piena di attività mentale, che poi sfociava in un
conseguente movimento, che è sempre stato cercato e ottenuto in funzione del
piacere, che ho più o meno sempre provato per l'attività, non frenetica ma
abbastanza continua. Lo sport per esempio mi stimolava degli appetiti
considerevoli, specialmente il calcio, ma poi il tennis e la corsa, camminate
in seguito, da anzianotto.
Da bambini, la sera caffelatte e Biscotti Della Nonna o Bucaneve
per anni, per un certo periodo cracker imburrati, ne ricordo anche l'uso
mattiniero a Valbona
Ho sempre mangiato tanto e un po' di tutto, il pesce l'ho iniziato
ad apprezzare a Berlino, forse perché prima veniva cucinato male e lì invece
no, al ristorante La Marmora. Anche a periodi, ma ho mangiato di tutto e
piuttosto alla svelta e quindi ora in vecchiaia ho problemi di digestione. Non
mi sono mai piaciuti: la cacciagione, il fegato, la trippa e i cetrioli.
Mio fratello Umberto da piccolo ha passato periodi lunghissimi
mangiando solo una cosa, sempre quella. C'è stato il periodo delle patate
fritte, quello degli spaghetti alla pomarola e per ultimo quello dell'uovo al
tegamino.
Mio padre spesso diceva che mia madre passava poco tempo
cucinando. La povera donna, oltre a fare il suo lavoro di maestra elementare,
ci faceva da mangiare a tutti e a volte avevamo cinque pietanze differenti. In
vecchiaia il cibo per noi era rimasta la sua ossessione, anche molto tempo dopo
aver smesso di cucinare. L’alzheimer le aveva oscurato tanti ricordi e
pensieri, ma le sembrava che fosse sempre domenica e doveva per forza
prepararci qualcosa di speciale.
La cena di natale da noi più che altro era un pranzo, che si
faceva il 25, il 24 significava la Messa del Gallo alla quale a volte andava
anche mio padre, per motivi romantici. Dalla nonna, a Mologno, preparavano
montagne di roba, a noi bambini non ci piacevano molto, eravamo abituati a una
cucina molto più raffinata. Per esempio il pomodoro del sugo di carne doveva
essere rigorosamente senza pelle.
Mio padre non mangiava il pollame, la cacciagione e il pesce. La
domenica e per le feste comandate mia madre doveva preparare qualcosa che
andasse bene per tutti, ma non era affatto una faccenda semplice. Di solito
erano i tordelli, gli gnocchi, le lasagne, tutti fatti in casa da lei, con il
famoso sugo di carne, che gli eventuali ma rari ospiti apprezzavano anche
parecchio. Di secondo l’arrosto di manzo o il polpettone, patate arrosto.
Talvolta i quadri di mio fratello servivano da ripiano per fare la pasta
casalinga, per le lasagne e i tordelli. E poi anche gli gnocchi di patate, che
non sono più riuscito a trovarne di paragonabili da nessuna parte. Insomma mia
madre cucinava bene assai e faceva tutto a occhio, quasi mai seguendo le
ricette nelle quantità.
Nelle vacanze a Lido di Camaiore mi ricordo il ristorante Da
Beppino, il quale dicevano che era omosessuale e che aveva lavorato in altri
ristoranti famosi, ma che poi aveva aperto questo abbastanza inusuale, perché
si apparecchiava in mezzo a un campo a mezzogiorno, con degli alberi alti
intorno che facevano ombra perché era agosto, era un caldo bestiale e lui
portava da mangiare alla numerosa gente seduta a questi grandi tavoli in mezzo
a un campo.
Vedo ancora lui magro abbronzato con pantaloni neri e camicia
bianca, mi pare che fosse l’unico a servire e doveva galoppare assai, ma era
bravissimo. L’idea era buona, e soprattutto si mangiava bene, abbastanza
rustico e campagnolo. Della pastasciutta al sugo di carne, striscine con patate
o insalata, mai niente di molto complicato, però era tutta roba sana e si stava
bene, via, era un tipo di atmosfera differente da tutti gli altri. Chissà come
è andata a finire, ho domandato in giro ma nessuno si ricorda.
La mattina presto al bagno Ninetta era fatta di mare liscio e di
rumori caratteristici come quello dei pescherecci di ritorno a volte. Egisto
era il bagnino, aiutato da ogni tipo di volenterosi passava la sciabica per
pescare pochi pescetti e noi bambini anche tiravamo dai due lati la grande
rete. Una volta gli dissi che mia madre aveva detto se ci poteva dare delle
triglie e lui bestemmiò tra i denti, perché ce ne saranno state due o tre,
piccolissime, erano biancastre ma si riconoscevano per le pinne rosse e per i
barbigli.
Una notte mio cugino Saverio ospitato da
noi per qualche giorno, mi chiese, mentre dormivo, perché non mi comprassi un
carro armato. Io continuando a dormire - e questo me lo ha raccontato lui,
perché io non ne avevo nessuna memoria - gli ho risposto di no, che in effetti
non mi serviva.
ZIA MAGALI
Erano i tempi di guerra e subito dopo, c’era tanta miseria,
secondo mio padre, a casa Bartelloni si preferivano le mele marce alle buone,
tanto per non buttarle via. Mentre mangiavano quelle, marcivano anche le altre.
Questo un dialogo spesso ripetuto tra nonna Gianna e sua figlia:
- Com’è cattiva questa mela, la vuoi Magali?
- Se è cattiva, la devo mangiare io?
- Ma non è proprio cattiva, insomma... magari è perché non ho più fame, allora,
la vuoi o no?
E lei la prendeva e la mordeva, più che altro per bontà, più che
altro per vocazione, per religiosità.
La mangiava, anche se non aveva fame, perché, se non lo faceva, si doveva
buttare via... ed era peccato mortale.
È sempre stata molto cattolica, Magali, ma non per mostrarsi
fedele alle leggi di Dio, lo era nel profondo, alla lettera.
Puritano il suo modo di vedere le cose, non ha mai avuto un uomo,
non ha conosciuto il sesso, o l’amore per una persona che non fosse quello per
qualcuno della famiglia, o per qualche amica.
Sua sorella Ada era una bella ragazza ed era considerata di più,
magari lo meritava meno di lei.
Le sue amiche erano due sorelle zitellone, che da giovani e poi da adulte
possedevano e gestivano un deposito di dolcetti, di generi alimentari e per la
casa, per cui erano soprannominate le Deposite.
Erano famose per la loro ignoranza, oltre che per i ramificati
pettegolezzi e morirono vergini anche loro.
Una volta venne fuori una voce che mio padre aveva un’amante. Mia
zia telefonò a mia madre, perché la colpa era sua, secondo Magali, che lo
trascurava, che lo aveva obbligato a fare una cosa del genere.
Mia madre non riuscì nemmeno a dire una frase, fu investita da un
treno di parole che finì solo quando mia zia riattaccò il ricevitore.
Zia Magali veniva in visita da noi e ci rimaneva a volte per giorni,
oppure noi bambini venivamo lasciati un po' da lei, a Marilia.
Quando mio padre si ammalò lei rimase per quasi un anno a casa
nostra al Manicomio, col mio fratellino Umberto, mentre io e mia madre stavamo
a Valbona cinque giorni su sette.
Io le dicevo sempre che quando sarei diventato ricco l’avrei
mandata a prendere con la mia limousine, per venire a stare a casa mia.
Poi ricco non sono mai diventato ed è stata lei, invece, che ha
lasciato a tutti noi nipoti qualche bel milioncino di vecchie lire, quando è
morta.
Parlava sempre della gente del paese di Marilia, che però noi
tutti non conoscevamo. Pure mio padre, spesso, non si ricordava e si arrabbiava
come una bestia, quando lei insisteva nel volergli spiegare chi era quel tale
all’ospedale o quell’altro, appena morto, stanco della giornata di lavoro,
voleva solo stare in silenzio a guardare la televisione.
Andavamo in giro con la mente, quando lei partiva per tutta quella
serie di ragionamenti, che anche quando c’impegnavamo a farlo, avevamo
difficoltà a seguire.
Quella sfilza di gente che noi non avevamo mai conosciuto, era
troppo lontana dal nostro mondo, anche se il paese dove lei e mio padre erano
nati e cresciuti non era a più di quindici chilometri di distanza.
Uno dei protagonisti principali dei racconti era il prete di
Marilia, il Piovano, che siccome stava nella Pieve, lei chiamava Pievano.
Storpiava alcune determinate parole, diceva telefanare
invece di telefonare e polistirolo
invece di colesterolo.
Quando per la prima volta vidi i dinosauri nell’enciclopedia
Conoscere, ne rimasi impressionato e chiesi a mio padre com’erano, cosa ci
facevano sul nostro stesso pianeta, la gente come poteva convivere con quei
mostri?
Mio padre rise di gusto e disse che lui non era ancora nato,
purtroppo, ma avrei potuto chiedere a zia Magali.
Così andai da lei ansioso di avere una risposta.
Magali sorrise e disse che non era poi così vecchia. Non c’era
rimasta male, mi resi conto molto dopo che non c’era niente in lei di vanitoso.
Quando mia zia nacque, la famiglia era alla sua terza esperienza,
avevano già un bambino e una bambina, era appena finita una guerra, alla
prossima mancavano ancora venti anni, ma loro non ci pensavano, non potevano
saperlo. Le attenzioni si allontanarono subito da lei, non ci sarebbe nemmeno
stato bisogno che nascesse un quarto e ultimo figlio, mio padre, perché ci se
ne dimenticasse.
Sia fisicamente che moralmente dovette battersi per conquistare il
suo posto, anche se non era un granché, lottò ancora di più per abituarcisi.
Sviluppò le sue qualità internamente, non erano virtù brillanti, ma piuttosto
una certa resistenza alla sorte avversa. La sua vita è stata più continua e
coerente di tante altre, non tanto per scelta, ma quasi per condanna.
Attraverso la testardaggine, tipicamente italiana e peculiare
talento di famiglia, la sua missione sulla terra è stata chiara fin
dall’inizio: viveva per il bene degli altri, dando poca importanza a sé stessa.
Zia Magali era grassoccia, almeno da adulta, camminava con passi
incerti, usava il bastone bianco dei ciechi, negli ultimi tempi. A volte cerco
d’immaginare come era il mondo visto da lei; secondo le sue parole era un
carosello di ombre grigie. Non conosceva i colori, i rammendi che faceva ai
calzini provocavano la rabbia di nonna Gianna.
Gli occhi di zia Magali erano belli e celesti, grandi e luminosi,
ma si vedeva che non vedevano, almeno non nella maniera comunemente intesa. Ho
visto le sue foto, quando era piccola, aveva un viso grassoccio, il naso largo,
gli occhi ingigantiti da lenti spesse. La vista da bambina era poca, ma è
andata peggiorando col tempo, se prima poteva leggere accostando le parole agli
occhi, se poteva uscire e camminare, con una certa prudenza e cadendo, a volte
malamente, col passare degli anni, tutto è progressivamente degenerato, finché
in vecchiaia non leggeva più nulla e camminava sempre meno. Usava la
televisione come se fosse una radio, non poteva più uscire di casa da sola
senza troncarsi una gamba o fratturarsi un braccio.
Andava avanti senza dare troppa importanza a quello che non
avrebbe mai avuto, non ha mai saputo nemmeno come erano fatte certe cose. Non
conosceva piaceri vani, scarsamente durevoli, che facevano diventare le persone
altezzose, vanitose. La fortuna di Magali è stata il non sapere nemmeno da che cosa
sono costituite le situazioni vuote di cui molte persone riempiono la loro
vita.
Se da una parte le sono mancate la vista e la bellezza, dall’altra
le sono cresciuti altri attributi. Le ho voluto un gran bene, non perché fosse
mia zia, ma forse perché era diversa da tutti gli altri, ho sempre sentito un
contatto buono con lei, qualcosa di confortante.
È morta già da qualche anno, ma per me è ancora viva, perché noi
abbiamo sempre comunicato fuori e oltre le parole, forse perché ci vedeva
sempre peggio, la sua idea di me era una cosa che non aveva bisogno di
apparenze.
I suoi modi non erano gentili, ma nemmeno scortesi, diciamo che
non faceva troppe cerimonie.
Mi ricordo zia Magali tutta rugosa e con quel naso largo, i suoi
labbroni, i suoi occhiali dalle lenti spesse le ingrandivano quegli occhioni
che pareva che non vedessero, ma che alla loro maniera vedevano più degli
altri.”
PRIMA DEL 1966
La storia della mia vita cominciò al manicomio e questo basterebbe
già per capire tutto. In realtà sono nato alle Barbantine, cioè in città, però
in quell'epoca la mia famiglia viveva a Marilia, nella casa paterna.
Di quei primi due anni naturalmente non ricordo niente, però
alcune cose sono venute fuori dopo, frequentando quella stessa casa in visita
alla famiglia di mio zio Lorenzo, che abitava al primo piano e al piano terreno
c'era invece zia Magali, dalla quale venivo lasciato spesso in alternativa ai
nonni materni, in Garfagnana o quasi, tutte le volte che i miei dovevano
assentarsi per qualche giorno, per una qualche vacanza, anche viaggi
all'estero, per dei Congressi dei Medici in tutta Europa una volta mio padre
andò anche in Tunisia.
La casa di Marilia e la casa di Mologno erano diventate parte
della mia storia, anche perché in quei due posti scoprivo cose nuove e la mia
vita era differente da quella che poteva essere quella del manicomio, che era
comunque abbastanza interessante perché avevamo un grande spazio a disposizione
e potevo liberamente circolare in bicicletta o a piedi per una regione abbastanza
vasta.
Cose che i bambini di oggi nella stessa zona della Toscana non
sono assolutamente liberi di fare e poi non mi si venga a parlare della qualità
di vita, che invece di migliorare è peggiorata.
Il manicomio di Miggiano sembrerebbe piuttosto far parte di
S.Marta in Collina. Se la geografia politica gli dà questo nome, è perché il
suo territorio si allunga di sbieco sulla collina, oltre una fitta macchia di
alberi, dal sottobosco umido e impenetrabile. Ultimamente lo hanno chiamato
Fondazione Marco Torino e c'ha pure il suo bravo valore storico da preservare
perché è nato, come monastero, addirittura nel 560 dopo Cristo.
È noto che abbia respirato gli odori di una bella fetta di storia,
molto tempo prima che l'Italia avesse questo nome, quello strano luogo in cui
arrivai, da bambino che appena camminava.
Sono cresciuto nel grande recinto di un manicomio, non perché
eravamo matti - e non che non lo fossimo - ma mio padre ci lavorava come
neuropsichiatra. La nostra seconda casa non fu nostra, nemmeno la prima, però
non pagavamo l'affitto. Mio padre era all’inizio della sua carriera e non aveva
soldi per comprarne una.
Assai grande e dai soffitti alti, con un vasto giardino che era
campo di battaglia e di calcio, superficie lunare, foresta, mare e tutto quello
che potevamo inventare io e Umberto, mio fratello nato in una notte in cui mio
padre era a pescare con gli amici.
Oltre al grande giardino c’era anche un orto di equivalente
superficie, dove facevamo laghetti di fango e giocavamo con il proposito di
diventare marroni. C’erano una decina di peri in fila a dividere per il loro
diverso uso, i due appezzamenti di terra, anche se per noi la funzione era la
stessa.
C’era un magazzino degli attrezzi e dei giocattoli e di moltissime
altre cose come giornali vecchi e oggetti che non conoscevo, ma che usavo con
mio fratello per i vari giochi che inscenavamo nel vastissimo spazio a nostra
disposizione, che pochi bambini ne hanno avuto uno paragonabile.
Lo dovevamo dividere, oltre che con il personale medico e paramedico,
con i vari inservienti e con i cosiddetti malati,
come li chiamava mio padre.
I quali, poveracci, stavano lì perché non potevano andare altrove
e a casa non li volevano, parevano bambinoni ingabbiati e dagli occhi
arrossati, colla barba lunga, i capelli ritti e gli sguardi perduti. I loro
recinti, divisi per tipo e gravità di malattia, erano dentro quello grande,
tutto a nostra disposizione.
Era come una città, piena di verde, grandi alberi, vasche di pesci
rossi, edifici antichi, strade e sentieri... ma non c’erano altri bambini.
Vivere i primi anni della nostra vita in un manicomio, certamente
ci porta a pensare in una maniera differente dagli altri.
Dopo aver ricevuto qualche schiaffone, per un qualsiasi motivo, da
mio padre o da mia madre, sentendo di aver subito un'ingiustizia, scappavo di
casa e resistevo, solo contro tutti, anche contro il tempo. A volte anche
un'ora. Stringendo i denti, perfino due.
Dopodiché non mi pareva più una cosa pratica, il melodramma era
affascinante, d’accordo, ma svaniva inevitabilmente nel primo bussare
dell’appetito. Era opportuno rimanere nei pressi per spiare le reazioni, che
però tardavano in maniera insopportabile a manifestarsi e tutta la drammaticità
della situazione ne soffriva irrimediabilmente. Allora rientravo senza che
nessuno se ne fosse accorto. Forse però stavano solo fingendo.
Il melodramma, la commedia, il teatro, il conseguente e più
moderno cinema, sono stati inconsciamente sviluppati nel quotidiano, dal tipo
di famiglia in cui sono nato e vissuto, dove si litigava spesso e si gridava
sempre.
La polemica era il più frequente motivo di dialogo, spesso pareva
un’arringa di un avvocato, oppure di un attore che impersonava un avvocato o
una avvocatessa, nel caso di mia madre, unica e formidabile femmina in mezzo a
quattro tremendi maschi, già che un mio secondo fratello nacque, poi, dopo il
trasloco in una terza casa.
La mia potrebbe anche essere stata una di quelle che si dicono
infanzie felici. Però ha avuto qualcosa di più e di meno, nel senso che crescere
in un manicomio, per un bambino è certo un’esperienza che rimane indelebile per
tutta la vita.
Mio padre era un uomo chiuso, colto e intelligente, a suo modo
anche simpatico, ma spesso poco positivo, incapace di controllarsi in alcune
situazioni.
Tutto questo certo ha segnato l'inizio e lo sviluppo della mia
famigerata sensibilità.
Quella era la mia realtà, un rapporto vissuto con giornalieri
contrasti psicologici, nel bene e nel male, in una battaglia dove il cuore
batteva forte, dove i sentimenti non solo esistevano ed erano pure assai
vivaci, ma erano mascherati da una drammaticità che andava sempre,
sistematicamente, oltre la realtà.
Avrei potuto diventare un attore, un regista o un pazzo, invece
iniziai a scrivere. Ho pensato che le altre cose le avrei fatte dopo con calma,
ma non mi si è presentata ancora l'occasione.
Un giocattolo vivo fu il gattino Patisci, tra i più magri e
bruttarelli che ci potessero essere e con tutti quelli che circolavano per il
recinto del manicomio potremmo dire che la scelta fu più sua che mia, ma poi mi
ci affezionai tantissimo.
Il nome glielo dette mio padre per causa della sua malattia: aveva
la rogna.
Il manicomio era pieno di gatti, il cibo che avanzava dei malati
era il loro sostentamento e vivevano all'aperto, specialmente vicino ai
padiglioni occupati, per sfruttare le rimanenze di cibo.
Dietro il padiglione più vicino alla mia casa c'era l'accampamento
più grande dove abitavano in tane ricavate in un boschetto decine di gatti che
erano diventati quasi selvatici.
D'agosto i calabroni invadevano lo spazio per fare festa: un
dentro e fuori le pere marce cadute a terra. Noi due, piccole pesti ignare del
pericolo, affascinate da quegli insettoni ronzanti, giocavamo a dargli delle
bastonate, con tutta la forza che avevamo, a loro e alle pere. Il nostro
movimento mulinava, liquidi misti schizzavano di qua e di là e noi fuggivamo e
tornavamo per dargli altre bastonate, ridendo e correndo, senza che ci
capitasse niente di male. I calabroni si spiaccicavano, è vero, ma poi ne venivano
altri e il gioco continuava.
Finché una mattina, mio padre si rese conto di quello che stava
succedendo e intervenne. Si guadagnò una provvisoria zampa d’elefante al posto
della mano e noi fummo salvi.
Ero un bambino vivace, si può capire dalle espressioni della
faccia, nelle foto, ma anche dalle affermazioni entusiastiche di parenti ed
amici di famiglia. Non ero affatto timido, durante i miei primi passi sul
pianeta, al contrario, ma attualmente cerco di dissimulare. Sul viale a mare, a
Viareggio, appena avevo imparato a parlare, ecco che ne approfittavo subito per
chiedere cinque lire ai villeggianti a passeggio.
Volevo comprare quelle sfere di plastica trasparente delle
macchinette automatiche, che contenevano automobiline, soldatini o cose del genere.
Mio fratello Umberto, come tutti i grandi geni, viveva con la
testa in mezzo alle nuvole. Approfittavo sempre della sua lentezza dando
prontamente la colpa a lui, quando mi si accusava di qualche misfatto. Se
veramente era lui che aveva fatto il danno, allora facevo la spia.
I nostri genitori avevano un ruvido metodo per formare una scorza
dura per noi figli: se ci capitava qualcosa di male, la colpa era sempre
nostra, qualunque fosse la situazione, o l'eventuale antagonista. Se esisteva
una qualsiasi discordia, la ragione era sempre degli altri, non c’era nemmeno
bisogno di discutere.
Ora da adulto, qualsiasi cosa che accade, io faccio un rapido mea
culpa di routine, scoprendo che una parte di torto ce l'ho sempre anch'io. Con
il tempo ho cambiato leggermente il sistema, cercando di capire veramente i due
lati, senza attribuire a me stesso troppo facilmente ragione o torto.
Il trucco è che se si dà la colpa agli altri, come tanti fanno,
poi ci si sente impotenti, ma se la responsabilità è nostra, anche solo in
parte, ci si può lavorare sopra. Nelle giuste proporzioni, se amministrato con
saggezza, il sistema funziona e la nostra pellaccia è veramente dura come
volevasi forgiare.
Durante alcun tempo fuggivo correndo regolarmente dal mio letto
per rifugiarmi nel loro, specie la mattina presto, quando mi svegliavo e mi
trovavo solo e bisognoso d'affetto. Una mattina entrai timidamente dalla porta
mentre mio padre stava russando, come era sua abitudine, in maniera abbastanza
irregolare, sia per volume, che per intensità e durata. Mentre stavo passando
il confine della soglia, per estrema sfortuna e coincidenza, il genitore sparò
un grugnito assai più sonoro, tanto che mi spaventò e fuggii di nuovo nel mio
letto.
Da quel giorno smisi di andarci e nacque una nuova era. A quei
tempi una vecchia biciclettina con il manubrio da ciclista fu il più
straordinario giocattolo che abbia mai avuto.
Facevo il Giro d’Italia, nel circuito che saliva girando attorno
alla parte vecchia del manicomio, per poi scendere dall’altra parte.
Il Giro di Francia era invece attorno al padiglione delle donne,
cominciava in discesa, poi dopo aver girato intorno al grande edificio, in
mezzo a platani altissimi, si risaliva in direzione di casa mia e l'arrivo era
in salita.
Un giorno tornati dalla Spagna i miei genitori mi portarono dei
piccoli corridori ciclisti di plastica.
Iniziai allora, in loro omaggio, anche il giro di Spagna.
Poi integrai i giri in bicicletta con quelli dei piccoli ciclisti
di plastica, come due rappresentazioni complementari di uno stesso gioco, visto
da lontano e dall'alto o in primo piano.
Mio padre diceva che mi piaceva giocare coi soldatini, le palline,
le cose piccole. Notava anche la mia voglia di uscire sempre dalla realtà, come
per esempio se ero in macchina facevo finta di essere su un’astronave; su una
barca, di essere su un aereo, se veramente ero su un aereo allora immaginavo di
essere in un sommergibile e così via.
Molti anni dopo ho compreso che quando gioca, il bambino entra in
una dimensione libera, in un presente assoluto, spazza via i doveri, le paure…
ed è felice.
Se non permettiamo al mondo di atrofizzare questa parte della
nostra personalità, efficacemente capace di astrarsi, avremo sempre una marcia
in più, una possibilità supplementare di evadere dalla realtà, che a volte ci
appare troppo stretta.
Tornando al manicomio in questione, la
vita che abbiamo avuto là è stata interessante e piacevole, io avevo uno
spazio enorme a mia disposizione, la mia fantasia penso che si sia sviluppata
in una maniera differente dagli altri bambini proprio per la mia infanzia al
manicomio, non c'erano altri bambini e gli adulti erano tutti abbastanza ben
disposti verso di me, che giravo con una biciclettina con un manubrio da corsa
e che giocavo poi anche insieme a mio fratello Umberto.
All’inizio andavo all'asilo, poi a scuola,
ma le visite di altri bambini a casa nostra erano abbastanza rare, tra cui c'è
stata sicuramente più spesso quella di Raffaello Paloschi e qualche volta di
Mauro Del Grande.
La demenza senile sta arrivando e mi sono
messo fretta per terminare la mia seconda autobiografia. Ho romanzato un po’,
certi dialoghi sono inventati, ma senza cambiare la sostanza nel raccontare,
sempre se la memoria non m’inganna.
La storia della geografia ovviamente coincide abbastanza con la
geografia della storia. Della geografia pura all’inizio se ne fece meno uso, ma
con l’andar del tempo gli spostamenti aumentarono e certo anche gli eventi,
insomma tutto si è intensificato, quando ho scoperto che le mappe corrispondono
veramente a laghi, fiumi, colline, montagne e mare, paesi e città fatti di
case, palazzi e ponti e così via.
Quella casa antica era sede anche della posta di Marilia, dove
tutta la famiglia aveva lavorato. Di quel mondo polveroso e antico faceva parte
anche zia Magali, sorella di mio padre. A Marilia, in quei miei primi due anni
passai una bella porzione di tempo con lei. Dopo, ogni volta che mi vedeva, mi
raccontava che gli avevo fatto la pipì in tasca tante volte, da neonato, quando
i pannolini non esistevano e le fasciature che si adoperavano erano tutt’altro
che ermetiche. Per fortuna lei era dotata di una grande pazienza e di una
vestaglia impermeabile.
Anche mio zio Lorenzo, come mio padre, aveva sposato una donna
della Garfagnana, che da Marilia sono quaranta chilometri e a quel tempo ci
voleva un bel po’ ad arrivarci.
Era un uomo consumato dal cancro, l’ho sempre visto a letto,
scheletrico e in mutande e canottiera, sempre allegro e con la sigaretta in
bocca, alla luce artificiale giallastra di camera sua.
VALBONA
“Da casa nostra a Valbona c’erano vari chilometri e raramente in
pianura o in discesa, corrispondenti a più di un’ora di treno, mezz’ora di
automobile e un’ora a piedi. Salivamo verso la montagna ancora in quei vagoni
dai sedili di legno, trascinati dalle ultime locomotive a vapore.
L’uomo che ci scarrozzava con la lucida Millecento grigia era
Righetto, un baffino piuttosto sull’ambiguo. Ricordo l’odore di plastica dei
sedili e il fumo della sigaretta sempre accesa. Non stava un secondo zitto, ma
non diceva mai niente d’interessante. Da Castelnuovo ci portava fino a Isola
dove la strada terminava. A volte c’era anche l’altra maestra, la signorina
Laura, che abitava non lontano da noi.
Al bivio, dalla provinciale, la strada sterrata si buttava giù a
picco come nelle Montagne Russe. A Isola continuavamo a piedi caricati delle
nostre valigie.
Una volta che aveva piovuto assai, camminammo per un bel po’
affondati mezzo metro nel fango. Per me fu divertente, un’esperienza nuova, era
come passeggiare dentro la Nutella, ma senza profumo di nocciola. Mia madre,
però, imprecava a denti stretti.
Il sentiero, qualche curva prima dell’arrivo, passava di fronte ad
una casa abbandonata che si chiamava Taccona. Nei mesi più caldi lì
intorno era pieno di serpi, sento ancora l’odore dolciastro di una grossa
biscia morta, sulla strada polverosa.
La scuola era stata costruita quasi sul greto del ruscello, solo
un po’ più in alto per via delle piene ed era la prima cosa che si vedeva del
paese, passato l’ultimo costone di pietra.
A volte, nell’intervallo delle dieci e mezza, andavamo a giocare a
nascondino nella legnaia. C’era una montagna di mezzi tronchetti, della misura
giusta per la stufa, dall’intenso odore un po’ muschioso, che ogni volta che
sento mi viene in mente quell’immagine. Quando in mezzo alla legna trovarono
una vipera e una nidiata di viperine, non ci potemmo più andare a giocare; da
allora, la porta poi rimase sempre chiusa.
Salendo verso il paese, a destra c’era un forno dove i genitori di
Nico, Sabina e Giuli, che erano pastori, facevano dei pani enormi, che poi
tutto il paese mangiava per una settimana. La prima volta che vidi sfornare
quelle pagnottone era maggio. Sotto il lampione, dalla luce bluastra, c’era un
vortice di maggiolini, alcuni di loro storditi dalla luminosità e dal calore
cadevano a terra ai nostri piedi.
Sulla salita, prima di arrivare nella piazzetta, viveva la
Florinda, che era una vecchietta che aveva la porta di casa divisa in due, per
poter aprire solo la parte di sopra quando c’era la neve alta. Era famosa
perché mangiava pezzi di formaggio pecorino stagionato dentro il caffèlatte.
Una volta mio padre, che era medico, la visitò e siccome non
voleva essere pagato, lei gli regalò un salamino nerissimo e rinsecchito, forse
originariamente una salsiccia, che comunque doveva aver custodito gelosamente
chissà quanto, in attesa di una degna occasione per sacrificarlo.
A Valbona rimanevamo cinque giorni e tornavamo a casa solo per il
fine settimana. Mio padre era malato, costretto a letto. Al Manicomio, con lui,
stavano mia zia e mio fratello più piccolo, che aveva tre anni. Eravamo nel
1964.
A mezzogiorno, dopo la scuola, mangiavamo tutti insieme in una
stanza con un lungo tavolo e un’unica finestra. Indiretta ma intensa luce che
veniva da fuori, trasformava tutto in un film in bianconero, con pochissimo
grigio, i contrasti esaltati.
La sera la luce delle lampadine era fioca, ma ci si vedeva a
sufficienza, anche se, qualche volta, si rimaneva a luce di candela. A Valbona
l'elettricità era un lusso e spesso mancava, di solito quando c'era la partita
alla televisione, ma non solo. La stanza allora era gremita di tutti i suoi
abitanti, che non erano pochi, più alcuni sportivi del paese. Se mancava la
luce, aspettando - a volte invano - che tornasse, si giocava a carte, con varie
candele accese ed era senz’altro più divertente.
I Lunardi erano gente ospitale che aveva l'unico negozio del paese
che era posta, telefono pubblico, bar, alimentari e vendeva anche articoli per
la casa e ferramenta da lavoro. Insomma: tutto quello che si poteva comprare o
ricevere, dal mondo circostante era lì, o non c’era. Tutto quello che esisteva
era stato trasportato sulla schiena di un mulo, certo la cabina telefonica era
smontabile.
Il padre dei miei due migliori compagni di gioco, Patrizia e
Arnaldo, faceva il postino e durante il giorno non c’era quasi mai. Invece
c’erano sempre: la madre, la nonna da parte del padre e la nonna da parte della
madre. Le tre donne di casa adulte litigavano ogni sera per chi dovesse lavare
i piatti, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, tutte e tre ambivano a
lavarli.
Insieme a noi alloggiava anche l’altra maestra, che veniva dal
Quercione, la signorina Laura.
La valle era scura e umida, non ci batteva mai il sole. Tutte le
case del paese erano fatte di grosse pietre dagli angoli smussati dal ruscello,
la via lastricata di piccole pietre arrotondate, disposte a scalini nei punti
più ripidi. Le numerose pecore e capre provvedevano a foderare gli interstizi
di olivette nere dall’odore fragrante.
Sull’altra riva non c’erano costruzioni, eppure là c’era più luce
e calore solare. Magari agli inizi non c’era il ponte e tutto fu costruito dal
lato della strada provinciale, anello di congiunzione con il resto del mondo.
I paesaggi erano belli e selvaggi e a primavera tutto si riempiva
di fiori di tutti i colori. Allora facevamo gite sulle montagne circostanti,
visitando le case più isolate dei miei compagni. Alcuni di loro dovevano
camminare per un’ora e più, ogni mattina, per arrivare a scuola e poi per
tornare. Mentre camminavamo, gli adulti raccontavano storie di guerra e di
scheletri ritrovati di soldati tedeschi o di partigiani.
La sera, prima dell’imbrunire, spesso si andava agli orti, che
erano subito fuori il paese, per raccogliere verdure coltivate e erbe
selvatiche per fare l’insalata. Gli abitanti di Valbona in tutto non erano più
di una ventina. I bambini erano cinque e tutti miei compagni di giochi. Le
poche case, arrampicate sulla montagna e appena sopra il ruscello impetuoso e
dalle acque gelate, erano sovrastate da grandi abeti che lasciavano cadere
delle pigne allungate che di volta in volta, diventavano uccelli, pesci,
pistole, bombe a mano e un’infinità di altri oggetti o animali, nei nostri
giochi. Quando c’era la neve il paese rimaneva isolato, ma per i bambini era
sempre una festa, arrivavamo a sera bagnati e paonazzi.
Nei primi tempi, avevamo alloggiato nella stessa piazzetta, in una
delle poche case che si aprivano su quell’unica area pavimentata, insieme alla
chiesa. Dietro c’era un precipizio, dove buttavano la spazzatura del bar. Tra i
fondi di caffè e altri rifiuti, riuscivamo a trovare i preziosi tappini della
birra Peroni, che poi usavamo come monete tra di noi. Da lì, se uno cadeva
andava a tuffo dritto dentro il ruscello.
C’era un piccolo parco pubblico con immagini sacre, statuette di
divinità cattoliche, aiuole piante e fiori, tutto abbastanza modesto e dimesso,
credo che fosse la chiesa che era davanti, a pochi metri che se ne occupasse,
almeno a livello amministrativo.
Una chiesa che aveva un sacerdote stabile che abitava lì, in quel
paese di poche anime, isolato dal mondo.
Nelle mattinate d’inverno, per lavarsi, a volte si doveva rompere
il ghiaccio della brocca smaltata e versare l’acqua nella catinella, poi con
zampate leggere da gatto ci si doveva bagnare il meno possibile. Spesso i panni
stesi ad asciugare congelavano e diventavano duri come baccalà.
Ogni tanto mia madre sentiva pena di svegliarmi, la mattina,
quando era troppo freddo, allora mi lasciava la colazione con un messaggio
scritto sul cartone dei biscotti, quando mi svegliavo la raggiungevo a scuola.
Una notte un topo enorme ci stette a guardare incuriosito, per un
bel po’, da sopra all’armadio, mentre cercavamo di renderci conto se quella era
proprio la realtà o se stavamo sognando.
Nella seconda casa dove siamo stati ospitati, dai Lunardi, nella
camera dove dormivamo noi, io e mia madre, c’era tutto l'intonaco nel soffitto
scrostato. Va detto che anche era molto freddo e umido, le macchie del soffitto
avevano delle forme che ogni giorno mi davano delle impressioni differenti. Per
esempio un giorno mi sembrava una certa forma di Lombardia, il giorno dopo
magari diventava il Piemonte, quella che era una Toscana poteva facilmente
qualche giorno dopo diventare una Corsica, forse dipendeva anche dalla
stanchezza o dall’inclinazione della mia testa sul lettone.
Facevo la prima elementare, ma avevo solo cinque anni, con mia
madre come maestra e in una classe con prima, seconda e terza insieme, perché
di ognuna c’erano solo uno, due o tre bambini. Quando mia madre interrogava gli
altri, le risposte erano troppo facili e se ne uscivano da sole dalla mia
bocca. Ne ricevevo subito il meritato premio a manate.
I bambini di pianura, per non parlare di quelli di città, sono
sempre stati più rompiscatole di quelli di montagna, chissà perché.”
MASSACIUCCOLI
“Con mio padre e altri suoi amici andavamo quasi tutti i fine
settimana alla baracca sul lago di Massaciuccoli.
Era una palafitta di legno di cui vari soci approfittavano, con la
scusa di pescare, per prendersi delle epiche e nobili sbronze. Erano tutti
infermieri, medici e portieri del manicomio. Non potrei affermare, se qualcuno
me lo chiedesse, che la pesca non gli interessasse, perché ci si dedicavano con
passione. Anzi, quando non pescavano niente, si avvilivano e bevevano anche di
più.
Questi amici della buona compagnia e del fiasco di vino, erano
anche delle figure mitologiche, almeno per me, come gli dei greci, con le loro
debolezze e fissazioni, ma anche con capacità soprannaturali.
Partivamo il sabato pomeriggio, se il tempo era buono. Con la
pioggia si rinunciava, a meno che non fosse settembre, epoca di partenza delle
anguille per il Mar dei Sargassi. Dopo pranzo cominciava la preparazione, con
un’atmosfera di allegria e mutua collaborazione.
Si riempiva una vecchia sporta di plastica forellata turchese con
formaggio, pane, salumi e altre cose da mangiare, perché là, dove tutto pareva
lontano, ci veniva più fame. Poi una o più torce a pila, fiammiferi, spago,
detersivo e altre cose utili. Per bilanciarne meglio i due lati, papà ci
metteva sempre due fiaschi di vino, rosso se era autunno o inverno, bianco se
era primavera o estate, perché in quelle condizioni di isolamento la sete
diventava più forte. Facevamo una lista di altre cose da comprare, riempivamo
una damigiana piccola di acqua potabile, raccoglievamo anche gli arnesi per
eventuali riparazioni e prendevamo anche gli zampironi per le zanzare, che là
era il loro regno e al tramonto arrivavano a nuvole.
Insomma: messo insieme tutto ciò che ci sarebbe stato
indispensabile, una volta che le acque ci avessero separato dal resto del
mondo, c’infilavamo in macchina e partivamo.
Eravamo trasportati prima da una Simca 1000 rossa, dopo da una
metallizzata, poi da una 1100 della stessa marca ma di colore bianco,
nell’ordine cronologico, le tre macchine che mio padre aveva in quegli anni.
Si saliva il Monte Quiesa, che poi era un passo tra una catena di
colline, oltre le quali c’era la pianura della Versilia, poi il mare. Lo stesso
lago di Massaciuccoli al tempo dei Romani era stato parte del mare, tutta
quella fetta di terra oltre il Monte Quiesa era sott’acqua. Quiesa era anche il
nome del paese che attraversavamo prima di arrivare alla Piaggetta, cioè
dov’era la casa della barca, la prima e unica mai vista col pavimento fatto
d’acqua.
No. Prima dovevamo andare a prendere il Lipparelli, di nome Ilio,
che era una specie di guardiano della Baracca, cioè della palafitta di legno
dove andavamo a pescare. Trattavasi di sessantenne nei pressi dei settanta, che
viveva di opre, cioè di lavoretti
come vangare, piantare e seminare.
Aveva una faccia scolpita nel legno scuro, tipo indiano Apache,
occhi incredibilmente incavati e piccole pupille lontane in due cavernette
buie. Era simpatico, ma senza nessun proposito di esserlo, non rideva quasi mai
e parlava molto poco. Pareva dotato di una specie di saggezza lacustre che se
ne usciva libera e leggera dalle sue espressioni verbali in gergo, rare ma
sincere, dai suoi sorrisi appena accennati, ma soprattutto dai suoi lunghi
silenzi. Parlava un dialetto tipico del padule,
forse anagramma di palude, come loro chiamano insomma quel grande stagno, della
cui pesca e della terra nera e fertile lì attorno, piena di torba, viveva la gente come lui.
Quando mio fratello era troppo piccolo, ci andavo da solo con mio
padre, poi anche Umberto si unì al gruppo. A pensarci bene, lui era nato
proprio in una notte di settembre di qualche anno prima, di temporale e di
pesca alle anguille che partivano con destinazione Mar dei Sargassi. Mio padre
era tornato tardi, era più mattina che notte e con mia madre non erano nemmeno
riusciti ad arrivare all’ospedale, avevano appena fatto a tempo a chiamare un
ostetrico dell’ospedale psichiatrico, nel recinto del quale vivevamo e Umberto
se n’era uscito fuori da mia madre come un tappo dalla bottiglia di spumante,
diciamo.
Il Lipparelli non aveva telefono, perciò arrivavamo sempre a casa
sua senza preavviso, a volte non c’era e lo andavamo a cercare. Raramente
andavamo a pescare senza di lui. Poi andavamo all’alimentari, per comprare
quello che mancava ancora, scritto su una lista di foglio di quaderno o di
carta gialla per alimenti, prima di avventurarci in mezzo ai canali.
Era d’obbligo anche la capatina breve, ma senza alcuna fretta, nel
bar Abetone, dove mio padre offriva da bere qualcosa a Ilio e gli comprava due
pacchetti delle lunghissime sigarette President, che lui adorava e che
rappresentavano il simbolico pagamento per la sua opera di manutenzione e
controllo generale della baracca. Naturalmente, da quel momento, fino al giorno
dopo, Ilio Lipparelli era mantenuto da mio padre, ma là non c’era da spendere
più niente, solo mangiare e bere, soprattutto bere.
Poi arrivavamo alla Piaggetta, lì c’era la casa della barca, che
essendo di legno, aveva anche bisogno della sua protezione dalle intemperie e
da eventuali furti.
Lasciata la macchina a riposare fino al giorno dopo, dalla casa
della barca alla baracca c’erano forse duecento metri, fino alla bocca del
lago, dove entrava il nostro e un altro canale più largo che poi andava verso
il mare.
Ci volevano forse dieci minuti, con la massima calma. Il remo del
Lipparelli, che funzionava da propulsore e da timone allo stesso tempo, faceva
un leggerissimo sciacquio. Se remava mio padre il silenzio già cambiava suono e
nome.
Quel tipo di divertimento del fine settimana era definito anche andare al retone, che poi era la grande
rete quadrata che aveva la stessa larghezza del canale, cioè una decina di
metri di lato. Si alzava dai quattro angoli con un sistema di carrucole
collegate a un paranco azionato a manovella, mettendo - nel giro di pochi
secondi - a secco tutti i pesci che stavano transitando in quel momento, poi si
ritiravano da là dentro con un guadino con un lunghissimo manico, chiamato presacchio.
I pesci una volta portati sulla piattaforma della baracca, per
conservarli meglio, visto che ci si rimaneva delle ore, venivano introdotti in
una gabbia di rete metallica, detta burchio
e poi nell’acqua stessa del canale.
Mi ricordo che una volta chiesi a mio padre se quelli poi non
avrebbero comunicato coi pesci liberi e fatto la spia, ma risero tutti e non mi
risposero.
A meno che piovesse forte o ci fossero condizioni atmosferiche
troppo sgradevoli, il nostro arrivo era previsto sempre prima del tramonto e il
ritorno dopo l’alba, ma non per caso. Il suggestivo affogare del sole in mezzo
al lago e il suo risorgere dalla parte opposta, dietro le colline, in direzione
di Lucca, coincidono con gli orari dei pasti principali dei pesci, quando
escono dai loro nascondigli di canne e di alghe in cerca di cibo e si rendono
più vulnerabili alla cattura da parte dei pescatori.
La gente, per natura amante del pettegolezzo, era convinta che mio
padre e i suoi compari andassero là solo per ubriacarsi. Invece no, mangiavano
anche assai e la pesca aveva la sua importanza, pur se i pesci, poi, non li
voleva nessuno.
Mio padre non mangiava pesce, né pollo, né cacciagione, né nessun
tipo di volatile, mia madre invece apprezzava tutte queste cose, ma se doveva
essere pesce, preferiva che fosse di mare.
La fauna ittica del lago di Massaciuccoli, come di ogni lago o
fosso stagnante, ha sapore di fango ed è difficile cucinarla in maniera che
possa diventare appetibile.
Nei primi tempi della baracca, quando non prendevo parte ancora a
quelle escursioni del fine settimana, mio padre portava a casa sacchetti pieni
di prede ancora vive. Nell’epoca seguente, la mia, gli era già stata proibita
qualsiasi azione del genere, mia madre non voleva più svegliarsi la mattina di
domenica e trovare l’acquaio della cucina pieno di tinche boccheggianti,
anguille serpeggianti, lucci mordenti o carpe saltellanti.
Però i minuscoli, trasparenti e argentati crognoli, proprio per la
loro semplicità, non richiedevano lavoro per essere puliti e potevano essere
fritti interi, in più erano pesci marini, anche se in villeggiatura, nelle più
miti acque dolci. Per questo erano ancora accettati e lo rimasero almeno fino a
che la baracca rimase tale.
Dopo l’incendio, che determinò la sua fine, si passò in un altro
luogo, dove non si pescavano crognoli e si prendeva poco pesce in generale, ma
questa è già un’altra storia, o magari, il finale di questa qui.
Era Ilio Lipparelli, comunque, che riceveva quasi sempre il sacchetto
maleodorante, sua moglie era di là ed era abituata a certe cose. Da mia madre,
invece, come dalla maggioranza delle mogli dei pescatori del fine settimana,
era considerata un’aggressione morale e forse anche un poco fisica.
Per un certo periodo di tempo, ricordo che anche le anguille erano
state permesse dalla legge della casa. Poi successe che un sacchetto
ermeticamente chiuso dentro un altro, con una decina di esemplari di anguille
di media e piccola grandezza, rimase dimenticato dentro al frigo, insieme a
tanti altri sacchetti contenenti le vivande più varie, ma che dall’esterno
erano irriconoscibili. Quando mia madre, un mese dopo, vide che era doppio, ne
capì, per esperienza, il perché. Allora lo prese con la punta delle dita e me
lo consegnò con la missione di sotterrarlo da qualche parte, purché lontano da
casa.
Io invece, che all’epoca apprezzavo perfino lo studio anatomico di
un bel pesce marcio, aprii il doppio involucro, già pronto a tapparmi il naso e
rimasi di sasso: le poverette, un po’ più magre, certo un po’ meno vivaci,
erano ancora vive.
Mio padre non ha nemmeno mai saputo di quella storia, era talmente
schizzinoso che gliel’abbiamo sempre tenuta nascosta. Anzi, una sera, alla
baracca, Renzo - detto Porco il Lupo - cucinò delle scaloppine di vitella che
piacquero a tutti, specie a mio padre, che se ne servì più volte e lodò
ripetutamente sia la bontà della carne, che l’abilità del cuoco. Quando una
persona beve troppo, parla anche di più e Porco il Lupo rivelò che quella
formidabile vitella, tanto complimentata da tutti, invece era tacchino. Ci
rimase male mio padre, per via di quella vitella tacchinata, evidentemente non
ci si poteva più fidare di nessuno.
Si disse anche più volte che l’aria del lago faceva venire più
fame e che anche la sete se ne giovava, pur non essendocene effettivo bisogno.
Specialmente la sete di alcolici aumentava, là alla baracca e un’altra volta,
durante la notte, bevuta buona parte di quello che c’era da bere, era finita
l’acqua e tutti erano già ubriachi, quando inventarono di fare il caffè con il
vino e poi di correggerlo con il rum e la grappa.
Una volta l’invitato fu un compaesano che aveva vissuto in
Argentina e raccontava storie della pampa e bevevano tutti e ridevano,
friggendo e pescando. A dir la verità pescavano e friggevano pezzi di canne,
alghe di vario tipo, pescetti piccoli e buoni, con altri troppo spinosi e
ditischi o scarabei acquatici. Il signor Gaudenzio sgranocchiò uno di questi
ultimi, una specie di blatta alla milanese, mentre era impegnatissimo a
parlare. Non tutti se ne accorsero e nessuno disse niente, perché il signor
Gaudenzio era un tipo assai irascibile. Lo scarafaggio acquatico era un po’ più
croccante dei pesci, ma il sapore non doveva essere cattivo, perché se lo
mangiò tutto.
Come linea generale di comportamento, tentavano spesso di
ubriacare il Lipparelli, con tale impegno che poi loro non riuscivano più a
parlare e a camminare, mentre Ilio rideva forse un poco di più, ma neanche
tanto. Mio padre diceva che era perché era troppo abituato a bere superalcolici
tutti i giorni. Al bar si sparava in gola dei bicchierotti di whisky a buon
mercato e cognac di terza categoria, amari e vermut in dosi cavalline, come se
fosse acqua, l’avevo visto anch’io e il suo adiacente comportamento non sortiva
variazioni di rilievo.
A mio padre piaceva la compagnia del Lipparelli, perché era
spontaneo e tranquillo come la superficie increspata del lago e lo stormire
delle canne alla brezza, si combinava con l’ambiente naturale dove aveva sempre
vissuto. Era un uomo semplice e aveva l’anima leggera, quando lo prendevano in
giro rideva bonariamente, allora quelli ci perdevano il gusto, ma non ci
rinunciavano mai definitivamente, faceva parte della loro indole curiosa e
polemica tipicamente toscana.
Altri eventuali partecipanti alla battuta di pesca, come Renzo e
altri meno frequenti come lo scrittore e collega di mio padre Marco Torino,
arrivavano in tempi differenti e con i loro mezzi di locomozione, se vedevano
che la barca non c’era, allora ci chiamavano gridando di là e noi andavamo a
recuperarli.
Renzo di Marilia, forse era l'unico membro della congrega esterno
al manicomio, ma non per questo meno eccentrico, era soprannominato Porco il
Lupo, per la sua esclamazione peculiare.
Era capace di cantare pezzi d’opera al chiaro di luna,
interpretandoli con grande trasporto emotivo e alzando le braccia verso il
lago, in posa canora evocativa.
Noi bambini ci ammazzavamo dalle risate a un metro di distanza, ma
lui continuava serissimo e in fondo tutti applaudivano e gli davano un
ulteriore bicchierotto traboccante di vino.
Una volta il famoso Marco Torino, scrittore e scapolone, uomo
simpatico e stravagante, dopo vari fiaschi di vino bevuti insieme a mio padre e
altri pescatori del fine settimana, facendo rapida marcia indietro, sfasciò la
macchina nuova contro un massiccio palo della luce di cemento apparso dal
niente.
Dopo essere sceso e aver visto l’entità del danno, gridò al
silenzio della notte che avrebbe fatto causa all’impresa di elettricità, che lo
aveva piantato là, dove prima non c’era e oltretutto senza avvertirlo.
Il dottor Torino era stato il vincitore del premio Strega con uno
dei suoi romanzi che parlava proprio del nostro manicomio, due dei suoi romanzi
poi sono anche diventati film. Quando salì sul palco per ricevere il premio in
questione, avendo alzato il gomito come di consueto, prese il microfono e
ringraziò i critici letterari, che riuscivano a trovare nei suoi romanzi assai
di più di quello che lui aveva immaginato scrivendoli.
Torino amava la vita da scapolo, era un mezzo dongiovanni, non si
sposò mai e abitò per tanti anni al manicomio, dove oggi si può visitare la sua
stanza. Solo negli ultimi anni, da pensionato, si trasferì in un appartamento
di Sant'Anna da solo.
Più di venti anni dopo, lo incontrai appena fuori città, che stava
passeggiando col suo inseparabile bastone. Iniziai a parlargli della mia nuova
passione, la scrittura, nella speranza che potesse aiutarmi a pubblicare i miei
manoscritti. Fu, come al solito, simpatico, affabile e tutto il resto.
Però quando ci salutammo scoprii che non mi aveva riconosciuto.
Non molto tempo dopo, seppi che era morto, ma in me vive ancora, così come
papà.
Per mio padre, il punto più critico del ritorno a casa era la
prima curva in discesa, sul Monte Quiesa. Se era in buona forma alcolica, e
spesso lo era, fermava quasi la Simca di turno, per riuscire a farla senza
sbandare e noi bambini morivamo dal ridere.
Papà, a volte, incrociava le parole che non si capiva più niente.
Quando giungeva a livelli alcolici più alti, cantava la canzone natalizia Astro del ciel in tedesco, cioè Stille nacht.
Fui io a dargliela la tragica fine a quella prima baracca, insieme
al mio amico Roberto detto Fistio, ma mio padre non l’ha mai saputo, sennò
sarebbe stata anche la mia. Era giorno di scuola, ma noi in motorino andammo
alla baracca. Una volta là, Fistio notò che da un buco del soffitto venivano
fuori pagliuzze di canneto, portate là dentro dai topi, che vivevano
nell’intercapedine del tetto e pensò bene di dargli fuoco. Subito dopo ci venne
in mente che poteva essere pericoloso e le spegnemmo.
Poco dopo tornammo a casa, per pranzo, come al solito, simulando
l’orario di uscita da scuola. Però, evidentemente, c’era rimasta qualche
pagliuzza accesa. La sera stessa ricevemmo la notizia telefonica dal Lipparelli
che la baracca era bruciata, c’erano rimasti solo i mozziconi dei pali anneriti
appena fuori dall’acqua.
La seconda baracca fu meno epica e romantica della prima. Anche se
era più grande e bella, in un altro canale, ci si pescava poco, ma anche lì ci
si beveva abbastanza.
L’avevano costruita assieme, mio padre e alcuni amici di famiglia,
vicini di casa, che negli ultimi tempi erano diventati anche loro pescatori del
sabato sera. Ai lavori partecipammo un poco anche io e Umberto, sebbene il
capomastro, di nome Paolino, falegname di professione e rompiscatole nel tempo
libero, ci disse che non sapevamo piantare nemmeno un chiodo. Però, per fare la
piattaforma, ne avevamo piantati centinaia, magari mezzi storti e battendoci
anche qualche volta sulle dita.
Il silenzio incredibile del lago era una cosa che mi affascinava e
mi spaventava allo stesso tempo, ma iniziai a vederlo dal punto di vista
romantico quando ci andai con una ragazza di cui ero innamorato, anni dopo e si
trattava già della nuova baracca.
Mio padre ci aveva mostrato, con quelle uscite del fine settimana,
che un mondo parallelo esisteva a pochi chilometri da casa. Una vita e una
maniera di comportarsi avevano molte sfaccettature possibili, bastava cercarle e
per farlo bisognava prima credere che esistessero, da qualche parte.
Credo che sia stata la più grande lezione che avrebbe potuto
darci, perché è ampliando il nostro orizzonte che capiamo che c’è sempre
speranza, anche quando le cose vanno male.
Quando le cose vanno bene invece, sappiamo che può durare, magari
con qualche pausa, dopo qualche bella ricaduta inevitabile e necessaria per
accorgersi della differenza. Prima della sua morte, non mi sono mai reso conto
del valore pratico di quello che succedeva tra di noi, quasi ogni sabato, al
lago di Massaciuccoli.
Insieme a Rinaldo ci passammo anche un ultimo dell’anno con delle
ragazze e un amico suo che lui ebbe a definire comatoso grosso. Era freddo e ci
si scaldò accendendo la stufa economica e bevendo quello che c’era di forte.
Anche la seconda baracca finì in un rogo, purtroppo, ma stavolta
noi eravamo innocenti.
Altre fughe dalla routine del manicomio di Miggiano venivano
rappresentate da quelle a Viareggio per le vacanze e all'Abetone. Piano-piano
sì cominciava anche ad andare all'estero, per prima quella Svizzera di cui mi
ricordo poco a parte uno spaghetto al burro sul treno passando le Alpi, ci
avevamo caricato la macchina che credo che fosse la Simca 1000 rossa e poi a
Lugano il panorama dalla finestra… anzi dal terrazzo dell'albergo, e ricordo
che giocavo con una Mercedes decappottabile Pagoda bianca, modellino che mi era
stato comprato da mio padre appena arrivati dall'Italia. Ricordo Andermatt
bellissimo paese alpino e poche altre cose, perché penso che non avessi ancora
sei anni, dovevo averne quattro o giù di lì.
In seguito si visitò anche S.Marino, che è all’estero per modo di
dire e so di sicuro che successe dopo, perché c’era anche mio fratello Umberto.
La casa del Quercione era abbastanza di recente
costruzione, prima ci abitava il proprietario, che mi pare che si chiamasse
Avancini. All'inizio non c’è stato bisogno quasi di nessun cambiamento
strutturale, dopo qualche anno il garage diventò la sala e lo studio di mio
padre diventò un'altra sala. Quella meno frequentata era la parte di basso
della casa, il seminterrato. Era quasi senza porte, almeno dalla parte
d'entrata di sotto e quindi di inverno era molto difficilmente riscaldata.
PARADISO
Un bambino in un ambiente come il Quercione degli anni sessanta era in una specie di paradiso, le opzioni di gioco
erano varie e interessanti, gli adulti attorno amichevoli, le macchine erano
poche e non correvano come oggi, i mulini avevano ancora le ruote di legno e il
semaforo sulla Bazzanese era una realtà che nessuno a quei tempi poteva
prevedere.
Figurarsi che noi si andava ai primi
allenamenti a Nave in bicicletta, ma qui eravamo già negli anni Settanta.
Pasquale gestiva
l'alimentari dove si segnava sul libretto, si vendevano anche frutta e verdura,
anche se tutti sapevano che era un furbone, notavano anche la sua cordialità e
simpatia. Al Bar della Salute Beppina si alternava al figlio Roberto che invece
non aveva voglia di stare lì e sembrava sempre incazzato. Suo fratello Edoardo
invece studiava ed era un tipo assai più affabile. Il giorno che si laureò in
medicina chiese a tutti quelli che entravano, al bar della Salute, se magari
non avevano pensato possibile che uno con la faccia a biscaro come la sua
avrebbe potuto laurearsi, ma invece era successo e lui era diventato medico.
Anni dopo faceva medicina sportiva a Ponte
San Pierino e io che avevo spesso infortuni giocando nel San Mario, mi curavo
da lui, nella palazzina sulla curva davanti al distributore di benzina che da
anni non esiste più. Da bambino mi ci portavano, quando ero malato, dal dottor
Dantini.
Edoardo mentre mi faceva la cura degli
ultrasuoni mi guardava, scuoteva la testa e diceva: “Un ci ‘apisco nulla!”
Alla Cooperativa
c'era Tista Panconi, un vecchietto magro e ridanciano, un ghiacciolo costava 20
lire e a quei tempi c'erano ancora pensionati che giocavano a carte.
Dopo ci fecero la pizzeria La Pineta con
il forno a legna e la pizza era buona. Ci lavorava tutta una famiglia di cui
figlie e madre sovrappeso. Mio fratello ci ha fatto il cameriere e siccome non
gli davano da mangiare, ogni tanto spariva un cameriere o una cameriera, in uno
sgabuzzino a sbafarsi una pizza alla svelta, frutto di un’ordinazione falsa.
Mi ricordo di aver visto lì alla
televisione, a 10 anni di età, il primo sbarco sulla Luna. Mia madre era
incinta di Leonardo, era giugno, lui nacque poi alle Zitine il giorno di
Ferragosto.
CANI
Da bambino non ho avuto tanti cani perché mio padre non voleva. Il
primo fu Dick, sporco e simpatico, trovato per strada. Un bastardino, come si
diceva a quei tempi, in cui non bisognava arrufianarsi con le parole.
Probabilmente era stato sperso e la mia famiglia fece lo stesso, dopo pochi
giorni, l’ho saputo da poco, già da vecchietto. Dicevano che puzzava, ma non
sarebbe bastato fargli un bagno? Dopo diversi anni in cui siamo rimasti senza,
fu adottato il primo cane stabile della famiglia, Blacky, donato a mio padre da
qualcuno, dove lavorava. Era nero e non di razza pura, poi quasi completamente
oscurato nella nostra memoria dalla maggior personalità e simpatia del secondo
Blacky, molto simile al primo, almeno fisicamente, preso al canile da mio padre
a dispetto delle sue convinzioni precedenti. Per anni aveva detto e ridetto che
se prendevamo un cane se ne andava via lui e sebbene non ci paresse proprio una
cattiva idea, forse per motivi di praticità, non si passò mai alla pratica.
Successivamente lui cambiò opinione, perché noi figli non gli stavamo fornendo
quei nipoti di cui avrebbe avuto bisogno per fare il nonno.
FINE ANNI 70
Allontanarsi da Marzio è stato automatico
e fisiologico, mentre lui andava dietro ai soldi e al potere, io ne scappavo da
sempre, ma ogni giorno di più in maniera cosciente. La mia vita era stata
differente, quando c’erano state delle necessarie scelte erano state divergenti
e le nostre esistenze in fondo si erano incrociate per poco tempo.
Un giorno mi aveva raccontato una cosa che
me ne aveva fatto capire altre. Aveva fatto il bagno con il mare mosso e dopo
non riusciva a tornare a riva, mulinelli e risucchio della corrente lo avevano
messo in tale difficoltà, da temere di affogare, ma mi confessò che giammai
avrebbe chiesto aiuto, pur di non fare una figura a biscaro avrebbe preferito
morire. Capii che per lui mostrare di essere grande e forte era più importante
di esserlo. Lateralmente pensai che era così ossessionato dalla paura di essere
ingannato, che per me invece era meglio esserlo qualche volta, nel frattempo si
poteva stare un po' più tranquilli.
Quello che ho sentito attorno a me, specialmente
tra le persone che mi sono state relativamente più vicine, è stata la totale
mancanza di ambizione che ho trovato in Raffaello, Aldo, Roberto, Mauro,
Martino e in altri, che poi si è associata anche alla non competitività appresa
in seguito.
Marzio diceva spesso, quando eravamo
appena maggiorenni, che noi non avevamo ancora combinato niente, non avevamo
fatto un cazzo, ma non sapeva spiegarmi cosa avremmo dovuto fare, per
realizzare qualcosa di vero e importante. L'ho capito solo dopo, era tutto in relazione
ai soldi, forse al potere, insomma a quel mondo che io inconsciamente avevo già
rifiutato. Certo i soldi erano necessari, ma quel tanto che ti basta per vivere
e alimentare le tue passioni, i tuoi passatempi, i tuoi valori, insomma
l'evasione regolare e manovrata dal mondo così come era. Quella stessa vita che
loro criticavano ma che alimentavano giorno per giorno senza accorgersi, con la
loro maniera di essere.
RICORDI?
“ Un settembre non molto
piovoso, oggi è il venti e l’estate non è ancora finita, ma pare finalmente
agli sgoccioli. Giro in bici tra S.Marta in Collina e Nezzano, lungo il fiume e
tra le viuzze sotto il castello, sento i profumi della gente a cena, non c’è
quasi nessuno in giro, passano rare macchine. Dopo il Paloschi faccio la salita
e non resisto, entro nel manicomio di Miggiano.”
“Bello, lo sai che ora ci fanno le visite guidate?”
“Figurati, una volta ci sono stato e hanno registrato anche la mia
testimonianza per fare un libro, che finalmente è uscito, dopo una decina d’anni.”
“Allora nel libro c’è anche la tua testimonianza?”
“No, non ce l’hanno messa. Forse non gli è piaciuta.”
“Ah…
Ma te quanto tempo ci hai vissuto?”
“Credo sei anni, o forse meno, ma sono stati i miei primi, con la
memoria nuova e lucida, insomma appena staccata dalla fabbrica, i primi
effettivi due a Marilia, mi garberebbe, ma non me li posso ricordare.”
“Beh, a quei tempi qui c’era un sacco di gente e di movimento,
no?”
“A quei tempi il manicomio era sicuramente anche un investimento
interessante, ci lavorava tanta gente che abitava nei dintorni, alcuni li ho
conosciuti dopo, oltre ai pazienti che erano parecchi e molti tra di loro
davano un personale contributo di mano d’opera al manicomio: postini,
giardinieri eccetera-eccetera.”
“Ma dove abitavate voi?”
“La nostra casa ormai non esiste più, ci hanno fatto un moderno
centro di raccolta per analisi mediche, credo, in una certa epoca precedente
c’è stata anche l’anagrafe.
Non c’è più il cancellino di ferro dipinto di verde, la rete
metallica nascosta dalla siepe che era anche più alta e spinosa, macchiato
dalle numerose palline rosse dal sapore agro che noi bambini mangiavamo, a
volte, ma senza troppo entusiasmo, giacché allappavano la bocca.
Sotto il cemento è sparita la panchina verde scuro di legno come
quella dei parchi, a lato del tavolino di ferro sotto l’albero, col ripiano di
marmo bianco. Proprio lì dove il nonno Pitta disse, per me la prima volta, la
famosa frase del cocomero, che faceva arrabbiare nonna Nina perché lui la
doveva dire sempre, non poteva resistere, era troppo più forte di lui, tutte le
volte che vedeva un cocomero e delle bocche che lo mangiavano, bevevano e si
lavavano la faccia.”
“Ah… bell’assai. Piuttosto dimmi come ci si stava in mezzo ai
matti e agli infermieri?”
“Non lo so, per quel che mi ricordo mi pare bene. I matti di
dentro non erano peggiori di quelli di fuori, forse erano anche meglio. Quella
era una specie di città, anomala e tutto, d’accordo. Al Manicomio si stava
bene, secondo mia madre, diceva che sono stati gli anni più felici della sua
vita, eppure eravamo una unica famiglia dentro un ospedale psichiatrico, grande
e pieno di cosiddetti malati, che non circolavano ancora liberi, eravamo ai
tempi in cui non era ancora uscita la legge Basaglia. Non saprei dire se la suddetta
legge è stata giusta o sbagliata, mio padre era contrario, in precedenza ci
aveva portati a vivere all’interno del manicomio e noi ci sentivamo proprio a
nostro agio, per strano che possa sembrare.
Difficile capire cosa sia successo al mondo occidentale, ma se
andiamo a oriente, o anche a sud, diventa tutto ancor più intelleggibile, per
noi sembrano altri pianeti.
La televisione ha fatto del suo meglio per farci perdere l’idea
del contatto reale con la natura, con i sentimenti autentici e meno con i
sentimentalismi indotti e fini a sé stessi, ma poi ci sono state anche tante
altre cose, tra cui il computer e l’internet.
Mi ricordo bene assai che dopo aver visto un film sui pellerossa
americani, noi due bambini piccoli, si andava a giro a petto nudo colla maggior
naturalezza, solo che era febbraio e la mamma quando ci vide si disperò e ci
fece rivestire prima che si prendesse un malanno, che fortunatamente non ci
prese, ma prima che lei se ne fosse accorta avevamo passato una mezz’ora buona
correndo e saltando proprio come fanno gli indiani alla televisione.
Prima che nascessi e poi da neonato, i miei genitori e gli amici
di famiglia mi chiamavano scherzosamente il Sarchiapone, ispirati da una
scenetta comica televisiva in cui c’era un essere misterioso e forse anche
pericoloso, secondo il proprietario che lo teneva in una valigia bucherellata,
in uno scompartimento del treno. Gli altri viaggiatori non lo avevano mai
visto, non avevano proprio mai sentito quella parola, ma si vergognavano ad
ammetterlo.
L’affetto anche degli amici, per qualcuno che ancora non
conoscevano, la loro maniera di scherzare di quei tempi mi pare sana e
positiva. Niente a che fare con tutta quell’ansia malata di oggi, questa
protezione esagerata anche a costo di far diventare un imbecille il neovivente.
Mi ricordo tanti altri fatti che sono seguiti, frasi, parole o
semplici omissioni, dai quali ho compreso che eravamo assai più liberi e
spensierati, a quei tempi, ma non è certo una novità, lo sanno tutti, ma non ci
si può fare più niente ormai.
In seguito mi chiamarono Momo, perché così dicevo il mio nome, da
piccolo. Alle scuole medie Minatore, perché vagavo gattoni sotto i banchi alla
ricerca di non so cosa.”
“E il tempo, ti pare che passasse in modo diverso là al
manicomio?”
“Sì. Ci penso spesso al tempo, almeno attualmente, a quei tempi
però non ci pensavo mai. Quando abitavamo al Manicomio di Miggiano la nostra
giornata era fatta di piacevole realtà ed era per di più moltiplicata, o forse
solo sommata alle precedenti, come dovrebbe sempre essere, ma chissà perché
spesso non lo è.”
“Ma questo che vorrebbe dire in pratica?”
“Non lo so, forse che si stava bene, solo perché ero un bambino,
mio fratello minore anche e magari di più, ma i miei genitori stessi erano più
giovani e vivaci, bambini anche loro, in un certo senso, nella maniera di
essere adulti certo più sinceri e anche ingenui di quello che sarebbero
oggigiorno.”
“Beh, anche tutto attorno allora era diverso.”
“Magari il mondo attorno era molto più spontaneo di adesso e ci si
poteva godere meglio la vita, unico senso che esista o che sia mai esistito,
almeno qui sulla terra, l’unico senso valido, voglio dire, tutti gli altri sono
indotti dalla società e quindi sono distorsioni.”
“Ma anche la società di allora era migliore di quella di adesso?”
“Ecco, direi di sì, perfino senza volerlo.”
“Perché?”
“Era, senza ombra di dubbio, più entusiasta e meno decadente.
Forse più rigida, più ingenua, ma anche meno ipocrita.”
“E come mai?”
“Forse perché la sopravvivenza in generale è necessaria, ma quando
uno pensa che ce l’ha più o meno assicurata… ecco che la povera mente umana non
sa più che pesci pigliare, perché quelli, i pesci, perdono consistenza e si
dovrebbe avere una filosofia che li sostiene a mezz’acqua, sennò spariscono in
mezzo alle alghe che ci sono sul fondo.”
“Forse ci vuole anche qualcosa di più della vita ripetuta tutti i
giorni. Bisogna sognare, credere a qualcosa da raggiungere.”
“Ecco.”
LAMPI ALL’INDIETRO
Nel 1959, mio anno di nascita, il numero dei passeggeri degli
aerei aveva superato il numero dei passeggeri delle navi, per la prima volta.
Insomma la modernità aveva piantato le basi per quello che sarebbe stato il
futuro.
Però abbiamo ragione di credere che il mondo fosse molto più umano
e a misura di essere vivente, indirettamente anche quel paesone e la mia
famiglia, come quelle vicine, ne risentivano, secondo me in maniera più scarna
eppure più sincera, di quello che potrebbe essere oggi, la realtà è più
complicata e quindi anche più falsa, purtroppo globalizzata.
Ho passato la mia infanzia, o perlomeno buona parte, in un
manicomio, non è stata una mia scelta, ma è stata un’esperienza positiva.
Almeno i matti non si sono mai lamentati di noi, e nemmeno noi di loro.
Prima del manicomio c’era stata la casa paterna e marliese che
offriva varie stanze su tre piani, diverse persone di due famiglie, più zia
Magali che era a sé e c’è rimasta tutta la vita.
Di quei primi due anni non me ne ricordo, quello che poi ho avuto
come rimembranza di quelle persone e di quegli spazi, non solo della casa, ma
anche lì attorno e in giro per Marilia, pur avendoli dentro anche prima, in
teoria li ho conosciuti dopo, quando abitavamo già al manicomio e andavamo a
visitare i parenti rimasti in loco.
Certo è che da bambino ho passato molto tempo da solo. I primi due
anni a Marilia, anche se lì la memoria non funzionava ancora, questo non
significa che il piccino in questione fosse insensibile, anzi come una
spugnetta rosa assorbiva tutto ciò che succedeva intorno, e anche quello che
non succedeva. Ne parlo alla terza persona singolare, come se non fossi stato
io e me ne sorprendo sempre, ma il fatto è che sono piuttosto plurale anche
oggi, in questo momento non mi sento affatto di essere uno solo, forse per
questo non soffro la solitudine come gli altri.
Là nel manicomio di Miggiano, la mia verde vita di due anni
appena, proseguì in maniera poco comune, dopo il trasloco dalla casa paterna di
Marilia. Mentre mio padre lavorava là dentro, nell’Ospedale Psichiatrico, nel
grande recinto, in una casa apposita, ci vivevamo insieme: lui, io e mia madre,
di cui quest’ultimi due abbastanza estratti da tutto ciò che ci circondava.
Insieme a mio fratello Umberto, nato là dentro, due anni dopo di
me, ci rimanemmo dal 1961 al 67, epoca determinante nella formazione del nostro
carattere.
Nostro padre naturalmente era uno che si portava il lavoro a casa,
visto che, oltretutto, la casa era dentro al manicomio. Forse senza volerlo,
però divertendosi, di nascosto anche a sé stesso, indagava nelle nostre piccole
esistenze in formazione, in maniera involontariamente professionale e il suo
cervello voleva sempre entrare nel nostro, per questo formammo, come potemmo,
le nostre corazze, le nostre giovani ma sempre più strenue difese.
Non riuscivo a capire come facesse ad accorgersi sempre di quando
stavo mentendo e più avanti a sbaragliare con facilità i miei primi prototipi
di tattiche, dandomi una perenne sensazione di impotenza, un po’ come quel
dannato occhio di Dio che ti vede e ti giudica sempre e dovunque.
Ce la siamo anche spassata, là, nel manicomio, abbiamo dei bei
ricordi e la nostra vita, anche dopo, è sempre stata piena di alti e bassi,
quindi interessante.
Certo che la nostra visione del mondo è ancora filtrata, almeno in
parte, dalla testa di mio padre, morto da anni e da quell’ambiente dove siamo
cresciuti, la nostra profondità è più o meno insondabile, anche per noi stessi.
La nostra affannosa ricerca delle cose, tutto il nostro rapporto
esistenziale con i vari ambienti attraversati, passavano sempre e necessariamente
dentro un purgatorio di studio, involontario e sempre meno ignorante, dei
caratteri umani.
La mia mente è diventata inafferrabile, una bella cosa, nel senso
che gli altri ci provano e non ci riescono, anche se a volte pure io la vorrei
tanto acchiappare e non ce la faccio.
Ammetto che è stata una faticata, ma ora capisco almeno che nello
scrivere è necessario esprimersi in maniera semplice, affinché tutti possano
capire, ma proprio tutti.
Spesso le persone gentili sono considerate deboli, o chi scrive in
maniera semplice è considerato incapace, ma per me è il contrario.
Io non ho un mio pubblico, ma se ce lo avessi, vorrei che capisse
tutto quello che voglio dire, non che fosse d’accordo con me, anche perché
quello che scrivo non sono necessariamente le mie idee, ma quello che sento
dire, quello che mi pare utile riportare o perfino denunciare, senza sempre
necessariamente esprimere la mia opinione.
La conoscenza che ho del carattere delle persone è il risultato di
un’osservazione attenta e continua, almeno da quando esisto, eppure
incredibilmente cominciata prima della mia nascita, dentro il cervello di mio
padre.
Anche mio fratello Umberto sarebbe un osservatore fenomenale, ma è
più pigro e incline a considerare che non ne valga troppo la pena, eppure
conoscere gli altri è la migliore maniera per arrivare a sé stessi e viceversa.
Personalmente
non ho ho ancora capito se poi ne vale veramente, quella pena lì, ma per alcune
cose ha la sua brava utilità: conoscere la gente ci può favorire, basta non
essere né troppo ottimisti, né troppo pessimisti, ma il più possibile realisti.
Un abbastanza esatto senso della realtà, è forse quello che
rappresenta il lato positivo di questo studio continuato degli esseri umani,
visto che in mezzo a loro dobbiamo sempre viverci, volenti o nolenti.
Certo è che, a volte, quando le cose vanno male, le facce
diventano mostruose, le preoccupazioni semplici ingigantiscono, tutto
impazzisce nel meccanismo esagerato del nostro cervello.
Allora bisogna essere estremamente razionali, qui si deve imparare
a fare da soli, per questo io dico che a volte, per fare delle necessarie
pause, forse è meglio concentrarsi su altri soggetti, come i bachi da seta o il
tiro con l’arco. La natura ci aiuta e anche parecchio, basta saperla assorbire,
interpretare e viverci più possibile in mezzo, agli alberi e al verde
incontaminato, può essere un vero e proprio antidoto.
Quando ero piccolo non ero molto diverso da oggi, la vita che ho
fatto però è stata un po' differente da quello che è la vita di un essere umano
normale. Forse perché ho sempre sentito di dover rifiutare tante cose tipiche
degli adulti, e a volte ci sono anche riuscito a evitarle per un bel po’ di
tempo, perfino quando ero diventato a mia volta adulto e forse non avrei voluto.
Magari per questo sono rimasto un caratteraccio ribelle e rude,
come ero da bambino. Passo molto tempo da solo, scrivo proprio perché ho una
normale necessità di essere ascoltato, almeno da me stesso, che già lì dentro
non è facile, figuriamoci fuori.
Al manicomio c’era un qualcosa di differente dalle normali realtà
alle quali i bambini sono abituati, crescono probabilmente indotti da un
ambiente che c'è intorno, a cominciare dalla famiglia, che anche quella, nel
mio caso, era piuttosto complicata.
L'ambiente di un manicomio, anche se è uno di quelli con i matti
chiusi nei vari padiglioni con relativo recinto, con in più intorno un sacco di
natura libera a disposizione, è un ambiente diverso dal solito e quindi la
persona cresce in una maniera anomala, nel bene e nel male.
Voglio dire che la pazzia comunque è una grossa fetta della nostra
vita futura, anche se spesso mezzo nascosta e così là dentro, senza volerlo, mi
sono messo avanti con il lavoro.
La tragedia e la commedia fanno parte della routine, ma ci devono
essere tutt’e due. O perlomeno io c’ho dentro il computer del mio cervello,
sempre e comunque collegato al cuore, queste due componenti base, da cui
partono tutte le altre ramificazioni.
RAMMENTEREI
“Il mondo è una
delle cose più romantiche che conosciamo, qualsiasi altro pianeta ci ispira una
certa diffidenza, forse perché non ci porta ricordi con i quali possiamo
immedesimarci.”
“Veramente ci sarebbe la luna, ci fu
qualcuno che ci andò a ritrovare il senno perduto. Forse porta alla mente la
pazzia, essere lunatici o avere la luna di traverso sono cose poco positive.”
“E poi non è neanche un pianeta e comunque
noi la guardiamo di sbieco.”
“Effettivamente.”
“Insomma siamo tutti terrestri, volenti o nolenti, la nostra
personalità si costituisce sui ricordi, anche quelli dimenticati. Per questo
non voglio scordarmi di ricordare di quando ero bambino, sulla spiaggia a
Viareggio, c’era un venditore di bibite e gelati che passava sudando, cento
volte al giorno, mandava il suo grido di riconoscimento e, non si sa se per
causa o per effetto, si chiamava Arieccolo.
Quando anche il figlio iniziò ad aiutarlo, logicamente fu chiamato Arieccolino. Quanto a sudare Arieccolo non sudava già più, le prime
centinaia di passate lo avevano prosciugato.
Ce n’era un altro con il tipico cappello con la N grande di
Napoleone, anche se il vero Napoleone probabilmente non ce l’aveva così.
Vendeva le schiacciatine da un enorme cesto, e gridava: Volete Napoleone o viceversa?
Io ingenuo bambino, cresciuto in un manicomio con la conseguente
fantasia esagerata dall’ambiente e dalle situazioni contingenti, ho sempre
pensato che Viceversa fosse la moglie
di Napoleone, che vendeva magari qualcos’altro, oppure le stesse cose, sulle
spiagge limitrofe, o su quella stessa spiaggia, ma che non era ancora arrivata
e magari bisognava dichiarare e specificare di volere lei, e non Napoleone.
Sempre sulla spiaggia ricordo un giorno che aveva piovuto, era
ancora un po’ freddino e la sabbia era bagnata, a quei tempi per asciugarle
meglio disponevano le sdraio a schiera, girate dalla parte giusta, come se
fosse un cinema con il telone davanti, che poi era il resto del mondo.
Rimanevano delle parti più grandi di distese di sabbia senza niente e per noi
era anche meglio. Io e mio fratello ci mettemmo a giocare a pallone, io avevo
il costume da bagno con i colori dell’Inter e lui del Milan, mio padre leggeva
il giornale cercando di addomesticarlo al vento, su una seconda fila di sdraio
ancora umide. Ricordo bene che avevo un foruncolo all’angolo della bocca che mi
dava noia, c’abbiamo delle foto a colori di quel giorno, forse tra le prime non
in bianconero, mi sa che ce le aveva fatte uno di quei fotografi a pagamento
che passano sulla spiaggia.”
“Allora i soldi, quando noi siamo bambini, sono o non sono meno
importanti?”
“Sì e no, di sicuro per capire l’importanza del denaro non solo ho
dovuto iniziare a lavorare, ma anche andarmene da casa dove ero protetto anche
se adulto, da ogni tipo di attacco anti-economico alla mia sopravvivenza. Se
vivevo a Lucca o lì vicino questo aiuto potenziale era nascosto ma sempre a
disposizione.
Insomma quando sono andato a Berlino, forse, dopo qualche mese,
dopo aver perso il lavoro, ho cominciato a capire il cappio che abbiamo sempre
al collo e che ci obbliga sempre a mantenere la testa bassa e a lavorare, ad
andare sempre a letto esausti e la mattina dopo ricomincia inesorabilmente
tutto di nuovo. Nel fine settimana poi non hai voglia di far niente, devi
recuperare le forze, se ce la fai, figurati poi se hai dei figli, una famiglia,
diventi un prigioniero.”
“Non si può stare a pensarci troppo, sennò tutto perde senso.”
“No, forse no, ma è così. La società ci obbliga a vedere il denaro
come libertà, ma più facilmente quello ce la toglie e ci soffoca.”
“Vabbè. Ora parliamo di cose più romantiche, magari.”
“Se riusciamo a farci caso, quelle non mancano mai.
Là al manicomio c’era spesso una civetta che cantava: tutto mio! tutto mio! Anche di giorno.
Forse una civetta matta.
Più volte lanciava il suo lugubre richiamo dal tetto del
padiglione delle donne, che sotto riecheggiava in direzione della nostra casa,
e siccome lassù c’era una specie di camino che aveva una forma strana, con dei
grandi occhi che erano degli oblò, io pensavo che la civetta fosse quella,
troppo gigantesca per essere vera. Infatti mi chiedevo perché non si muoveva.
Forse perché era fatta di mattoni e cemento, più qualche tegola
rossa.”
“I ricordi di queste cose a volte ci fanno chiedere se era
veramente così o se ce lo siamo solo immaginato noi.”
“Infatti. Magari sarebbero belli anche se fossero falsi. In
passato la mia stessa fantasia galoppante mi ha portato a visioni di ricordi
sovrapposti di un luogo, in maniera di vederlo come se fosse un altro e qui è
anche difficile spiegarlo. È successo solo con posti che ho vissuto
nell’infanzia e poi ho continuato a frequentare anche dopo. Come la casa del
manicomio di Miggiano, da determinati punti di vista la ricordo in due maniere,
quella più antica e quella più recente. La casa dei nonni, per esempio, come la
vidi da bambino piccolo e dopo con gli anni il ricordo si modificava crescendo,
io, non la casa e il luogo attorno... o comunque cambiando un po’ tutti e tre.”
“Scherzi della memoria.”
“Sì, la memoria è burlona assai, piuttosto leopardata direi, cioè
funziona a chiazze, magari ci si ricordano cose insignificanti e ci si
dimenticano tante altre importanti, insomma non c’è un criterio: belle o
brutte, insignificanti o importanti, piacevoli o sgradevoli, vicine o lontane
nel tempo. Nella stessa epoca, più o meno, andammo all’Abetone, papà, mamma ed
io, mio fratello Umberto doveva essere già nato, magari era troppo piccolo,
forse era dai nonni, o da zia Magali.
Penso che ci rimanemmo poco, forse una settimana, all’Albergo
Tirolo, che esiste ancora e pare quasi uguale. Intorno è cambiato assai però,
sotto c’era una stupenda radura con degli alberi enormi, dove si poteva
passeggiare, ora è tutto pieno di case, villette o villone.
Al Tirolo si mangiava bene, ricordo che il sugo della pasta veniva
servito a parte, dentro dei vasetti di porcellana bianchi a becco lungo, come
si chiamano? Con dentro un cucchiaio, fosse ragù o pomarola. La pasta anche era
di qualità, di solito larghe tagliatelle all’uovo, sempre in bianco, con un po’
di burro per non diventare un blocco unico come un nido di rondine.
Nel pomeriggio, dopo un riposino in camera, che a me non piaceva,
ma bisognava farlo, andavamo sui prati lì vicino, quelli che d’inverno
diventavano piste da sci. C’era l’erba alta e al sole era caldo, ma all’ombra
assai fresco e la sera pure ci si doveva mettere una maglia di lana.
A dire il vero mi annoiavo, non conoscevo altri bambini e quelli
che c’erano all’albergo erano antipatici, non mi volevano far giocare con loro.
Mi comprarono il Corriere dei Piccoli e fra i tanti insetti che
c’erano su quei prati montani, ne seppi riconoscere alcuni e potei chiamarli
con il loro nome, consultando le figurine del giornalino.
Ero un bambino con tanta voglia di conoscere, come il nome di
quell’enciclopedia che ci comprarono e che abbiamo ancora, la guardavo con
grande interesse, curiosità d’imparare, cominciata forse con gli animali, i
dinosauri per arrivare poi a tutto il resto di geografia e storia…”
“In altre parole spazio e tempo.”
“Sì. In un’epoca precedente e in un altro luogo, per
esempio a Marilia, giocavo a pallone su quel piccolo lastrico di mattoni, il
tavolino di ferro e marmo - che deve esistere ancora da qualche parte - era la
porta dove dovevo segnare, ma il pallone andava spesso a finire fuori
rimbalzando oltre il fico e di là c’era il vivaio delle piante. Ci aveva giocato mio padre da bambino, mio
cugino Remo, figlio del fratello di mio padre, Enzo e ora il suo nipote, che
non so come si chiama e lui non l’ha nemmeno mai conosciuto. C’era anche un
cespuglio grande e alto di mortellino, una palma mezza rinsecchita, su un
pezzetto di terra polverosa che è stato lastricato da un po’ di tempo.
In camera Remo aveva
giornalini differenti dai Corrieri dei Piccoli, Topolini e Geppi che leggevo
io, tra cui Monelli e Intrepidi, erano forse più adatti ad adolescenti quale
lui era. All’inizio guardavo solo le figure, ma alcuni fumetti mi cominciavano
a garbare come Pedrito El Drito, lo sceriffo di una città di ubriaconi, le cui
mogli cercavano sempre di togliergli gli alcolici, ma loro glieli riprendevano
spesso alla fine, sfidando i loro notturni mattarelli dietro le porte.
Quella casa ora
appartiene solo a Remo che ci vive con la moglie, le due figlie e il figlio di
una di loro.
Quando mi lasciavano
lì da zia Magali per qualche giorno non potevo dimenticarmi di giocare con i
rocchetti di legno, scarti della segheria del Caselli, (lì accanto, che è
diventata un’impresa enorme, e che tratta vari materiali di costruzione,) in
cantina ce ne erano una grande quantità, che poi loro bruciavano nel caminetto.
Ci facevo dei castelli, delle muraglie cinesi e non, qualsiasi altra cosa che
avessi visto alla TV.
Ultimamente con mio
fratello Leonardo siamo andati a Marilia, per via di un documento per
l’invalidità di mia madre, eravamo in anticipo e siamo andati a fare un
giretto, volendo vedere la casa paterna. Siamo entrati allora in una corte che
prima non c’era e siamo rimasti stupiti di quanto era cambiata, la casa di mio
padre, ci avevano addirittura fatto la show room per la ditta Caselli, siamo
rimasti esterrefatti e dispiaciuti.
Solo uscendo ci siamo
resi conto che ci eravamo sbagliati noi, quella era la corte dove abitava
Garita madre di Renzo, ma non di Renzo Andreini detto Porco il Lupo, che anche
lui abitava lì, ma era più vecchio assai.
Quando ero bambino,
tra noi e la corte dove abitava Garita, c’era il vivaio delle piante, poi il
fosso e il lavatoio e siccome dall’altro lato, sulla strada, c’era un
meccanico, spesso sull’acqua trasparente e vorticosa vedevo passare velocemente
dei riflessi arcobaleno causati da olio o altri idrocarburi.
In corte, sul muro
esterno di una specie di magazzino degli attrezzi, c’erano delle mensole, sotto
una tettoia, con dei vasi e delle relative piccole piante, che i bonsai non si
sapeva ancora cosa fossero. Seminascosti in mezzo, soldatini e macchinine,
elicotteri e dinosauri, elefanti e insetti di plastica più o meno tutti della
stessa grandezza che Garita trovava nel detersivo Tide e siccome non aveva
bambini, le dispiaceva di buttarli via e li metteva lì a fare capolino dal
fogliame, dietro i vasi, di piante grasse e magre, a far sviluppare la mia
fantasia al galoppo.
Ci passavo ogni tanto,
nelle mie esplorazioni e mi incuriosivano, ma non ne rubai mai, non perché
fosse cosa non appartenente al mio stile. Magari mi pareva di toglierli dal
loro ambiente, di rompere una certa armonia di un’ambientazione di cui non mi
rendevo conto, forse c’era qualcosa del genere anche dentro di me, qualcosa che
faceva intravedere storie e qualche film non ancora girato, ma solo immaginato.
Un altro ricordo di Marilia è di un giorno caldo, con mia madre
saliamo a trovare mia zia Malena, moglie di Lorenzo, credo al primo piano della
vecchia casa paterna. Lei fa il caffè e loro lo bevono sedute nella cucina con
il tavolo e le sedie di formica verdolina, che però quel giorno non si vedono,
tanto la cucina è buia con la luce che filtra appena dagli sporti chiusi delle
finestre. La strada polverosa e bianca sotto è silenziosa, ogni tanto passa una
macchina, ora ci sarebbe un traffico infernale, ma a quel tempo il mondo era
ancora un po’ più vivibile, anche a Marilia.
DISTACCO E COMPLICITÀ
Ho conosciuto pessimi,
medi e formidabili raccontatori di barzellette, appartengo senz’altro alla
prima categoria, perché mentre racconto, mi sento particolarmente imbranato e
la mia confusione, in implacabile crescendo, arriva al suo zenit proprio al
momento della frase finale a effetto. L’effetto delle mie barzellette, più che
l’allegria, è l’imbarazzo.
Stranamente, però, con
le stesse mie peculiarità, mio cugino Remo, faceva scompisciare la gente e
forse lo fa ancora, solo che io l’ho perso di vista. L’ilarità che soleva
suscitare, non era dovuta alla genialità delle sue storielle, o alla sua
abilità descrittiva e scioltezza verbale. No, era piuttosto perché le
barzellette le raccontava così male, mischiandole tra di loro, sbagliando tutto
quello che c’era da sbagliare, con una decisa preferenza per i finali. Visto
che tutti ridevano, lui si è sempre considerato un buon raccontatore di barzellette.
(Qui si dovrebbe
aprire una parentesi sulla comicità involontaria, ma è corta assai, perché chi
ne ha il talento, subito inizia a sfruttarlo, la comicità non è già più
involontaria e la parentesi si chiude.)
La battuta è una
facezia improvvisata, che viene fuori dalla bocca della persona, quasi per
caso, di conseguenza a quello che è stato detto o fatto in precedenza. La
barzelletta invece è una cosa preparata, che qualcun altro ci ha raccontato, o
l’abbiamo letta su un giornale.
Durante la nostra lunga
carriera di critici osservatori di difetti altrui, e di ostinati e sistematici
occultatori dei nostri, spesso ci è capitato di vedere serate tra amici -
compagni di lavoro, colleghi di scuole serali, tifosi sportivi, iscritti a
partiti politici e tante altre categorie - essere irrimediabilmente guastate da
inarrestabili raccontatori di barzellette, che non permettevano altro tipo di
conversazione e alla fine, malinconici più che mai, ce ne andavamo tutti a
letto, maledicendo l’universo intero e tutti i suoi abitanti.
Il ridere induce
l’organismo a produrre sostanze come ad esempio le betaendorfine, che attenuano
gli stimoli dolorosi e danno un generale senso di benessere. Le betaendorfine,
anche se le usiamo tutti i giorni, non le conosciamo a fondo, (oppure diciamo
che non le abbiamo mai sentite nominare,) ma sono lì e hanno la loro
importanza, lavorano per la nostra salute.
Inoltre il ridere
tutela il sistema immunitario perché combatte le sostanze tipiche prodotte
dallo stress, come il cortisone e l’adrenalina che a lungo andare logorano
l’organismo e abbassano le difese. Una certa dose di buon umore rappresenta una
barriera naturale dell’organismo contro i microbi, funzionando di fatto come un
vaccino universale.
Però ci vuole un senso
dell’umorismo ben temperato, per vedere il lato soleggiato della strada e per
camminarci più o meno costantemente, per noi umani non è una cosa naturale,
anzi lo è di più il contrario, lamentarsi e commiserarsi, ma bisogna prima
pensarci per tempo e poi, dopo, continuare a pensarci.
La vita è una
disciplina.
“E due vite sono una
disciplona” disse un nostro amico, costernato di fronte alle fisiologiche
difficoltà del rapporto giornaliero con la sua appena sposata mogliettina.
Naturalmente la colpa non era esclusivamente di lei, ma lui se ne accorse solo
dopo la tristezza della separazione, del divorzio e degli alimenti da pagare.
Il nostro amico non sapeva ancora che la cosa che distingue di più l'uomo dagli
animali, è proprio la capacità di diversificare la propria esistenza, per farlo
non la si può prendere troppo sul serio, bisogna saperci ridere sopra. Un certo
Carlos Castaneda ci parla della follia controllata.
Stiamo qui parlando
dell’uomo inteso come umanità e dell’animale inteso come facente parte di tutte
quelle altre categorie non vegetali e certo nemmeno delle pietre, magari
lasceremo fuori anche tutti gli organismi unicellulari. Ebbene sì, confessiamo
di non sapere esattamente cosa accade alle amebe, alle rocce e alle piante, ma
osserviamo che gli animali sono sempre seri, se hanno la bocca aperta e la
lingua fuori non significa che stiano ridendo, magari stanno solo respirando.
È provato
scientificamente che gli animali non sono affatto dotati di eccessivo senso
dell'umorismo, questo non significa che non ne abbiano, magari è solo diverso
da quello degli scienziati e dei sociologi, i quali, in alcuni casi, però anche
non ne hanno e non s'impegnano certo a farcelo sapere.
Osservarli di nascosto
è divertente, gli animali, probabilmente anche gli scienziati e i sociologi, ma
purtroppo non è tanto incentivato, né permesso dalle vigenti norme.
Limitiamoci allora a
dire che le nostre bestiole fanno le cose più buffe senza ridere, come i
cani quando si grattano le pulci, a volte ci accorgiamo che hanno pose umane
mischiate tra i gesti più animaleschi.
L’uomo si dimentica,
spesso e volentieri, che anche lui è una bestia, specie quando ha un vestito
perfettamente stirato e una cravatta che combina a meraviglia con la camicia, a
nostro parere diventa ancora più bestia, eppure la sua tendenza è considerarsi
piuttosto al contrario.
Intanto il mio cane si
vergogna un po’, mentre fa i suoi bisogni in giardino, mi guarda con le
orecchie basse, quasi come per scusarsi, ma non ne può fare a meno, è più forte
di lui. Deve proprio fare la cacca. Proprio come un comico che fa delle cose
assurdamente buffe, rimanendo completamente serio, fa ancora più ridere. Buster
Keaton aveva una faccia eternamente impassibile, Charlie Chaplin, nei film
muti, assai raramente faceva smorfie anche solo somiglianti a un sorriso,
allora rapido, ironico o ruffiano.
L'ironia è ridere
degli altri, l'umorismo è invece ridere con gli altri, dice Carlo M.Cipolla,
arguto storico e scrittore italiano.
E allora che cosa è la
comicità? Che cosa ci fa ridere, oppure no? Se siamo di buon umore, è
sufficiente venire a sapere che esiste uno che si chiama Carlo M.Cipolla. Però,
a cose normali, è più complicato, non c'è niente di più soggettivo. La tragedia
invece è una cosa che tutti capiscono e, in più, assai facilmente ci si
riconoscono e a volte ci si crogiolano anche piuttosto volentieri.
Secondo alcuni,
paradossalmente, anche chiamarsi Carlo M.Cipolla, può essere una tragedia, ma
non per tutti. Infatti lo storico in questione pare aver vissuto piuttosto
bene. La nostra personale opinione è che ci sono cose ben più comiche, come le
persone dalla mentalità rigida e che hanno sempre paura di cadere nel ridicolo.
La vita degli uomini,
in generale, è purtroppo portata all’esagerazione. C’è gente che si butta a
peso morto nel lavoro, altra gente che si butta a peso morto nell’alcool, ci
sono quelli che si buttano a peso morto nella droga, nel mangiare, nello sport,
nel sesso e così via. Insomma tutti si buttano a peso morto su qualcosa, si
direbbe che è una contagiosa tendenza comune a tutti gli umani viventi. I morti
ovviamente ci si sono già buttati in precedenza.
Il fatto è che noi
crediamo di ingannare gli altri, ma invece freghiamo noi stessi, come il medico
che dice ai pazienti di smettere di fumare e di bere, ma lui fa di peggio.
D’accordo, diciamocelo
dicendocelo: gli esseri umani si abbandonano sempre, volenti o nolenti,
all’esagerazione, non riescono a resistere, anzi: non ci provano nemmeno. Può
essere un’esagerazione di un qualcosa che ci piaccia, o di un qualcosa che ci
porti dei vantaggi, oppure, ancor più comunemente, un’esagerazione di un
qualcosa che anche gli altri fanno e questo non significa affatto che sia
vantaggioso o intelligente.
Abbiamo ragione di
credere che questo accada per un istinto di imitazione che tutti noi abbiamo,
che ha certo il suo bravo motivo di esistere, gli psicologi non si stancano mai
di spiegarcelo.
Certo che è difficile
capirne l’attuale utilità, nell’epoca moderna, ora che sfuggire a una
catastrofe naturale, o essere inseguiti da animali feroci, sono tra i pericoli
meno frequenti in cui ci troviamo, all’interno della nostra pallosa routine.
L’istinto di
imitazione era stato ideato e creato da Dio, o chi per Lui, ma poi avrebbe
potuto modificarlo o toglierlo, secondo noi, insomma è anacronistico e
obsoleto. Almeno si poteva regolarlo, fornire eventuali opzioni alternative,
invece di fare vista grossa e lasciarlo esattamente così, come migliaia di anni
fa, quando era indubbiamente utile ai cavernicoli, cioè quando le due uniche
opzioni erano cacciare o essere cacciati.
A questo proposito c’è
un robusto eppure sottile proverbio, originario di una zona dove si vive ancora
in maniera rustica, sulle Montagne Rocciose degli Stati Uniti: “A volte tu
mangi l’orso, altre volte è l’orso che mangia te.”
Insomma, per farvela
breve l’unico senso della vita è stare bene, ma per farlo bisogna continuarla.
Cosa c’è di più forte dell’istinto naturale e la conseguente propagazione della
specie? Pur ammettendo anche che la specie umana ci abbia già abbondantemente
scassato gli ammennicoli, è meglio volerle bene, perché, a volte per fortuna, o
più spesso purtroppo, ne facciamo sempre parte.
Allora cominciamo con
l’accettare di buon grado un fatto secondo noi incontestabile: questa storia
della felicità, gli uomini, intesi come umanità, l’hanno scoperta da
pochissimo. E da quel momento gli ha portato, più che altro, generose dosi
d’infelicità.
Se la sua vita fa
piuttosto schifo, l’uomo si lascia morire a poco a poco, con la depressione.
Oppure si ammazza subito per non perdere tempo. Per fare questo ci sono vari
metodi, più o meno efficaci, ma che se falliscono per un nonnulla, possono
rendere anche più tremenda quella stessa esistenza, che già non ci piaceva, con
invalidità di varie entità e grado, ad esempio, oppure pentimenti dolorosi e
inutili.
Per questo che noi
consigliamo di andarci piano, se uno proprio si vuole suicidare, è
consigliabile che lo faccia perbene, magari senza bersi una bottiglia di grappa
per prendere coraggio, perché ci vuole determinazione e lucidità anche in
questo.
Una volta non era
affatto così, la gente sapeva che doveva soffrire e lo faceva di buon grado,
insomma, non aveva alternative, o non sapeva di averne. Da quando hanno
scoperto la felicità, invece le cose sono diventate un po’ più complesse.
Perché la felicità è un po’ come la libertà o la democrazia, pure recenti
scoperte che sono sulla bocca di tutti, ma nessuno sa come sono fatte.
Certo la vita sarebbe
assai più grama, se non ci accorgessimo, un po’ prima della sua fine, che noi non
siamo affatto pecore, che questo seguire il gregge è triste, ma anche comico,
per fortuna. La vita è tragicomica, basta saperla osservare con dei visori
tridimensionali, allora sì che possiamo cercare di approfittare di entrambi
questi due lati, che possono magicamente saltarci agli occhi, finalmente notare
anche che fluttuano graziosamente in eterno squilibrio. Per questo si consiglia
di ridere, insomma proviamo magari a dosare il pianto, o la disperazione, le
grida di dolore. Cerchiamo di gioire di quello che abbiamo e non pensare tanto
a quello che ci manca, perché sempre ci mancherà qualcosa e quello non deve
impedirci di approfittare di ciò che possediamo.
Non ricordiamo proprio
chi abbia detto, non molto recentemente e non solo per farsi quattro risate,
che la comicità è tragedia più tempo. Un esempio: se noi filmiamo nostro zio,
l’appuntato dei Carabinieri Cosimo Casalabbate, mentre cerca affannosamente di
attaccare un quadro e si batte una feroce martellata su un dito, è meglio non
fargli vedere subito il video, sennò ci potrebbe dare una martellata anche
sulla telecamera. Allora abbiamo ragione di credere che sia meglio aspettare un
po’.
Qualche giorno dopo,
se non è un completo animale, nostro zio Cosimo sarà capace di vedere quel
filmato e di ridere della scena comica che ha interpretato involontariamente,
gridando e saltando per il dolore. Se non è un idiota, riderà perfino della
faccia disperata che ha fatto, dei sorrisi imbarazzati e addirittura delle
grasse risate degli altri, che al momento, invece, gli sono piaciute assai
meno.
Noteremo che il tempo
gli avrà dato la necessaria distanza, il giusto distacco per poter considerare
quella situazione senza soffrire, scorgendone finalmente il lato comico, oltre
quello tragico, di conseguenza dimenticato, allora passato a minore importanza.
Henri Bergson,
filosofo francese, disse che la comicità è la combinazione di distacco e
complicità. Il distacco è necessario per sorridere delle nostre cose, per
esempio se uno racconta una barzelletta sulle corna, rideranno tutti meno
quelli che hanno problemi con le mogli. Come abbiamo visto prima, il distacco
può essere anche dato dal tempo, ma non necessariamente o sempre.
La complicità spesso
si esprime in dialetto, o nel gergo popolare ed è perciò intraducibile, per cui
la complicità napoletana è assai diversa da quella milanese, come anche i
soggetti e le situazioni... e tutto questo senza uscire dalla nostra
stivaleggiante penisola.
In questo momento non
ricordiamo in quale lingua orientale ci siano due differenti parole, per
chiamare la risata dell’uomo e quella della donna. Il fatto notevole è che le
due cose siano considerate separate e differenti, non tanto da quale paese
provenga questa bizzarria del lessico.
Se leggiamo il primo
Cechov, inventore dei racconti corti, ci accorgiamo che abbiamo una
straordinaria familiarità con l'Ucraina di quei tempi remoti, ci pare di aver
sempre vissuto a Taganrog, e la Crimea, penisola sulla quale non abbiamo mai
messo piede, per noi non abbia segreti. È solo perché lui era un genio fottuto,
anche se non se ne accorse e con il tempo diventò sempre più triste e
malinconico, forse anche perché era malato di tubercolosi.
Ironia del destino:
spesso i comici sono persone tristi, a proposito, si dice che il fenomenale
Totò fosse uno che non usciva mai di casa e che era terrorizzato dall’ipotesi
che qualcuno lo invitasse a cena e,
tacitamente o meno, gli chiedesse
di far divertire i commensali. Cosa che poi succedeva di continuo, per cui lui
cercava di inventare ogni tipo di scusa, ma gli altri non riuscivano a
crederci, pensavano sempre che scherzasse e insistevano a oltranza.
Tornando al precedente
Anton Cechov, soprattutto nei primi tempi del suo scrivere, con poche
pennellate infallibili, ha avuto modo e capacità di farci saltare migliaia di
chilometri in un colpo solo, proponendoci le sue situazioni di tutti i giorni,
di quei luoghi e tempi a noi lontani e portandoceli di schianto a casa nostra.
Facendoci morire dal
ridere, ci ha fatto sentire più vivi. Ci ha fatto sentire sulla pelle che cosa
è la complicità. Riuscire a vedere la nostra vita con distacco ci può far
notare quanto esista anche l'aspetto umoristico in tutto quello che facciamo.
Il lato comico magari
lo notiamo di più negli altri, nelle situazioni di tutti i giorni, in tutto
quello che ci succede intorno, allora sentiamo la complicità con il mondo che
ci circonda. Non è facile scherzare proprio sulle nostre stesse tragedie, ma è
bene farlo, perché ci sembreranno meno terribili, allora sarà più facile
conviverci.
Un politico brasiliano
di qualche tempo fa, soprannominato il Barone di Itararè, noto soprattutto per
le sue frasi ironiche, disse che:
“Il senso dell’humour
è quella cosa che ti permette di spanciarti dal ridere di una situazione che se
capitasse a te, ti renderebbe furioso.”
A questo proposito,
abbiamo avuto modo di notare che la persona stressata è così presa
dall’importanza della tragedia spazio-temporale che sta vivendo, che non si
accorge di nient’altro, tantomeno del lato comico della routine. Non ne ha
tempo e meno ancora la voglia, non sa nemmeno di averne la capacità.
Basterebbe che si
calmasse, che si dimenticasse della sua furia ostinata e cieca, per riuscire a
venir fuori da quelle sabbie mobili, ma per via delle circostanze in cui si
trova a nuotare, non affogare è proprio la cosa più improbabile.
PICNIC
A casa avevamo un formidabile cestino di vimini per i picnic,
dentro c'erano piatti e bicchieri di plastica e altre cose utili per fare le
merende all'aperto, tra cui anche minuscole scatoline che si aprivano
svitandole e che si potevano anche avvitare tra di loro in fila. Avevano la
perfetta forma e grandezza che ci avrebbero permesso di arrivare a destinazione
senza temere le eventuali scosse delle buche di strade di campagna, che secondo
i geniali ideatori avrebbero altrimenti messo in pericolo i gusci delle uova
sode. Penso che la nostra famiglia lo abbia usato una o due volte, questo
cestino, forse perché era pesante e occupava troppo spazio in macchina, ma
anche perché i supellettili che conteneva non erano del tutto efficaci, i
picnic non erano tanto frequenti, oltretutto il lunedì di Pasqua la pioggia
scoraggiava anche i più audaci.
A proposito ricordo che mio padre mi raccontò che quando venne
fuori questa parola, a Marilia venne subito storpiata e divenne pitinic. Sicché le cosiddette Deposite, allora giovani figlie dei
proprietari del deposito, che vendeva cioccolatini, boeri e caramelle varie,
quando un coetaneo le invitò per un pitinic
loro non conoscevano ancora questa parola, pensarono che fosse una cosa
sconcia e lo presero a borsettate.
Ida e Sunta, poi rimaste zitelle vita natural durante, erano
nostre lontane parenti e grandi amiche di mia zia Magali, anche lei non si
sposò mai, ma si fidanzò, insieme a loro, al fecondo pettegolezzo di paese.
MOLOGNO
“La vita è piena di ingiustizie, tant’è vero che difficilmente il
lunedì di Pasqua il cielo si mantiene sereno, di solito quando la gente parte
per il picnic, illusa da un timido sole mattinale che spunta tra le nebbie, si
aspetta già di dover apparecchiare poi sotto un ponte, o in qualche
affollatissimo capannone abbandonato.
Dipendendo dalla clemenza del tempo atmosferico la gente di
Mologno, nel giorno del cosiddetto Merendino,
giocava a bocce sul circuito squadrato delle strade sassose, quelle con la
fascia di erba nel mezzo, che come angoli avevano le loro quattro case in mezzo
ai campi, oltre il passaggio a livello del treno, andando verso il fiume
Serchio. Mi ricordo di averne seguito un giorno gli sviluppi, ero bambino e chi
non giocava portava il vino e la roba da mangiare. Era un divertimento, perché
si facevano coloriti commenti accompagnati dalle relative bestemmie e da
bicchierotti di rosso, una cosa alimentava l'altra. Le vecchie tradizioni ora
si sono perse e, anche chiedendo agli abitanti dei luoghi in questione, si
ricordano appena di questa cosa, secondo me invece d'importanza non
indifferente.”
“Vero. E tua madre?”
“Te
l’ho già raccontato, una tragedia. Il medico di famiglia si è sorpreso della
sua resistenza, non sapevo se lo aveva detto per scherzo o no, ma secondo lui
era dovuta alle castagne, considerata anche la provenienza Garfagnina, o quasi.
Mi sono informato e ho scoperto che il medico non scherzava, dal
punto di vista nutrizionale, le castagne, hanno una notevole quantità di
carboidrati complessi, per questo sono in grado di sostituire i più pregiati
cereali, con il vantaggio però di non contenere glutine.
Ricche di minerali che contribuiscono al buon funzionamento
dell’organismo, le castagne aiutano a rinforzare il sistema immunitario. Stiamo
parlando, quindi, di un prodotto di elevata qualità che grazie all’alto
contenuto di amidi, proteine, sali minerali come il potassio, il fosforo, lo
zolfo, il magnesio, il calcio e il ferro, insieme alle vitamine C, B1, B2 e PP,
una bassa percentuale di grassi, è indicato anche per chi effettua
attività sportiva. Inoltre, sono molto digeribili e consigliate a chi soffre di
anemia o inappetenza e grazie all’abbondante presenza di fibre, sono anche
molto utili per la funzionalità dell’intestino.”
“Io ne ho mangiate un mucchio, eppure senza saperlo. Ma fammi
vedere queste foto.” Chiede il Giuntini e io gliele passo. Poi
dico:
“Guardando le foto di
quando era bambina e poi giovane e bella, penso a lei, a come era nei vari periodi
della sua vita. Prima non assomigliava per niente alla nonna, mi pareva, ma da
vecchia diventava sempre più simile, in alcune foto poi sembra la Giovannina,
una signora nostra parente che a volte è venuta ad aiutare. È strano ma logico
che con la malattia affiorino le maniere di esprimersi della gioventù,
l’accento garfagnino e anche tante parolacce che forse per dare l’esempio a noi
figli, prima non diceva mai. È la persona che conosco da più tempo, non ricordo
bene i particolari, ma sono uscito fuori da lei.”
“Hai dei testimoni?”
Scherza sempre e non ride mai, il Giuntini. Un fenomeno vivente di burbero dal
cuore grande.
“Quanti ne vuoi.
Quando siamo andati al cimitero di Barga, che è piuttosto grande, te lo sai,
non sapevamo dove era la tomba dei nonni, non c’ero mai stato, mia moglie
Adriana ha chiesto mentalmente aiuto a loro stessi e l’abbiamo trovata subito.”
Alza lo sguardo dalle piccole foto in bianconero e mi guarda, un po’ come se
avessi raccontato una barzelletta che non fa ridere.
“Non ci credo.” Dice.
“Eppure è vero.”
“E che ti ricordi
della vecchia e romantica Garfagnana?” Se una cosa non gli garba, cambia subito
discorso.
“Dicono che Mologno
non ne faccia parte. Per esempio. E neanche Barga.”
“Barga no, ma Mologno
comunque è sul confine, se caschi nel fiume vai a finire in Garfagnana.”
“Non ce n’è alcun bisogno, ne ho un ricordo nitido e nebuloso allo
stesso tempo. Una volta stavo aspettando in macchina, su un’ampia curva, in
salita di una strada costeggiata da ciliegi e tante altre automobili erano
posteggiate sui due lati. Non ricordo dov’era, ma certo da quelle parti,
Mediavalle o Garfagnana, forse era al di là dei confini, la curva dei ciliegi.
Non so chi stavo aspettando, penso che fosse mio padre e che questo sia
successo più volte, la macchina dovrebbe essere una Simca 1000 rossa, o grigia
metallizzata, ero bambino e rimanevo lì da solo, per un tempo ragionevolmente
lungo. Doveva essere non lontano dalla casa dei nonni, a Mologno”
“Ah.
E di Mologno allora che ti ricordi?” Il Giuntini è di Sommocolonia, ma dice
sempre che è di Castelvecchio Pascoli, non so perché. Forse gli garbano le
poesie.
“Tra i primi ricordi
della mia vita c’è quello della casa dei nonni materni, un edificio imponente e
bianco che spunta da una fitta nebbia, in una fredda giornata d’autunno o
d’inverno.
Dovevo aver certo più
di due anni, ma non molti di più.
Forse non avvenuta
quello stesso giorno la macellazione del maiale, da me seguita a distanza, nel
garage dei vicini, con le varie parti sanguinanti poi appese ai ganci, comunque
associata a una somigliante porzione di tempo piovviginosa e fredda.”
“Com’era
questa casa? Era grande?”
“Era grande e ci abitavano altre due famiglie, i contadini. Al
seminterrato c’era la cantina, un’abitazione più piccola sul davanti, dove
abitavano la Meri e il Cavani, gente simpaticissima. Dalla parte opposta, dove
c’era l’ingresso della cantina, sopra c’era una famiglia piegata dal lavoro e
dall’alcool, non parlavano, papà, mamma e nonno, avevano lo sguardo nel vuoto,
i due bambini più o meno della nostra età erano piuttosto sporchi, ma ancora
normali.”
“Una casa vecchia?”
“Sì, con i muri larghi e fatti di sassi di fiume.”
“Che facevate quando stavate lì?”
“La maggior parte del tempo noi la passavamo in cucina,
specialmente d’inverno, c’era il caminetto e la cucina economica, che si chiama
così perché scalda e ci si può anche cucinare sopra.”
“D’inverno doveva essere freddo…”
“Pare che tu abbia sempre vissuto nel deserto del Sahara, ma te
Giuntini l’hai mai visto il mare?”
“C’ho anche fatto dei tuffi non indifferenti, a Marina di Massa, o
di Carrara, un ci credi?”
“Ci credo, chissà panciate.”
“Invece no, sono mezzo montanaro e va bene, ma perché poi dovrei
aver fatto delle panciate?”
“Perché come nuotatori e tuffatori i Garfagnini non sono mai stati
tra i primi del mondo, per esempio.”
“Ma io sono di Castelvecchio Pascoli.”
“Mi risulta che piuttosto tu sia di Sommocolonia, ma anche se
fossi di Castelvecchio sarebbe lo stesso.”
“Diciamo che sono nato a Sommocolonia, ma ho vissuto quasi tutta
l’infanzia a Castelvecchio, tecnicamente entrambe non sono Garfagnana,
diciamocelo; inoltre sono cristiano cattolico praticante…”
“E con questo?”
“Te lo sai o no che noi del comune di Barga apparteniamo alla
diocesi di Pisa?”
“Lo so. E allora?”
“Mai sentito parlare delle Repubbliche Marinare?”
La sua logica è così ferrea che mi stende, di solito parla poco,
ma quando lo fa è cassazione. Quando ci siamo ripresi ho continuato.
“Noi comunque si facevano le mondine nel caminetto e si andava a
letto presto. La sera dopo cena si giocava sul tavolino, di legno foderato di
fòrmica rossa sul piano. I grandi a volte giocavano a carte, noi avevamo un
gioco degli animali con delle figurine abbastanza spesse e rigide, che non so
chi aveva lasciato in un armadietto che c'era nel salotto dei nonni, nel quale
noi andavamo sempre a cercare qualcosa e a volte ci trovavamo delle novità,
perché magari gli inglesi quando erano stati lì in vacanza ci avevano lasciato
delle cose vecchie, che non gli interessavano più. Questo gioco era incompleto,
mancavano delle figurine ma noi le usavamo in un'altra maniera.”
“Ma chi erano gli inglesi?”
“I nostri parenti, emigranti che poi erano i padroni di casa,
italiani che vivevano in Inghilterra, a Carlisle.”
“Ho capito. Tua nonna che tipo era?”
“Guglielmina era molto più seria di nonno, di solito si arrabbiava
con lui, comunque era lei che comandava, nonno era troppo buono, parlava tanto
e con tutti attaccava discorso, invece nonna non era di molte parole a
vanvera.”
“E il nonno com’era?”
“Immaginati un triangolo in piedi, forse una
piramide un po’ più slanciata, la parte del corpo più bassa grossa e quella
superiore più fina, la testa magra e allungata. Le gambe e il bacino parevano
parte di un corpo più massiccio e imponente, il torace lo era assai meno,
pareva non averci niente a che fare, le braccia però erano muscolose.
Quando arrivava un ospite andava giù in
cantina a prendere il vino buono, nessuno poteva riuscire a trattenerlo. Il
vino non era buono per niente e mio padre, che in qualità di ospite ogni volta
veniva privilegiato da questa attenzione, non si dimenticava mai di
ricordarglielo. La sua ironia prefabbricata, che ripeteva immancabilmente, di
quel buono davero quel vino lì, che poteva avere perfino sei gradi e mezzo
forse addirittura sette. Anche lui non poteva essere fermato da nessuno al
mondo, doveva dirglielo tutte le volte.
Anni dopo, avevo già la patente di guida e
andai a trovare i nonni con una fidanzata e un’altra coppia di amici, nonno
Pita ci accolse con calore, andò a prendere il vino buono, giocammo a scopa e a
briscola, dopo che ce ne eravamo andati però chiese a zia Alba chi diavolo
fossimo.”
Il Giuntini ride, cosa rara, forse perché gli
mancano dei denti davanti...
“Sbaglio o hai detto Pita? Si chiamava così?”
“Si chiamava Pietro, ma in Inghilterra lo
chiamavano Peter, che pronunciavano Pita.”
“E doveva essere un simpaticone.”
“Infatti. Una domanda che il nonno mi faceva
sempre, fino a quando morì, era se avevo finito o no il servizio militare.
Quando la nonna ci lasciò, lui campò solo pochi giorni in più, dopo tutti
quegli anni non ce la fece ad adattarsi senza di lei.
Il nonno comprava quelle mattonelle da
attaccare alle pareti con le bischerate scritte tipo “Saranno grandi i papi, saran potenti i re, ma quando qui si siedono
son tutti come me.” Il marito di sua
figlia naturalmente lo prendeva in giro ad ogni occasione. Mio padre ripeteva
sempre le stesse battute, gli anni passavano, ma quelle non cambiavano mai.
Anche il nonno scherzava con frasi fatte e ripetute più volte, che non si
sapeva nemmeno cosa significavano, come Trinkes
weine, arrivi e partenze, la prima parte evidentemente dal tedesco, bevi il vino, la connessione con la
seconda parte, arrivi e partenze, doveva
essere qualcosa a che fare con i treni, ma
la combinazione tra le due parti sfuggiva a tutti e pure le occasioni in cui
usava dirlo erano misteriose e parevano anche quelle difficilmente da potersi
includere in una sola categoria. Poi c’era: alla
pesca del tonno! Che veniva usata quando qualcuno pescava, sottintendendo
che non avrebbe preso pesci o poca roba. Quando una mamma picchiava un bambino,
lui rideva e diceva: botte all’arbitro! Un'altra
frase che pronunciava spesso ridendo a noi bambini era: che bastiano ch’un tu sei!”
“E che rapporto avevano loro con quella casa?”
“Era come se fosse la loro casa, ma era degli inglesi, penso di
zia Alice, sorella della nonna. Dicevano che lei era ricca e ricco era anche lo
zio Dorando, che ogni tanto ci faceva visita e andava a vangare nel suo orto,
vicino alla stazione del treno, che stranamente non si chiamava la stazione di
Mologno, ma era quella di Barga-Gallicano. Te lo sai meglio di me.
Non so dove avevano abitato prima, ma io li ho conosciuti e li ho
sempre visti in quella casa.
La bisnonna, da parte di mio nonno Pietro, era raffigurata in un
quadro, dove spazzava con una scopa di saggina la stalla. Mia madre appariva in
alcune foto in bianconero, appese e incorniciate nel salotto buono, che non
veniva mai usato ed era arredato come succedeva una volta. Era come un museo,
pieno di ricami, vetrinette e cose da non toccare praticamente mai, se non per
pulirle. In una grande fotografia con la cornice argentata due bambine piccole,
molto diverse tra di loro, vestite di pizzo chiaro, una cicciottella e scura,
mia madre, l’altra più magra e bionda, zia Alba. In un’altra foto mio nonno
appariva giovane e vestito da carabiniere, ma secondo quello che dicono faceva
solo parte della vigilanza della grande industria di Fornaci, la metallurgica
SMI, che era come una città e c’era anche un grande cinema dove da bambino ho
visto uno dei miei primi film, Via col
vento.”
“A voi bambini piaceva andare e restare dei giorni dai nonni, non
è vero?”
“Sì. Per noi era rovesciare la realtà e trovarne un’altra più
romantica e quasi mitologica. Per esempio le camere da letto erano tutte
particolari, oltre a quella dei nonni, che conoscevamo meno, le tre altre
camere di quella casa le ricordo bene, due perché erano tenebrose e una perché
ci dormivamo noi due, in un freddo tremendo d’inverno.
La prima, unica al primo piano, che al pianterreno, o seminterrato
c’era la cantina. La camera aveva due letti, uno singolo e uno matrimoniale,
era l’ideale per starci in tre, Umberto, mia madre ed io. Probabilmente i
mobili venivano dall’Inghilterra, perché non ne ho mai visti di simili, erano
bombati e riproducevano i disegni dei nodi di legno, ma non erano massicci ed
erano sicuramente fatti di pannelli poco spessi, scuri e curvi. La luce era
scarsa che per leggere un giornalino ci perdevi gli occhi. Le lampade anche
riproducevano un improbabile marmo trasparente con le sue venature, ma le
lampadine dovevano essere le più fioche disponibili, ci veniva subito sonno.
Sui letti degli imbottiti caldi, ma non tanto pesanti come quelli che si
usavano di solito all’epoca, che erano pieni di lana, questi invece erano
riempiti di piume, credo, disegnati a fiori e fogliame ma a colori scuri e
smorti, sul marrone verdastro. Questa camera poi noi bambini non la usammo più
perché ci trasferimmo al piano superiore, eravamo un po’ più grandi, si dormiva
da soli e penso che quella fosse la più fredda della casa, perché era d’angolo,
aveva due finestre e prendeva il freddo da due lati, era l’unica che aveva un
lato esposto in direzione del fiume e più oltre delle Apuane. C’erano quegli
imbottiti pesanti e in più coperte supplementari, mio padre diceva che con quel
peso addosso, quando uno si svegliava la mattina, era più stanco di quando era
andato a letto e poi doveva recuperare dormendo.
In quella camera freddissima c'è un ricordo pauroso di un grosso
coniglio, che avevamo visto in un film, chiamato Harvey e la notte ci sembrava
di vederlo, a me e mio fratello, in piedi vicino all'armadio e alla finestra.
Aveva come un corpo umano, di un uomo assai alto e la testa di coniglio. Nel
film non si vedeva mai, ma ne parlavano sempre, quindi lasciava spazio alla
nostra immaginazione, che non era poca. Dormivamo con la testa sotto le coperte
e durante la notte andare in bagno era peggio di una spedizione in pigiama al
polo nord. Quella era la stanza più fredda in assoluto, non mi ricordo di aver
mai fatto un bagno completo là, forse i nonni lo facevano d’estate, mentre noi
aspettavamo di tornare a casa.
La terza camera la usavamo solo in caso di necessità, forse quando
c’erano ospiti. La rete del letto matrimoniale era incurvata e concava, la
testa rimaneva più alta del normale, il corpo scendeva al suo massimo
all’altezza del sedere e le gambe rimanevano rialzate anche loro, ma meno della
testa e da sdraiati si vedeva bene la strada e il passaggio a livello del
treno. Era una camera piccola e scura, sia per le pareti, mi pare verdi scuro,
che per i mobili marroni, ma quasi neri. Quando si accendeva la luce, anche lì,
sembrava quasi più buio e non si poteva proprio leggere.”
“Interessante.”
“Di fronte al terrazzetto all’ingresso, che poi era sotto questa
camera, c’era la capanna, in una parte aperta in basso, c’era un vecchio
barroccio polveroso, per tutto il tempo, e ti parlo di decenni, non è stato mai
mosso di lì e anche un passeggino basso, aerodinamico, che somigliava a un
piccolo carro armato, forse rosa, doveva essere all’ultima moda ai suoi tempi,
forse negli anni sessanta, poi arrugginito tanto da non distinguersi più il
colore. Non so se sono ancora lì, ma io non li ho mai visti muovere da nessuno,
mai.”
“Beh…”
“Mi garbano le cose strane, lo so, e quelle vecchie, come quella
stanza dove facevano il pane… se stanza si può chiamare perché più che altro
era un corridoio scuro con due madie una di fronte all’altra, in fondo una
finestrella che dava verso Gallicano e il monte Forato. E c’era un odore di
farina e muffa che non ho più sentito da un'altra parte, ma lì c’era della
bella storia e della geografia non indifferente…”
“In un certo senso…”
“Nooo, in tutti i sensi!”
“Come era disposta la casa dei nonni?”
“La casa aveva un seminterrato e due piani, fatta come una specie
di U e nel mezzo, c'era una parte dove non batteva mai il sole, che veniva
praticamente frequentata solamente dalle galline, dove c'erano pietre di fiume
arrotondate lasciate alla rinfusa, dove non cresceva vegetazione e andavano a
beccarci ciottoli e cose del genere. C'erano anche suppellettili come catinelle
e vasi da notte metallici e bucati, insomma cose buttate e lasciate lì, quelle
che con il tempo non erano marcite. Quindi era una specie di terra di nessuno
dove la gente non camminava mai e che avevo visto anche dietro altre case in
Garfagnana, che avevano in comune il fatto di essere frequentate solo dalle
galline, che non ci batteva il sole e spesso c'erano anche dei rifiuti solidi
di vario tipo e tenore.”
“Allora c’era un pollaio attaccato alla casa?”
“Sì, una parte almeno era prolungamento della casa. Dove le
galline dormivano e deponevano le uova. Poi c’era un piccolo edificio staccato,
nella prima stanzetta in muratura c’erano le gabbie dei conigli, ce ne erano
diverse anche fuori, coperte dalla lamiera, non so con quale criterio erano
divise. Mi piaceva dargli da mangiare, anche se dovevo stare attento a cosa gli
proponevo, oltre che alle quantità, sennò gli faceva male. Nella seconda
stanzetta c'era una specie di grande contenitore fatto di terracotta che
serviva per ottenere la lisciva, attraverso l'ebollizione di cenere e acqua. Da
un rubinetto in basso usciva questo liquido denso giallastro, la lisciva, che
poi era un detersivo per fare il bucato.”
“La facevano anche a casa di mia nonna.”
“Infatti, una volta funzionava così.
Sopra una specie di capanna di legno, abbastanza aperta dai vari
lati, piena di fascine legate, per accendere il fuoco. La legna a pezzi era
invece nella rimessa, che era dall’altra parte della casa.
La pompa era in mezzo al pollaio, che era uno spiazzo recintato
dove le galline becchettavano i ciottoli, comunicante con una stanzina in
muratura, dove erano incoraggiate a deporre uova con bianchi sassi di fiume
dalla forma somigliante, ma venivano lasciate libere di uscire fuori per tutto
il giorno. Erano libere di vagare quanto volevano, non si allontanavano mai
troppo. Poi la sera la nonna o chi altri le chiamavano e loro accorrevano
velocissime, perché dentro gli tiravano del granturco sgranato, per premiarle o
per stimolarle a tornare.
Oltre l’aia, che era uno spiazzo di cemento dove una volta si
facevano seccare il granturco sgranato e i fagioli ancora da sgranare, i nonni
avevano anche un piccolo giardino accuratamente recintato, per colpa delle
galline, che era sempre perfettamente in ordine, ma non ci andava mai nessuno.
Per prendere l'acqua dal pozzo bisognava tirarne prima un secchio
dentro la pompa, quindi era un didattico rapporto di dare prima di avere. Per
tirare su acqua in quantità bisognava lasciare un secchio pieno lì vicino, per
la volta seguente, sennò niente.”
“Intorno alla casa come era il terreno? Era coltivato o no? Ora lo
vedi che non piantano più niente, da nessuna parte.”
“Diamine. C’era un orto recintato con la rete fina, per via delle
galline, ci si andava a rubare le fragole, quando era l’epoca. I campi erano
coltivati a erba medica, o a granturco, cercando di alternare, mi ricordo anche
piante di patata, ma per quelle le galline erano un problema e le rovinavano.
Erano tutti campi delimitati dai filari di uva, le strade anche e l’erba
cresceva ai lati e nel mezzo, dove passavano le ruote prima dei barrocci e poi
delle automobili e dei trattori, la terra rimaneva battuta e nuda, ma non
fangosa quando pioveva, perché c’era mischiata parecchia ghiaia di fiume.
Pietre grosse e veri e propri massi affioravano in certi punti, come in mezzo
tra la casa e la capanna, lì c’erano delle pietre piatte enormi per lastricare
la leggera salita, dai muri spessi della casa anche affioravano degli scogli
non indifferenti, che erano già nel terreno o forse li avevano messi per
renderla più forte alla base.” Il Giuntini mi versa un bicchierotto di rosso,
senza chiedermi niente e uno per sé.
“C’erano alberi da frutto?”
“Dietro la capanna c’erano dei noccioli che all’epoca della
maturazione venivano saccheggiati da noi bambini, davanti al pollaio un
ciliegio enorme, il nonno ci andava con la scala e riempiva dei cesti, una
volta ricordo che esagerò negli assaggi e si sentì male. Due bellissimi susini,
la chioma a forma di cuore come i frutti, di colore vino come le foglie, erano
però sul terreno dei contadini, all’ombra della casa, ma anche quelli non erano
al riparo delle nostre incursioni.
Salendo in mezzo a queste costruzioni di pietra di fiume si andava
verso una fattoria grande e alta, fatta a elle, dalla quale c’era una stupenda
vista, sotto si vedeva la scogliera e il fiume, Gallicano sull’altro lato.
La strada in mezzo ai campi faceva un quadrilatero incontrando un
altro gruppo di case, per tornare vicino al passaggio a livello, alla casa di
quello che veniva chiamato L’Antico, perché viveva come ai vecchi tempi e non
si adeguava ai nuovi.
Arrivando dal passaggio a livello, che ora non c’è più, in fondo a
quella strada dritta a sinistra della casa, c’era una curva, e lì un canneto
che veniva fuori da un mucchio di sassi di fiume arrotondati, di varia
grandezza, probabilmente quelli tirati fuori dai campi, per poterli coltivare.
Continuando da quella parte si trovava la casa del Piruletti, così denominato
perché si girava spesso su sé stesso, mentre parlava con gli altri, forse era
nervoso, faceva delle piroette. Di lì l’unica via d’accesso attuale, che porta
sulla strada principale, vicino al ponte di Gallicano, paese più grande, che è
dall’altra parte del fiume.”
“La casa allora era quasi sul letto del fiume?”
“C’erano tre livelli, almeno quando il fiume non era in piena: il
nostro, la piana di sotto protetta dalla scogliera e il letto vero e proprio
del fiume. Sul più alto, la capanna, la rimessa e la stalla, in un unico blocco
di muri di pietra, sono rimaste uguali e completamente abbandonate. Lì di
fronte la casa era ed è ancora su una specie di pianoro di terra più alta, che
teoricamente dovevano essere al riparo dalle piene del fiume, ma è successo che
la corrente vorticosa una volta era arrivata anche sopra e tutti cercavano mio
nonno, già senile, che vagava come un pazzo per quelle stradelle invase
dall’acqua minacciosa.
Più in basso c’era un lavatoio incassato in un poggio dove passava
una gora di acqua chiara ma vorticosa, che doveva servire per irrigare i campi
delle case più in là. Mio cugino Saverio e suoi amici ci avevano messo dei bei
pesciotti pescati nel fiume lì vicino, ogni tanto se ne vedeva uno, specialmente
nello sportello a sinistra del lavatoio, che non so a cosa servisse ma lì era
pieno di pietre e di acqua pulita. Nel lavatoio ci giocavamo con delle zucche
lunghe e verdi come poi non ne ho più viste, avevano passato il film di Moby
Dick alla televisione, in quei giorni, con Gregory Peck che faceva il capitano
Achab, e quindi le zucche diventarono balene enormi nel nostro gioco.
Al di sotto di quella specie di pianura, dove c’erano le case,
c’era la scogliera, che consisteva in un enorme argine di cemento e pietra che
veniva regolarmente distrutta dalla piena del fiume. Sarebbe utile ricordare a
cosa avrebbe dovuto servire questa scogliera, cioè per proteggere dalla piena
del fiume i raccolti dei campi che c’erano dietro. Nonostante il fatto che
venisse sempre fatta a pezzi da questa vorticosa acqua in piena, la
ricostruivano sempre alla stessa maniera. Il bello era che dentro queste
spaccature della scogliera c'erano tante lucertole, naturalmente era anche un
nido ideale per le serpi. Arrivando sulla scogliera d’estate, senza fare tanto
rumore, si potevano vedere le bisce che stavano stese al sole.
Penso che i fossi che ho detto prima, essendo in posizione assai
più alta del fiume, fossero incanalati a partire dalla Corsonna, che è un
torrente che si butta nel Serchio vicino a Mologno ed è proprio lì dove sta per
arrivare nel fiume, c'è uno slargo di cento metri per cinquanta, tutto di rocce
arrotondate più o meno alla stessa altezza, che sembra fatto per un qualche
motivo, forse per rallentare la forza delle piene, il nonno mi ci ha portato,
qualche volta poi ci siamo andati da soli.”
“Ci sono stato anch’io a Mologno, lo conosco a menadito…”
“Anche i tuoi erano di quelle parti?”
“No, mio nonno era di Limano, e non c’è bisogno che mi dici la
filastrocca.”
“Che filastrocca?”
“Lucchio, Limano e Vico sono
tre paesi che non valgono un fico.”
“E loro invece che rispondevano?” Chiedo io.
“Ah, sai pure quella?” Risponde domandando il Giuntini senza
ridere, già sapendo la risposta.
“Io sì, sei te che non la sai!”
“Figurati, l’ho quasi inventata io!”
“Bugiardo. Allora dilla!”
“Come sei scemo! Vico,
Lucchio e Limano; togli il cappello e tienilo in mano.”
“Bravo Giuntini. E la tua nonna?”
“La nonna era di Vagli.”
“Di sotto o di sopra?”
“Di sopra, di sopra.”
“Ma a me mi avevano detto che era di sotto...”
“Imbecille, ma se ti dico che era di sopra… ma te un ce n’hai più
di ricordi che ti vengano in mente?”
“Hai voglia te… mio cugino Saverio poi se n'è andato in Venezuela,
ma da piccolo ho diversi ricordi con lui, tra cui quando il nonno aveva un
motorino che lo teneva nella rimessa sempre lucido e pulitissimo, lui glielo
fregava e andava a fare il cross sul fiume e prendeva sempre in giro il nonno
perché lo chiamava la motogigletta.
Poi, in un giorno freddissimo di febbraio io e Saverio siamo
andati sopra il garage dei contadini, dove macellavano il maiale e là sopra
c'era una specie di altana con il granturco sgranato a seccare, di quel mucchio
avevamo fatto un cratere, come se fosse un vulcano ed era diventato la nostra
trincea, si sparava ai nemici protetti da argini di granturco.”
“Bello e poi?”
“Io non l’ho mai visto, ma una figura mitologica era il Veloge che prima degli anni sessanta
veniva a piedi con qualche scarsa pentola da vendere, e diceva:
- La volede questa
bella pentorina?
Le donne, più per divertirsi che altro, si mettevano a farci le
trattative sui prezzi, fingendo di considerarli esosi, ma alla fine poi non
gliele compravano quasi mai, povero vecchietto.
Suo erede naturale, ma con una struttura assai più ricca e
complessa era il Bocione, che urlava quando arrivava con la sua Apecar carica
di utensili per la cucina, perlopiù di plastica, dopo l’avvento del Moplen, che
attaccati a una struttura metallica aperta sventolavano e si dimenavano quando
era in movimento. Era un tipo grassoccio e rosso in faccia, che probabilmente
amava il vino e la cucina rustica della Garfagnana, aveva un vocione che non
aveva bisogno del megafono, ma in un secondo momento anche quello apparve tra i
suoi richiami per il pubblico, tutto femminile e casalingo, che si divertivano
anche con lui a trattare sui prezzi e a parlarci senza aver troppe intenzioni
di comprare, faceva parte del gioco.”
“Altri giochi?” Versa ancora due bicchierotti. Brinda.
“Salute. Tra le prime volte che ho giocato a pallone c’è stata
quella sul letto del fiume Serchio, un campetto improvvisato pieno di sassi e
senza erba, insieme al mio cugino Saverio ed è stata una partita tra una decina
di bambini di varie età. Le due squadre erano denominate Seghini e Segoni, vincemmo
noi Segoni cinque a quattro.”
“Eh sì, i Segoni erano forti assai. Ci ritorni volentieri a vedere
la casa dei nonni?”
“Sì. Ci sono tornato tante volte e ora fa proprio pena vederla,
cambiata in peggio, alcune sue parti abbandonate, con le finestre rotte e
vedere che lì attorno il degrado è ormai routine dichiarata e affermata.
Ci sono tornato varie
volte a Mologno, una volta anche con mamma e un suo vecchio amico, che le
telefonava sempre, dopo la morte di mio padre. Anche se tutto è cambiato e
abbandonato, ci vado sempre volentieri. Quello era il mondo dove è cresciuta
mia madre, ho cercato spesso di immaginarla da bambina giocare, in
quell’ambiente, andare a scuola a piedi a Barga e poi quando ha conosciuto mio
padre, in una festa da ballo all’aperto, come a quei tempi organizzavano
d’estate.”
IMMAGINAZIONE
Ricordo il film Kapò, sui campi di
concentramento tedeschi, che passai quasi tutto dietro la poltrona, ma perché
non me ne andavo proprio? Qualcosa m’incuriosiva e mi attirava, ma mi faceva
troppa paura. Oltretutto da là dietro sentivo l’audio e mi figuravo cose ancora
più turpi con la mia immaginazione galoppante.
Non credo che i genitori moderni avrebbero
fatto vedere a un bambino di circa cinque anni un film del genere, ma visto che
noi vivevamo nel Manicomio di Miggiano, forse una cosa implicava e
complementava l’altra.
Penso che sia stata in quell’epoca che mi
insegnarono ad andare in bicicletta senza le ruotine laterali, sul prato rasato
del giardino, per via dei voli in terra e poi togliendole una alla volta.
Papà prendeva in giro il tenente Sheridan,
diceva che era troppo implacabile e\o inesorabile. La Freccia Nera piaceva un
po’ a tutti e ce la guardavamo sempre. Maigret gli garbava e penso che se lo
sia visto tutto, dopo cena, nell’epoca del bianco e nero. Lo stesso con i
Racconti del Maresciallo di Mario Soldati con Turi Ferro. Poi c’è stato FBI
(Francesco Bertolazzi Investigatore) piuttosto buffo, con una musichina tipica
da suspense, sei puntate stile
commedia poliziottesca, di e con Ugo Tognazzi, ma era già a colori.
Quando guardiamo un film ci commuoviamo
quando riusciamo ad immaginare noi stessi in quella situazione o in
quell’altra.
“Sì, magari ci vuole della fantasia, anche solo per scorgere
qualcosa di più romantico, oltre la ripetizione di situazioni e di pensieri.”
“La fantasia è importante, non è mica una mercanzia come le
altre.”
“Non me lo dire a me che di fantasia io ce ne ho sempre avuta da
vendere, eppure non l’ho mai venduta, a eccezione di questi libri, forse, la
fantasia non la vuole nessuno, anche i miei libri poi non li compra nessuno,
non perché non siano belli, ma perché la gente oggi va dietro ad altre cose e
questi poi non ha nemmeno occasione di venire a sapere che esistono, o che
leggerli sarebbe una maniera piacevole di passare il tempo e che nel mezzo non
c’è nemmeno un po’ di martellante pubblicità, ormai non ci si fa più caso. In
più leggendo non si dà noia a nessuno e questa purtroppo è un’altra cosa che
non interessa ai più, la gente è diventata dinamica nel senso più negativo,
rumorosa nel senso meno positivo.”
“In che senso?”
“Nel senso che si muove troppo senza ottenere niente, che vuol
cambiare sempre e comunque, specialmente le cose che vanno bene e si potrebbero
lasciare così, che dà meno importanza alla storia, oggi che il movimento fine a
sé stesso è diventato il sistema di vita di una civiltà che fa il verso a sé
stessa e non capisce più dove sta il bene e dove il male.”
“Fermati qui, so che potresti continuare, ma non ce n’è bisogno.
Anche te non compreresti libri di qualcuno che non conosci, quando compri un
libro vai a colpo sicuro, no?”
“Infatti, ma il problema non sono tanto i lettori, quanto il
sistema che li invoglia verso cose molto più altisonanti, la pubblicità... cioè
il mercato, quelli decidono cosa è bello e non viceversa come dovrebbe essere.
Oggigiorno la novità anche vuota e ripetuta ma mascherata da nuovo è l’unica
possibile, perché se dovessero tornare ad apprezzare veramente le cose belle,
riabituare il pubblico a riconoscerle, ci vorrebbe più tempo e allora i costi
salirebbero. Chi se ne frega se l’arte è diventata una banana attaccata con il
nastro adesivo al muro? Se il nostro carburante sono questo tipo di novità, la
frustrazione sarà il nostro precoce destino, ma alla fine non importa a
nessuno. La creatività e il senso dell’humor piuttosto sarebbero il sale e il
pepe dell’esistenza, anche dentro un libro, se riuscissimo a divertirci tutti i
giorni, invece di fingere, anche nelle situazioni noiose o inevitabilmente più
volte ripetute, tutto sembrerebbe avere una migliore e bastevole ragione di
esistere.”
“Ma secondo te, la gente ha bisogno di pensare a tutte queste
cose?”
“Forse no, purtroppo, a tanta o troppa gente la ripetizione, così
com’è, va anche bene. Gli basta di avere quelle cose garantite che andrà avanti
all’infinito con la stessa routine.”
“Fammi un esempio allora, pratico e indicativo.”
“Per esempio, se vedo i comici di un tempo mi fanno ancora ridere,
quelli di oggi pare che non sappiano più cosa fare, ma la gente mi pare che non
lo noti, ride lo stesso, di cose ripetute e stereotipate.”
“Effettivamente…”
“Che la vita sia piuttosto ripetitiva forse se ne accorgono in
pochi, e forse solo costoro scoprono che va saputa allargare a partire dalle
sue innumerevoli pieghe, le piccole cose di tutti i giorni, per esempio i
ricordi bisogna saperli ripescare, anche e soprattutto quelli vecchi che si
possono anche rivivere, che ci possono anche insegnare cose divertenti e utili
nell’attualità.”
“Tipo cosa?”
DINO E GIANNI
Dino quando era piccolo c’aveva dei biscotti tondi e quadrati con
dei minuscoli buchi, le Marie. Magali allora diceva:
“Lo vuoi tondo o quadrato?”
“Tondo.” Lei glielo dava tondo, e lui piangeva forte:
“Nooo!! Lo voglio quadratooo!!!”
Quando si rompevano poi lui non li voleva più e allora lei glieli
cuciva.
Da bambino mi avevano portato in città, a Lucca, per qualche
giorno per via dell’allergia al polline. Mi tennero a casa di zia Ada, a quei
tempi un appartamento enorme, agli ultimi piani, di cui ricordo principalmente
la notte, quando passava una macchina per la strada sottostante, la luce dei
fari formava schermate di luce attraverso le persiane, che si allungavano e
camminavano lungo la grande sala e la percorrevano tutta, fino alla curva a
gomito, poi sparivano con il rumore del motore dell’automobile. Il loro figlio,
mio cugino Dino, probabilmente aveva pescato tre pesciolini che dormivano nella
vasca da bagno, ma se accendevi la luce saettavano, per fuggire, non so dove e
non lo sapevano nemmeno loro. Due gobbi e una rovella timidi che tentavano di
abituarsi al buio.
Con suo padre, Gianni, andammo una domenica a vedere la Lucchese a
Carrara, che vinse su sfortunato autogol, ma per loro fu fortunato, solo che
Dino non lo fecero giocare. Eravamo in tre, c’era anche zia Magali, che
purtroppo una partita di calcio, con il suo difetto di vista, non la poteva
vedere, ma ci fece compagnia. Non mi ricordo se fu all’andata o al ritorno che
ci fermammo sull’Aurelia per un caffè, un panino, quello che c’era. Io ero
abituato con la mia famiglia, che quando non mi piaceva qualcosa me la dovevo
mangiare lo stesso, quindi quando arrivò il panino dissi che era troppo alto,
non che mi aspettassi che me lo mandassero a rifare, ma zio Gianni era molto
premuroso sebbene non ridesse mai, e chiese gentilmente se me lo potevano
tagliare un po’ più basso. Quando tornò mi accorsi che era più basso sì, ma
anche che dentro c’era la pancetta, che non mi piaceva. Zio Gianni di nuovo
mandò a farlo con il formaggio. Al terzo giro non dissi niente e me lo mangiai,
il pecorino era secco e duro, il pane anche. Se mi pigliavo quello che era
arrivato per primo era certo più buono, il pane era alto sì, ma era fresco, era
difficile tagliarlo fine. La pancetta a dire il vero non l’avevo mai
assaggiata, quando successe ero già maggiorenne e mi piacque.
RODOLFO
Nel grande recinto, in una casa vecchia e grande, ci vivevano
insieme: Mauro, suo padre Rodolfo, sua madre Nadia, il fratello Umberto, nato
là dentro. Ci rimasero dal 1961 al ‘67, epoca determinante nella formazione del
loro giovane carattere. Rodolfo Bartelloni lavorava là dentro, nell’Ospedale
Psichiatrico.
Era uno che si portava il lavoro a casa, visto che, oltretutto, la
casa era dentro al Manicomio. Senza volerlo, indagava nelle loro piccole esistenze
in formazione, il suo cervello voleva sempre entrare nel loro, per questo
formarono, inevitabilmente, le loro corazze, le loro difese.
Per questo un navigato figlio di psichiatra, dovrebbe assolvere
bene il suo compito di essere umano, nella confusione della vita, in mezzo a
tanta gente. A patto che non gli venga chiesto niente, però, non gli piace di
essere forzato.
Il figlio di psichiatra è uno che, suo malgrado e indirettamente,
da sempre è stato coinvolto nel meccanismo, ne conosce più la pratica e meno la
teoria. Ecco che il figlio di psichiatra trova il suo più confortevole
baricentro nel necessario cammino del tempo.
E le soluzioni ai quesiti lasciati in sospeso dal genitore
illustre, uomo molto più teorico che pratico, insieme alle alternative
necessarie per ovviarne i punti dolenti. In più, evita sistematicamente di
porsi troppe domande, alle quali poi non saprebbe rispondere.
Un figlio di psichiatra, anche se ha dei dubbi su come gestire la
propria vita, su quella degli altri si pronuncia con scioltezza, disinteresse
e, a volte, perfino con precisione e capacità.
“Non riuscivo a capire come facesse immancabilmente ad accorgersi
di quando stavo mentendo e, più avanti, a sbaragliare con facilità i miei primi
prototipi di tattiche, dandomi una perenne sensazione di impotenza, un po’ come
quel dannato occhio di Dio che ti vede e ti giudica sempre e dovunque.
Una volta disegnai dei dinosauri e poi gli feci vedere le mie
opere, gli piacquero, ma trovò subito quello falso, inventato da me, solo perché
era giallo limone e con sei zampe.
A proposito di film, mio padre aveva una teoria, piuttosto
difficile da dimostrare, secondo lui, in un buon film di cowboy, ci doveva
essere per forza un biascino, cioè un
vecchietto che di solito guidava la corriera, col cappello mezzo sgualembrato
calato fin sugli occhi, la barbaccia incolta, masticava tabacco con la bocca
sdentata e sputacchiava qua e là.
Il biascino, di solito
moriva in un assalto degli indiani, in una scena commovente, perché tutti gli
volevano bene, era un vecchietto sempre di buonumore, coraggioso e generoso per
natura.
Gli indiani naturalmente erano sempre cattivi e nei film non si
diceva mai perché, figurarsi che non avevano rispetto nemmeno per i biascini.
Una volta, mio padre disse anche che i fucili Winchester, ai tempi
epici della conquista del West, si ricaricavano una volta alla settimana. Per
scherzo, visto che non smettevano mai di sparare, ma io ci credetti.
Giocando a cowboy con i miei compagni, difesi alla lettera questa
tesi, pur se loro se ne dimostrarono più volte scettici, ma alla fine
l’accettarono.
PRETI
Mio padre diceva anche che nei film di Fellini c’erano spesso dei
preti, gruppi di suore e di frati, file lunghissime di giovani del seminario,
magari su una deserta spiaggia d’inverno. Facevano parte del movimento della
scena, del paesaggio insomma, non erano personaggi principali, piuttosto delle
comparse. Attraversavano la scena, si guardavano intorno. Erano anche delle
persone, in un certo senso, ma direi che erano piuttosto dei simboli.
Mi pare un bell’effetto comico, dentro una cosa altrimenti seria e
che rappresenta bene assai quest’involucro generale della religione,
tipicamente italiano.
Forse perché anche tra gli amici di mio padre c’erano due preti,
ed essere amico di mio padre non era facile. Questo suo rapporto coi preti la
dice lunga su di lui, che normalmente era ipercritico con gli altri e magnanimo
con sé stesso, dentro di lui però sono convinto che era approssimativamente il
contrario. Per papà quei due rappresentavano le uniche persone veramente
corrette, in un mondo d’imbroglioni, di tanta o troppa gente senza dignità.
Qualche volta facemmo anche le vacanze insieme, ma uno alla volta,
e notai che tutti e due, in maniera assai differente, erano persone veramente affabili
e simpatiche, gente di buona e grande compagnia.
Il primo era Don Mario, il parroco di S.Pietro in Campo che aveva
sposato mio padre, nel senso che aveva celebrato la cerimonia in chiesa.
Dovevo aver sei o sette anni quando ce ne andammo per una settimana
in montagna, al Lago Santo e alloggiammo tutti e tre nella stessa camera del
rifugio Marchetti. La sera, la lotta sul letto con Don Mario era una tappa
obbligata, prima di dormire, era lui che mi saltava addosso quando meno me lo
aspettavo.
Con Don Mario celebrammo anche una messa all’aperto, davanti alla
cappella del lago, io ero il chierichetto e tutti e due vestiti sobriamente, ma
senza alcuna uniforme sacra. Era una bellissima mattinata di agosto e la gente
si commosse delle sue parole di gratitudine all’ipotetico creatore, del
suggerimento che dava alla gente di pensare più a quello che aveva e meno a
quello che gli mancava.
Mi commossi anch’io e persino mio padre.
Noi due non abbiamo mai praticato la religione, né veramente
creduto in un eventuale Dio qualsiasi. L’abbiamo sempre vista come una cosa
falsa, prefabbricata, con le debite eccezioni che sono quelle che sto
raccontando. Mia madre no, lei andava alla messa ogni domenica, quando ha
smesso di andarci diceva che nessuno ce la portava, ma quando mio fratello era
disponibile inventava qualche scusa.
Don Mario, durante i giorni feriali, al Lago Santo, andava in giro
addirittura con dei pantaloni corti blu e una maglietta polo nera, aveva due
gambette bianche e pelose che non dovevano avere visto il sole fin da quando
era bambino. Ci parve che contrastassero assai con la faccia scura che c’era
sopra, tanto che a S. Pietro in Campo lo chiamavano il Grillo Moro. L’ometto in
questione fumava anche e parecchio, aveva le due dita che abitualmente giostravano
la sigaretta, completamente ingiallite. Mio nonno diceva che alla messa leggeva
i nomi di chi faceva le offerte in denaro alla parrocchia, specificando le
cifre, per far vergognare chi aveva dato poco e inorgoglire chi aveva donato
assai. Don Mario era una persona acuta, leggermente incazzereccio, ma si sapeva
dominare.
L’altro prete, invece, dirigeva un centro di recupero per giovani
nella campagna pisana, a Montalto. Un bell’uomo alto, coi capelli bianchissimi,
aveva delle maniere impeccabili e assai signorili, ma allo stesso tempo
naturali, poi anche un sorriso vero, di una grande bontà d’animo e quello era
sicuramente un sant’uomo. Persino mio padre, che era uno specialista, non è mai
riuscito a trovargli un unico difetto.
Don Aladino Cheti è un nome piuttosto onomatopeico, suggeriva che
in silenzio facesse dei miracoli, uno era già avere l’approvazione completa di
mio padre. Andammo in vacanza a Londra, piovve sempre. Mi ricordo che papà, per
tutta la settimana, scherzò spesso storpiandogli il nome all’inglese,
chiamandolo Aladaino e lui rideva giovialmente.
Ce n’era un altro buffo, Don Andreatta, il parroco del Quercione,
dove viveva la mia famiglia a quei tempi, che veniva spesso a trovarci, la
sera, all’ora di cena, ma non era per mangiare a sbafo, perché mia madre lo
invitava sempre e lui non ha mai accettato.
Lo chiamavamo il Prete Toppeggiato, perché aveva i capelli neri
macchiati di bianco. Arrivava a razzo con la sua cinquecento bianca, frenava e
sbatteva lo sportello a tutta forza, nell’arco di pochi secondi suonava il
campanello e noi ci guardavamo con aria sconsolata. Aveva sempre un mazzo di
chiavi enorme in mano, che faceva rumoreggiare di continuo, una tortura per
tutti, anche il cane lo guardava storto.
Mi ricordo che poi, finalmente, quando diceva la sua solita frase,
intendendo che era tardi e doveva proprio andarsene, ripetendo più volte il
solito “Via! Scappo”, mio padre
accennava, come per caso, al fatto che conosceva uno che diceva sempre che
andava via e poi invece continuava a rimanere... E lui non so se capiva o no,
ma via non ci andava e si bloccava sulla porta a mezzorate, gli venivano in
mente tante e nuove e inutili cose da dire, insomma uno stress per tutti noi,
che eravamo stanchi e affamati.
LA MAMMA: NADIA BUTI
“Una volta avevo preso sui muri del manicomio dei pezzettini di
muschio per farci il presepio, mia madre però non li volle usare perché erano
piccoli e rotti, ce ne erano di molto più belli e grossi, quelli di bosco.
Allora io mi misi a piangere, dissi che mi ero rovinato le dita per prenderli e
feci un po’ la vittima. Cosicché lei si commosse e li mise in qualche parte
vicino alle case, dove non ci poteva essere l’erba alta, in mezzo alle pietre
di vario tipo, tra i pezzi di ghiaia e i sassetti di fiume.”
“Bello.”
“Non è vero che di mamme ce n’è una sola, per me ce ne sono tante
dentro, invece, divise un po’ per epoca e sono così tante che non me le ricordo
nemmeno tutte bene.
Però ognuna fa capo, attualmente, a quella signora che lotta
continuamente contro la sua memoria in dissolvenza, ma che passati gli ottanta
ancora ha una gran voglia di ridere e scherzare.
Le sue facce e le relative personalità sono state varie e
molteplici, a seconda delle sue varie fasi, brutte o belle, le parti della sua
vita.
Dopo la morte di mio padre ha assorbito una parte del suo
carattere, per esempio, come per compensare la sua mancanza.
È la persona che conosco da più tempo, cioè approssimativamente da
sempre.
D’accordo, non è sempre positiva ed è testarda come una mula, o
come ogni italiana, ulteriormente peggiorata dalla condizione di essere una
Buti in Bartelloni
Però è la persona in assoluto che ride di più alle mie battute,
anche quando sono idiote e ripetute.”
“Ecco.”
IL PROFILARSI DI UN DETERMINATO PROFILO
A dieci anni avevo scritto la mia prima opera, un petulante
manualetto di pesca, in cui scopiazzavo a destra e a manca, mi piaceva pescare
ed avevo preso di qua e di là notizie, aggiunte alla mia personale esperienza,
ritagliato foto e disegnato scene di pesca in acqua dolce.
Successivamente, inoltre, sempre disegnando i gol e le azioni
degne di nota, prendendo dai giornali sportivi, ritagliandone le foto, avevo
fatto un libro sui mondiali di calcio del 1974.
Poi altri libretti sul calcio, coi disegni dei goals, mentre a scuola,
i miei pensierini si stavano già raccogliendo nei primi temi.
SECONDA PARTE
ADOLESCENZA
La
prima cotta è difficile da localizzare, forse Lorella in quinta elementare. Poi
Rosanna la mia vicina di casa. Dopo Lia al Quercione e decine di altre cotte e
crude, insomma al sangue. In tanti casi come Immanuel Kant loro, le dirette
interessate, non lo hanno nemmeno mai sospettato, io facevo di tutto per
nasconderlo, per auto-sabotarmi, ma come facevo a saperlo?
Sulla 126 di mamma ho imparato a guidare e l’ho
sbattuta sullo spesso muretto di pietra di un ponticello dalle parti di Vorno,
distruggendo abbastanza la parte davanti, ma fu solo colpa dell’alcool e della
strada bagnata. Tornavamo da una festa piuttosto bruttina e pochissimo
frequentata io e Marzio.
La Chrisler era un macchinone lungo assai e forse per
questo riuscii magistralmente a incastrarla in diagonale all’entrata del
cancello che non andava più avanti né indietro.
I libri di Woody Allen, erano comici ma anche esistenziali
e per qualche tempo sono stati la mia lettura preferita.
L’adolescenza è l'epoca molto delicata in cui si dovrebbero tirare
le somme di un'infanzia che raramente è completamente felice, ma anche se lo
fosse, può facilmente rovinarsi nel giro di pochi anni, quando cioè il bambino,
che sta diventando adulto, potrebbe rifiutare di fare questo salto di qualità,
che in tanti casi significa quasi retrocedere in uno stato di rassegnazione e
di abulia.
Non sempre l’adolescenza è un trampolino. Nel mio caso non è stato
differente, un’epoca in cui timidezza e altre componenti di rivoluzione interna
mi hanno tarpato completamente o quasi, il calcio mi è servito, forse e anche
la musica, a sfuggire alla mia atrofizzazione generale.
“Le cattive compagnie” hanno fatto il resto, nel senso che io
stesso posso essere stato negativo per tanti, dipende dai punti di vista. Si
può dare la colpa a questa gente però, che invece di portarmi avanti mi portava
indietro e non a caso, poi, c’è stata un’inversione di marcia, un cambiamento
di stile di vita. Dopo aver frequentato coetanei di classe media, per anni, mi
trovai a conoscere e a passare anni insieme a gente di livello finanziario
inferiore e con una storia personale piuttosto diversa dalla mia. Ho iniziato a
vedere le cose da un altro punto di vista, meno stereotipato, meno da figlio di
papà viziato, quale forse non ero, non completamente, ma un poco sì e lo erano
alcuni di quelli che frequentavo.
Ho avuto più o meno da sempre un rifiuto dell’Italia e una voglia
di andarmene altrove che poi si è realizzata molto dopo. Ho capito il suo
valore, che non è poco, ma solo quando sono stato per un po’ di tempo fuori
dalla penisola.
A livello di musica pure sono stato eccessivamente esterofilo,
almeno sul nascere, rimanendo anni lontano dalla cosiddetta patria ho iniziato
ad apprezzare di più anche la sua musica e ce n’è di bella o bellissima.
Ricordo bene che alla mia prima e unica settimana bianca a
Piandelagotti, per la scuola, doveva essere il 1972, arrivammo di sera e sull’autobus
qualcuno metteva e rimetteva due canzoni di Lucio Battisti, La canzone del sole e Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi.
Per anni ho creduto fosse la stessa canzone, magari per l’insistita ripetizione
sull’autobus, ma anche perché una parlava di certe difficoltà di uno
scoglio per arginare il mare, e l’altra spiegava che forse era perché
si trattava di un mare nero.
I registratori a cassetta, che funzionavano anche a pile, sono
stati introdotti dalla Philips nel 1963 e lanciati sul
mercato nel 1965 come dispositivi
per dettatura vocale progettati per uso portatile. In origine non erano stati
pensati per essere sostituti dei magnetofoni.
Credo ne abbiamo avuto uno in casa nei primi anni del ’70. Durante
le vacanze in Spagna, alle isole Baleari, mio padre comprò un LP, dove c’erano
canzoni di vari autori, ma lui apprezzava specialmente Y viva
España e sul nastro ce la mise più volte.
Lentamente ma con crescente vigore poi ne ho registrate a
centinaia, ne facevo di miste anche per gli amici, quando sono passate in
disuso, qua in Brasile, ne avevo oltre 500 e hanno fatto una misera fine.
Bao Radio in Pharneta era un’emittente fasulla, che fingevo
esistesse su queste cassette miste che facevo agli altri e venivano anche
apprezzate, sebbene io ci facessi sopra il DJ e con un microfono annunciassi e
commentassi le canzoni in maniera piuttosto petulante e stereotipata.
Prima c’era stata un’epoca di rivoluzione interna però, in cui
avevo incontrato Martino, amico di Rinaldo, ma essendo assai timido, facevo
spesso scena muta, specialmente quando c’era gente che non conoscevo, o c'erano
più persone.
Ero stato anche ispirato da una cassetta di Burt Bacharach dal
vivo che Martino fece per me e all’inizio, mentre lo presentava, lui al
microfono ringraziava per gli applausi del pubblico.
La mia vicina di casa mi prestò due dischi di De André, avevo
letto da più fonti che era un genio. Mi pare anche dalla Famiglia Cristiana che
sfogliavo dai nonni, i quali erano abbonati anche al Frate Indovino, ma lì si
parlava più che altro dei tempi opportuni per potare, o seminare e cose del
genere.
All’inizio De André non mi piacque, ma sentivo che c’era qualcosa
di nuovo per me e lo registrai. A forza di ascoltarlo mi cominciò a garbare, si
trattava di Vol.8 e Storia di un impiegato.
Rinaldo oltre alle mie solite cose straniere seguiva vari cantanti
e cantautori dei nostri, tra cui Battisti, io ero molto di più per roba che
venisse da Inghilterra e Usa, per partito preso, forse perché mi faceva sognare
di più. Nel frattempo a scuola stavo migliorando in inglese, proprio per via di
quei testi, che comunque mi ispiravano di più quando non li capivo, ma la
curiosità aveva deciso per me.
Una volta ho registrato parte delle canzoni che lui aveva messo su
una cassetta, c’era Samba pa ti
dei Santana, Let me try again di
Sinatra, If I didn’t care di
David Cassidy, My sweet lord di
George Harrison, una bella canzone cattolica e tutto, ma l'ex Beatles ha dovuto
pagare un sacco di soldi per averla copiata.
Il tribunale di New York reputò George Harrison colpevole di aver,
con la celebre My Sweet Lord, “inconsciamente” plagiato la
canzone He's so fine delle Chiffons (1963) dal punto di vista melodico.
Alla settimana bianca capitai in camera con una specie di castoro,
certo Mieli di classe mia, uno così rompiscatole che diventava buffo senza
volerlo.
A sciare io mi ero messo a fare il fondo, perché non mi riusciva
imparare, ma mi vennero a cercare. C’era la maestra di sci che ci voleva
insegnare, era brava e io e lui, il Mieli, imparammo a sciare a spazzaneve più
o meno alla stessa maniera, ma era assai divertente e in poco tempo venivamo
giù senza grossi problemi.
Lo chiamavano Pelo, forse per via dei capelli ritti e ispidi,
quando scendeva gli urlavano:
VAIIII PELO!!! INSISTISCIIIII!!!
Lui si emozionava e usciva fuori pista.
Alla competizione finale gli imposero di non urlargli niente, lui
vinse il Premio Prudenza e fu acclamato dalla folla. Probabilmente ero l’unico che avrebbe
potuto competere con lui, ma non avevo voluto partecipare.
Tornati a valle i nostri equipaggiamenti di ascolto e
registrazione erano scarsissimi, ma c’era una continua volontà di rinnovamento
e miglioramento. All’inizio registravo le canzoni alla radiolina, poi con lo
stesso microfono dal giradischi mono. Poi cominciai a poter usare uno stereo di
mio padre, al quale in un secondo momento feci un coperchio di legno, fil di
ferro e nylon, per via della polvere.
Ascoltavo Hit Parade e Dischi Caldi, che trasmettevano le
classifiche di vendite in Italia, in genere erano canzoni italiane e di musica
leggera come i Cugini di Campagna, Umberto Balsamo, Paolo Frescura, poi roba
più articolata come Baglioni, Venditti, De Gregori, Battisti eccetera.
Ci presi sempre più gusto, in un secondo momento già ascoltavo
Supersonic, del quale sul Radio Corriere venivano anticipate le canzoni che
avrebbero trasmesso. E qui erano quasi tutte straniere, per lo più inglesi e
americane.
Carpet Crawlers dei Genesis all’inizio mi lasciò perplesso, ma ci
sentivo qualcosa di misterioso e nuovo.
Epiche, ma per me poche, le mattinate al bar della Manifattura,
con Rinaldo e il sottofondo di Rock the boat degli Hues Corporation a
giocare a biliardino, biliardo, ping- pong eccetera. Qualche volta siamo andati
anche a Viareggio in treno o in autobus.
Non sempre quando salavo andavo fuori casa, in soffitta ci si
stava bene e avevo fatto un comodo giaciglio dove potevo continuare a dormire o
a leggere, finché mia madre non se ne accorse per via dei rumori.
Inoltre, in quel periodo mi chiedeva perché giocavo ancora con le
figurine.
La prima ragazza, che non fosse solo virtuale, ce l’ho avuta che
guidavo già la macchina, Rinaldo - quel dannato - invece aveva già avuto una
notevole esperienza.
L’adolescenza io l’ho iniziata piuttosto in ritardo, dopo che gli
altri l’avevano già finita e dimenticata. Quella forse comincia quando si parla
di cotte a volte un po’ crude, amoretti virtuali e robe del genere.
Una volta iniziato a lavorare, ho pensato che era finalmente agli
sgoccioli, ma non sapevo ancora spiegarmi se e quando era principiata. Sullo slancio
ho preso la patente di guida e ho fatto il militare.
Ricordo una volta che il gruppo di amici di Buonsuolo rise per una
mia battuta, a casa di Martino, che lui aveva ripetuto ad alta voce per tutti,
poi dichiarò pure che era frase mia, perché io le dicevo troppo piano e non le
sentiva nessuno.
Era uno che lavorava e poteva permettersi una bella macchina e
vestiti eleganti, spesso comprati da Agostino, che fu anche il mio allenatore a
Buonsuolo.
Un ultimo dell'anno a Carambola per soli maschi, fu caratterizzato
da diverse e mischiate libagioni, poi ripetute e insistite, Martino vomitò e
cascò in un fosso sporcando un cappotto di cammello che costava una cifra.
Perse i documenti e andammo insieme a pregare alla madonnina verso la polla del
Banti.
Troppe cose in quel periodo si attorcigliavano accumulate e
instabili dentro di me. Attraverso il calcio e il lavoro di manovale,
all'inizio, poi di barista, poi di cameriere, almeno cominciai a uscire da un
labirinto di siepi alte e scure, di due passi avanti e tre indietro. Iniziai,
senza in realtà mai aver smesso, ad andare per esclusione, in modo più
cosciente, ma non troppo.
Se le amicizie da una parte mi aiutavano, da quell'altra mi
ostacolavano. Notavo che tante cose nella mia vita funzionavano in tale maniera
bilaterale, come minimo, a cominciare dalla famiglia.
Martino un po’ come tutti si atteggiava a duro, ma era un
tenerone, anche se ci ho messo del tempo a capirlo. Con le ragazze aveva poco
successo come me, si innamorava sempre da solo, una cosa che ci accomunava e
comunque eravamo poco originali, come noi ce ne erano tanti. Quelli come
Rinaldo erano eccezioni, in anticipo non solo sui coetanei, si era concentrato
sulle sue donne, che non erano poche.
Per me la realtà era molto più complicata, forse la mia educazione
era poco aperta e lungimirante. Magari era anche la società chiusa e
competitiva. Oppure io pensavo troppo e male.
Giocare a pallone era una ginnastica efficace anche per il
cervello. Il calcio magari è basato sulla prepotenza, ma anche sull’intelligenza
e la forza fisica. Poi lo sport ossigena i pensieri che sennò diventano
asfittici.
Insomma se da bambino-adolescente ero una promessa, poi non
arrivai mai a giurare. Non ero così fanatico quanto avrei voluto e quando
squadre più in alto mi cercavano ci aveva pensato mio padre a rifiutare senza
chiedermi niente.
Certi giorni giocavo come Pelé e altri come Gattuso, dipendeva da
tante cose, anche dall'alcool del giorno prima. La potenza fisica, il fiato, il
talento e l'inventiva c'erano, mancavano però la disciplina, la volontà e
soprattutto l'ambizione.
Intanto i nostri negozi preferiti erano diventati di due tipi,
quelli di dischi e quelli di articoli sportivi, ma nei primi passavamo più
tempo, a Lucca ce ne erano vari.
Rinaldo ed io, per vedere se c’erano
novità e fare le rituali quattro chiacchiere, facevamo una capatina di almeno una
mezz’ora, tutte le volte che andavamo in città, in un piccolo negozio di
dischi, dove lavorava un'amica che abitava di fronte a lui, più grande di noi,
ma molto allegra e simpatica.
L’Italia ai mondiali aveva fatto una magra
figura, nella stessa epoca, più o meno nel 1974, ho conosciuto Aldo, era in
classe mia al liceo, timido e di poche parole anche lui. Abbiamo fatto tre anni
insieme nel frattempo abbiamo condiviso vacanze, feste e ubriacature. Ci
piaceva anche la musica pop e i dischi che acquistavamo ce li imprestavamo a
vicenda, per registrarli in cassetta, facendo bene attenzione a non comprare
gli stessi. Abbiamo condiviso la passione per alcuni LP di autori che gli altri
non apprezzavano, come quelli dei Flash & the Pan australiani, o del
canadese Dan Fogelberg.
In classe nostra, al liceo scientifico, c’era
anche Alberto, di origine siciliana, come noi poco studioso e appassionato dei
Genesis e dei Pink Floyd. Attraverso lui ho conosciuto la mia prima ragazza,
perché in un gruppo di giovinastri suoi conoscenti c'era questa Maria e la sua
sorella, lui cercò di farsela amica ma non andò oltre.
L'epoca in cui andavo spesso a casa sua, mentre lui
armeggiava tra esperimenti elettrici ed elettronici, si ascoltava la cassetta
registrata dal disco Genesis live. Mi
era piaciuto Automobili di Lucio
Dalla prestatomi da Aldo e Jesus Christ
Superstar, sempre cantato ad alta voce dal Bondini a scuola, non mi piacque
più di tanto, salvo quelle due o tre canzoni. L’occhialuto Corsani, sempre in
classe mia, in precedenza mi aveva fatto conoscere Selling England by the Pound dei Genesis, Desire di Bob Dylan, Photos
of Ghosts della Premiata Forneria Marconi, che avevo duplicato, e Rinaldo
mi aveva regalato Living in the Material
World di George Harrison che era un po’ storta e stonava anche un po'.
Tutte cassette originali meno quella di Harrison, una copia pirata in più forse
lasciata ai raggi del sole per un po’. Le ascoltavo sempre la sera mentre
leggevo Dracula o Frankenstein a letto.
Aldo proveniva da Milano, però con
genitori di Piombino, lassù da bambino aveva avuto problemi di salute, per
questo stava dagli zii a Lucca. In prima liceo avevo notato che aveva movimenti
un po' legnosi, ma era un bel ragazzo e anche assai forte fisicamente.
Eravamo entrambi silenziosi e timidi, io
cresciuto in campagna e lui nella più grande città d'Italia. Diciamo che fino a
una certa età ci siamo intesi bene, ma lo stile di vita è diventato quasi
opposto, con l'andare degli anni.
In poco tempo, a quell'età foruncolosa, ci
sono dei repentini cambiamenti, forse dovuti all'adolescenza stessa, alle
cattive e alle buone compagnie, alle pur necessarie e relative briae… alla
trasformazione da bambini, insomma, a volte anche senza volerlo, bisognava
purtroppo diventare adulti, in qualche maniera, o qualcosa del genere.
Cominciavamo le festicciole danzanti e poi
ad andare timidamente anche in discoteca, nel nostro caso prima di tutte fu il
Green Ship, a Nave.
A scuola c’ero e non c’ero, nel senso che
la mia testa era altrove, non so nemmeno dove, ma di certo non lì. In senso
generale mi aveva deluso, o forse più ancora avevo deluso io la scuola, insomma
era un sentimento reciproco, o forse non era neanche un sentimento. Un po’ come
quando ero militare, qualche tempo dopo.
Nel 1978 avevo diciannove anni e
l’adolescenza avanzata forse stava per terminare, l’Italia nel mondiale di
Argentina si comportò bene. Le ultime partite le vidi a Roma, dovendo dare gli
esami per il Rousseau, un istituto di recupero, avevo fatto tre anni in uno e
avevo perfino studiato un po’.
Verso i vent’anni con la mia 126 FIAT
beige che poi era di mia madre, ho in qualche modo sperato di essere pronto e
ho tentato invano, con la mia famosa muta immobilità, di avere qualche
innamorata.
A scuola avevo conosciuto e frequentato
giovinotti un po' più benestanti, la tendenza all'alcool ce l'avevano un po'
tutti in comune, ma i nuovi amici erano più assidui.
I precedenti si limitavano ai fine-settimana
alle feste comandate, che essendo comandate non si potevano certo evitare.
Insomma mancavano di continuità, gli studenti, ma quelli che lavoravano invece
no e io avevo appunto cominciato a lavorare.
Poi ci siamo scambiati qualche innamorata,
Aldo ed io, ma a dir la verità erano loro che si scambiavano noi, che potevamo
essere di tutto meno che svegli.
GLI OCCHI E LO SGUARDO
Gli occhi sono quelli che ci trasmettono quello che veramente
importa di chi ci sta davanti. La profondità dello sguardo è una cosa che è
difficile da simulare. Noi invece in pochi minuti abbiamo un ritratto, che, se
abbiamo fatto attenzione, si manterrà sempre fedele ad una linea essenziale: la
sua personalità e zone limitrofe. Dalla maniera di guardare capiamo se una persona
ci è gradevole. Anche se poi non possiamo illuderci: non la conosceremo mai
completamente. È anche vero che poca gente ci fa attenzione e che sono tutti
impegnati con eventuali pericoli, perlopiù immaginari.
Trovare gente che valga la pena della curiosità di conoscerla
meglio è un passatempo costruttivo e internazionale, che può durare anche tutta
la vita, stimolerà la nostra capacità e ne troveremo sempre di nuova. Mio padre
diceva che c’era gente che faceva finta di pensare, e me lo disse a proposito
del mio professore di disegno.
Al liceo mi ricordo che un giorno, in una noiosissima riunione di
professori e alunni, tanto per passare il tempo, decisi di fingere uno sguardo
intelligente.
Guardavo nel vuoto con una espressione piena e pensosa, lontana ma
non troppo, che voleva trasmettere il mio profondo ascolto a chi stava in quel
momento parlando, alle sue eventuali parole, significati delle frasi annessi.
Beh, credo che volessi che gli altri pensassero che io fossi
veramente così intelligente come volevo sembrare.
Solo io sapevo di non esserlo.
Con grande soddisfazione, appresi poi, la madre di un mio
compagno, aveva commentato esattamente quello che volevo, cioè che avevo uno
sguardo veramente intelligente, nonostante i miei pessimi voti.
L'adolescenza è stata un'epoca piuttosto foruncolosa della mia
carriera di essere umano e soprattutto disumana per via di tanti piccoli, medi
e grandi episodi... anche se non hanno avuto alcun luogo, ma che magari li
avrei desiderati.
La mia immobilità è stata marmorea per qualche anno appena venata
dallo studio… o per meglio dire dal mio andare a scuola. Al liceo scientifico
una professoressa si era accorta di me, in quanto timido ma non disprezzabile
essere umano e mi interpellava abbastanza spesso, soprattutto dopo un mio tema
comicamente introspettivo, che lesse alla classe e dopo anche ai compagni
rimasi più simpatico. Non ero quel pesce lesso che sembravo e se uno avesse
avuto la pazienza di chiedermi qualcosa ero perfino capace di dare risposte
sensate.
Diverse amicizie poi
diventate durature sono nate in questo periodo, ma quelle vengono fuori con il
tempo, forse indipendentemente dall'epoca che si attraversa. Magari la
spontaneità è la cosa che favorisce di più, e quella è una cosa che mi è uscita
fuori in qualità e quantità, nel bene e nel male, non sono mai riuscito a
dosarla, oppure non ci ho nemmeno mai provato.
IL TEATRO ALLO SPECCHIO
Penso che abbiate sentito parlare del
filosofo contemporaneo Corrado Ciompi, barbuto uomo di stazza internazionale e
mio amico da una vita.
Mi riceve sempre con grande piacere e mi
offre castagne crude, vino bòno, nocino, cetrioli e altri sottaceti che è
difficile perfino riconoscere cosa fossero prima di entrare in quei minacciosi
barattoloni di vetro verdastro.
Ogni tanto vado da lui per capire cosa
devo fare, alla sua maniera mi consiglia e immancabilmente mi ritrovo con la
soluzione in mano. Lui dice che c'era anche prima, ma è un fatto consumato che
senza di lui non avrei potuto accorgermene.
I suoi lunghi silenzi, con lievi rumori di
masticazione, più qualche sommesso ruttino, mi invitano a sviscerare i miei
problemi.
"Inutilmente ci ho girato intorno, ma
l’argomento è inevitabile. Lo confesso: sono ragionevolmente preoccupato per la
nostra sorte, parlo della classe di ferro 1959, spero che tu abbia già drizzato
le orecchie."
"Beh..."
"Non c’ è bisogno di dirlo, il mio
timore è che le nostre energie siano già andate - a nostra insaputa e piuttosto
prematuramente - in pensione?"
"Forse."
"Insomma. Chi non è ancora rincoglionito
scagli la prima pantofola! Io vorrei tanto poterlo fare, ma non so se ne ho la
forza."
"Effettivamente."
Due grossi cani Maremmani Abruzzesi ci
girano intorno, sperando forse di ricevere qualche boccone.
Invano.
Ogni tanto escono dalla porta aperta,
vanno fuori ad abbaiare, poi ritornano.
"A poco più di sessant’anni la vita
ci riserva pochi rassicuranti programmi alla televisione e buoni libri ogni
tanto, va bene, ma le emozioni dove si sono cacciate? Abbiamo fatto
scoppiettare già tutte le cartucce? E se sì, perché erano quasi tutte a salve?
Non posso pensare a tutti i sogni che
avrei potuto fare e poi invece me ne sono dimenticato, perché ora pare un po’
troppo in salita la spirale che avvita la mia vita.
Spero di sbagliarmi, ma purtroppo non
credo.
Torniamo indietro mezzo secolo, magari,
anche se dirlo fa già impressione. Vediamo cosa è successo, in che cosa abbiamo
fallito?
È stata colpa nostra, inutile negarlo, ma
il mondo non ci ha aiutato come avrebbe potuto.
Ammettiamo pure che il mondo abbia tutto
il diritto di fregarsene della classe ’59, anzi, secondo me non prende troppo
in considerazione nemmeno le altre.
Con la classe ’63 ha fatto anche di
peggio, basta guardare mio cugino Romolo e il nostro vicino di casa Mimmo, che
ora abita altrove, ma anche noi non abitiamo più lì.
Sono due molluschi che si pensano
importanti, ma non hanno nemmeno la metaforica e regolamentare conchiglia
attorno."
"Non mi pare di conoscerli."
"No, infatti. Due idioti che si
credono intelligenti o viceversa, anche se in maniera differente l’uno
dall’altro, ma si invidiano a vicenda, o a Vicenza, non importa.
Non lo so, vorrei tanto sbagliarmi, ma ho
perso il bandolo della matassa.
“Magari sì.”
“Però come ci avevano presentato
l’infanzia, alla benedetta o maledetta porta di entrata, ci avevano fatto
intendere che doveva essere una roba mista con dentro una specie di scuola, per
quello che veniva dopo s’intende, cioè l’adolescenza e poi la vecchiaia
adiacente.
Se non fosse che intanto il mondo stava
cambiando e quello che c’insegnavano, nel frattempo, non serviva più.”
“Sissì.”
“L’ottimismo sarebbe sempre stata la
nostra carta vincente, ma non lo sapevamo ancora, infatti non ne abbiamo mai
avuto e questi sono i risultati.
Mentre ci si pensava, stavamo già
guastando quello che stava per succedere, alla fine non succedeva niente, o
andava tutto male, i singoli episodi si sommavano e si moltiplicavano nella
peggior sequenza possibile.
Fare la cosa sbagliata è più facile che
fare quella giusta, per via delle leggi delle probabilità.”
“Bravo.”
“Dove erano queste probabilità, a quei
tempi non ce lo ha mai detto nessuno, non so se sarebbe servito a qualcosa, ma
a giudicare da come vivevano, secondo me, non lo sapevano nemmeno loro.
Ogni cosa aveva le sue conseguenze, si
diceva in giro, ma quel niente era fin troppo invadente, eppure non sapeva
aprire le nostre porte.
Dunque si stava meglio quando si stava
peggio? Non lo so, non ce ne rendevamo conto, allora come ora.
Lo stare meglio è una cosa che funziona
solo retroattivamente?
Pare di sì, ma non è ancora stato provato
scientificamente.
A farla breve, la vita che pareva aprirsi
docilmente al nostro passaggio, quando eravamo giovani, ci ha fatto girare alla
tonda per tutti questi anni per dirci solo ora, che siamo vecchietti, che abbiamo
perso il treno."
"In un certo senso..."
"Lo sai meglio di me.
Ci avevano fatto capire, senza mai dircelo
chiaramente, che era una specie di acquario con spesse pareti di vetro che ci
permettevano di vedere, sì, ma che non avremmo potuto mai e poi mai rompere, o
scavalcare, per passare dall’altra parte, per pescare e poi addentare
avidamente quei pesci colorati che erano i nostri desideri. Non avevamo nemmeno
la maschera subacquea, questa è la verità.
Andiamo per ordine, però.
La grande quercia magari era un platano, a
voler essere generosi, un tiglio. Là sotto ci trovavamo solo per motivi
importanti: sanguinose cerimonie di iniziazione, interminabili preparazioni di
attrezzatura per escursioni sulle colline e naturalmente per sbafarci la
Nutella.
Noi, intanto, ci eravamo saliti anche
sopra, alla grande quercia.
Da lassù il mondo era diverso, senza
dubbio, ma non assomigliava per niente a Marte o a Venere, che anche se non
c’eravamo mai stati, avevamo visto in abbondanza film di fantascienza a
proposito.
Sembrava proprio non fare nessuna
differenza, se quello era un altro tipo di albero, l’importante era mantenere
quel nome romantico. Suonava meglio e in più lo avevamo letto su qualche
libro."
“Magari.”
"Nella vita, come nella morte, le
regole tacite sono le più ferree, semplicemente perché non sono scritte e
allora non si possono correggere?"
“Non sempre.”
"E anche questo è vero. Intanto però,
mentre noi si biscareggiava, girando attorno come mosche senza testa, il mondo
stava ingranando le marce basse. Si stava lentamente partendo per una vita che
si stava appena delineando, mostrandosi ancora assai misteriosa, per questo ci
piaceva, oppure non ci pensavamo, insomma non ne eravamo preoccupati.
E sbagliavamo.
L’incoscienza giovanile permetteva a noi,
cuccioli di gente, di spassarcela, ma avevamo troppo da fare per rendercene
conto. Ci divertivamo con poco, come quella volta in cui chiudemmo il nostro
vicino Fabrizio nella buia cantina della vecchia casa di Riccardo e lo tornammo
a prendere una decina di ore dopo, minacciati dai suoi genitori. Solo
recentemente Fabrizio ci ha detto che lui non si era divertito.
Credo che avesse dei gusti più complicati
di noi, almeno da bambino, poi ci siamo persi di vista. Non sempre dopo il rock
viene il roll, tanto è vero che le ciambelle senza il buco prendono un altro
nome."
“Ma non ti è venuta un po’ di fame? A me
sì.”
Senza aspettare una mia risposta, mi passa
un pezzo di pane casalingo e un piattino con dei sottaceti ondulati, come li
facevano una volta, forse rape e carote. Chissà dove li trova. Mentre parlavo
lui non ha mai smesso di sgranocchiarli. A volte penso che non mi ascolti
nemmeno, ma lui dice di sì, magari il suo è un ascolto diagonale, in senso
generale.
UMANI O NO?
“Sono poche le cose
che ancora ci fanno sentire umani e romantici come il rintocco del campanile
della chiesa per le ore (e anche le mezz’ore, ma un po’ meno). Purtroppo le
sentiamo solo di notte, perché di giorno c’è troppo rumore e qui siamo in
campagna. Tutto intorno il movimento che c’è qui e prima non c’era, è diretto
altrove, a dimenticare chi siamo e da dove veniamo.”
“La tecnologia ci
schiavizza ma in verità non è lei, siamo noi che gli diamo troppa importanza.”
“Noi che abbiamo la
tendenza a dimenticare le storie del passato troppo assorbiti dal presente, che
poi invece ci scappa dalle mani ed è già futuro?”
“Ecco.”
“Spesso penso a Milano, e a quando ero militare, a quanti casi
interessanti ci sarebbero da raccontare, a ricordarseli, ad aver voglia di
farlo, a trovare qualcuno a cui potesse interessare leggerli.”
“Invece no?”
“No. Comunque ho fatto il militare a Milano tanti anni fa, non so
neppure quanti, ma se erano gli inizi degli anni ottanta, direi quasi quaranta
anni fa. Per fortuna che c’ho una buona memoria, o magari per sfortuna, comunque
ce l'ho e non mi pare bello non sfruttarla, visto che la maggior parte della
gente non ce l'ha e vorrebbe avercela, io che ce l'ho, dirglielo o solo pensare
di non voler avercela, mi pare uno schiaffo morale, non so a chi, di certo
a qualcuno e poi se ne lamenterebbe, magari in silenzio, ma non credo. I
lamenti silenziosi rimbombano eccessivamente nei cervelli e quando se ne escono
come un torrente in piena, qualche volta camuffati, d’accordo, si può anche
riconoscerli, ma è difficile, quando dicono una cosa e ne sottintendono
un’altra, o viceversa, soprattutto viceversa.”
“Ma che vuoi dire con questo, non si capisce bene.”
“Non lo so, forse non si capisce nemmeno male, ma la fantasia
esagerata talvolta cozza con la memoria buona, faccio un esempio scemo ma
calzante: tanti anni fa stavo cominciando a interessarmi al calcio, quando vidi
alla TV la finale della coppa Uefa tra Liverpool e Borussia Moenchengladbach.
Forse la prima partita che ho guardato per intero, non lo so. Mi piacque assai,
ma la partita di ritorno in Germania non la vidi, perché non la trasmisero in
TV, il Borussia vinse 2 a 0, siccome nella prima aveva perso 3 a 1,
automaticamente si aggiudicò la coppa, o almeno io ho creduto così, grazie alla
regola dei gol fatti in trasferta che valgono doppio. Durante gli anni ho
ripensato più volte alle scene di quella prima partita frenetica e turbolenta,
giocata nel fango di quello stadio inglese. Ultimamente ho preso un almanacco
del calcio e ho creduto di aver visto un pacchiano errore, che nel 1973 il
Liverpool si era aggiudicato la coppa, avendo vinto la prima partita 3 a 0 e
perduto la seconda come ho già detto. Sono andato per curiosità a vedere in
internet e anche lì insistevano nell’errore, in più pagine e siti, che roba
incredibile! Solo io ero testimone della verità? Mi è venuto il dubbio che la
mia memoria elefantina avesse perso una zanna o due e così sono andato su
Youtube a controllare. Lì ho finalmente capito che a sbagliare ero stato io,
perché a Liverpool il Borussia effettivamente ebbe un calcio di rigore a
favore, ma che il portiere parò e di qui evidentemente la mia fantasia aveva
galoppato, come ogni tanto succede. Poi i festeggiamenti dei giocatori del
Liverpool in Germania, con la coppa Uefa in mano mi hanno tolto ogni dubbio.”
“Te pensi troppo, dammi retta, fai come me, lascia pensare gli
elefanti, piuttosto, che c’hanno la testa grossa!”
“Sì, ma anche la mia non scherza. Sempre parlando di calcio,
quando militavo negli juniores del Buonsuolo, a Fornaci di Barga giocammo una
partita difficile, non per la forza degli avversari, ma per la violenza del
vento, doveva essere inverno, era anche freddo. Nel secondo tempo stavo per
segnare di testa a due passi dalla porta ma con una folata improvvisa il
pallone girò e mi evitò. Dopo il nostro faticoso 0 a 0 c’era un provino di
calciatori più grandi di noi, non solo di età. Se noi eravamo juniores quelli
non so cosa fossero, a quale categoria appartenessero. Avevano giocato una
partita sul campo vicino, poi si misero a fare i tiri in porta, mentre noi
facevamo la doccia e ci preparavamo per tornare a Buonsuolo. Forse la mia
memoria è stata ingannata in qualche maniera dalla mia percezione, magari dalla
mia stanchezza, dal buio che stava sopraggiungendo, ma il fatto strano era però
che quelli erano degli armadi con le gambe, mai visto gente più forte e larga,
le botte che tiravano nella porta erano fucilate paurose. Quando il
mastodontico portiere ne parava qualcuna si sentiva il colpo da lontano, se
prendeva la traversa il pallone poi volava a sparire nel cielo, se sbatteva sul
palo poi si nascondeva nell’oscurità a bordo campo. Del vento loro non se ne
accorgevano neanche. Fatico ancora a capire se era vero o no, eppure me lo
ricordo così, anche le piccole teste dei giocatori, sproporzionate al resto
sembravano quelle delle statue degli eroi greci, anche i capelli riccioluti e i
nasi dritti e decisi, degli atleti delle prime olimpiadi viste su un libro che
avevo una volta, trovato nel mobile in salotto a Mologno, dai nonni, lasciato
da chissà chi e poi perso chissà dove.”
LONDRA
Non era tanto tempo
che mi ero interessato al calcio, ma forse proprio per questo ne ero assai
entusiasmato, avevo 13 anni o 14 eravamo nel 72 o nel 73, con mio padre e con
monsignor Chieti amico suo facemmo questo viaggio a Londra. Era sabato, giorno
delle partite, mio padre disse che si poteva andare a vederne una, io ero
entusiasta.
Il suo ragionamento
era che bastava andare nel Tempio del Calcio Inglese ed essendoci una mezza
dozzina di squadre londinesi in prima divisione, forse altrettante in seconda,
una sicuramente ci avrebbe giocato.
Probabilmente non c'è
città al mondo con così tante squadre nella Prima Divisione Nazionale forse
solo Buenos Aires ci si avvicina, si tratta di due città grandi o grandissime.
Con la metropolitana
ci si arrivava in poco tempo, si veniva dalla linea Grigia alla linea Viola, da
Baker Street e dal nostro famoso Sherlock Holmes Hotel. A Finchley Road
bisognava cambiare, per andare sulla linea Viola, solo che non avevamo capito
che esistono due Finchley Road, cioè una è Finchley Road e basta, l’altra è
Finchley Road & Frognal. Quindi abbiamo fatto quattro cinque volte avanti e
indietro, trovandoci sempre e comunque a Finchley Road. Probabilmente oggi
sarebbe indicato in maniera migliore, o magari io sarei più sveglio. Mio padre
è morto nel 1996.
Abbiamo perso
parecchio tempo insomma e ci siamo ritrovati, poi bestemmiando un po',
finalmente a destinazione, a un orario approssimativo, che secondo mio padre
doveva essere quello giusto.
Bene anzi male,
l'immenso posteggio sterrato era deserto, il Tempio del Calcio Britannico
eccolo lì davanti a noi, tra il giallastro e il beige, meno maestoso di quello
che ci aspettavamo, ma soprattutto non c'era nessunissima partita. Io mi misi a
piangere e il guardiano ci disse che a Wembley, che era anche il nome del
quartiere, giocava solo la nazionale.
A SUO MODO BARTELLONI
Mio padre era uno studioso della natura umana, per deformazione
professionale e curiosità innata, gli piaceva mettere alla prova gli altri,
molto meno sé stesso. Lo sapeva fare in maniera che non si offendessero,
provocandoli un po’ ma non troppo, almeno fuori dalla famiglia, lì diventava un
elefante in un negozio di cristalli.
Era capace di innamorarsi letteralmente di una persona nuova,
appena conosciuta, di entusiasmarsi per la simpatia e la genuinità schietta di
un essere umano, poi, una volta studiato meglio, nel suo complessivo, visti gli
inevitabili difetti, se ne schifava con la stessa rapidità.
Per fare i nostri viaggi turistici, il pover’uomo doveva
convincere mia madre per mesi, ma che era importante, noi dopo lo abbiamo
capito. Mi ha insegnato anche ad aprire la mente, indirettamente, viaggiando o
leggendo, insomma pensando a cose poco convenzionali, per uscire dalla routine
e dai pensieri fisiologici e anche troppo comuni a tutti gli altri.
Mio padre ha fatto il possibile perché noi aprissimo i nostri
orizzonti, anche se poi il suo carattere rabbioso ce ne chiudeva altri, o gli
stessi che lui ci aveva appena aperto. Non riusciva a controllarsi, specie se
aveva bevuto un po’, ma sicuramente ci ha insegnato tante cose utili, come
quella di non limitare mai la nostra idea del mondo al proprio luogo di
residenza, o alle cose che tutti fanno, ma di uscire dalla realtà di tutti i
giorni, di viaggiare anche solo con il cervello e il cuore, insomma di cercare
di manovrare la routine, prima che essa manovrasse noi.
Certo, i suoi modi erano bruschi, non si poteva contrariarlo, ma
sapeva anche essere simpatico, se stava bene. Quando bevevano, tutti insieme,
là alla baracca del lago, venivano fuori tante storie da raccontare, proprio
come sto facendo ora, che più scrivo e più me ne vengono in mente.
Rodolfo Bartelloni ha pianto prima di lasciarmi ad Albenga per il
servizio militare. Non ha voluto salutarmi quando sono venuto in Brasile, ma il
giorno dopo mi ha telefonato e mi ha chiesto scusa, poi per lettera mi ha detto
che avevo avuto ragione a partire.
Comunque sia, per me non è morto affatto, ogni tanto viene a
visitarmi nei miei sogni e, almeno là dentro, non litighiamo.
TERZA PARTE
MILITE NOTO
Durante
il servizio militare, nel 1980, ero a Milano, abbastanza vicino allo stadio di
San Siro, qualche volta sono andata a vedere la partita. Il Milan era in Serie
B, però i tifosi più acerrimi andavano a vedere le partite dell'Inter solamente
per fare il tifo contro.
Lo
stadio è abbastanza grande e l'anello superiore era piuttosto vuoto, di solito,
nelle partite dell’Inter, che quell’anno non aveva grandi ambizioni e mi pare
che arrivò quarto o quinto, la Roma che vinse il campionato, qua passeggiò
tranquillamente e si affermò 4 a 2.
Mi
ricordo diverse volte che dopo essersi provocati con cori e lazzi, dalla curva
del Milan che era alla mia destra partivano per fare a botte correndo, anche da
quella dell’Inter, alla mia sinistra.
Erano
magari una quarantina, automaticamente partivano anche dalla curva del nemico,
più o meno una masnada abbastanza numerosa, gridavano e correvano ansiosi di
spaccargli la faccia a quelli, scambievolmente. Erano in tanti, erano quasi
tutti, ma più che si avvicinavano il numero diminuiva, da una parte e
dell’altra, quasi simultaneamente.
Quando
arrivavano a incontrarsi, più o meno a metà campo, non c'era quasi più nessuno
e quei pochi tornavano indietro, proprio quando mancavano appena una decina di
metri.
Non
è stata una volta sola, questo spettacolo tragicomico l’ho visto tante volte,
che sembrava fatto apposta per far divertire il pubblico, quando le partite
erano un po' noiose.
A
volte i cani, quando c'è di mezzo un cancello,
abbaiano l'uno contro l'altro in maniera feroce, ma quando il cancello
viene aperto, smettono e diventano improvvisamente silenziosi e pacifici. Un
comportamento abbastanza simile a quello degli esseri umani.
Il
CAR significava Centro Addestramento Reclute ed era una specie di preparazione
per i nuovi militari che poi, dopo il giuramento, erano distribuiti nelle varie
caserme di tutta Italia.
Senza
raccomandazione venivi mandato lontano da casa, considerato che la mia
destinazione era Milano, ho pensato che poteva andare anche peggio, in mezzo
c’erano solo 277 chilometri.
Ad
Albenga sono stati i miei a portarmici, mio padre ha anche pianto e io l’ho
abbracciato, una delle poche volte, se non l’unica. Abbiamo fatto un giro
insieme in centro, ma non mi sentivo bene, avevo già i capelli cortissimi e mi
pareva di essere prigioniero in anticipo.
Non
so se si può chiamare città, quel paesone mi è sembrato subito squallido e
pieno di militari, eppure la Liguria ha tanti bei posti, piena di gente che lì
ci abita, insomma gente civile, nei due sensi.
Non
che i turisti e i giovani militari non lo siano, forse è la vita e la routine
che rendono i villeggianti simili a orde barbariche e la mimetica addosso che
ti cambia un po’, anche psicologicamente ti senti un altro, non so come, forse
come se tu stessi già in guerra.
La
caserma Aldo Turinetto era enorme e c’erano migliaia di reclute. Ho saputo che
è stata demolita, non so quando, allora eravamo ancora nel 1980. Dalle foto ho
notato che anche Albenga è aumentata, pare assai più grande, è una città.
La
sera era tutto chiuso, c’era solo una pizzeria-ristorante e là dentro oltre a
chi ci lavorava c’erano solo militari. In uno dei pochi posti quasi
pianeggianti della Liguria, un ristorante che sembrava la fotocopia di
simil-legno di tutti i ristoranti brutti, ma con la svogliata pretesa di essere
accoglienti.
Il
giuramento non l’ho fatto, avevo fregato dei permessini all’infermeria dove il
medico militare, dalla firma scarabocchiata, mi dispensava per bolle ai piedi
le esercitazioni e le marce. Cosa per altro vera, ma comune a tutti gli altri
compagni di sventura che dovevano usare anfibi nuovi.
Di
conseguenza ho fatto Corvè Mensa Ufficiali, a lavare pentole e piatti insieme a
un avvocato napoletano, tale Sorrentino, anche lui piuttosto critico sui
giuramenti e sull’utilità in generale di un esercito, in special modo in
Italia.
Ho
conosciuto subito tante reclute più o meno della mia età o spesso più giovani,
considerato che avevo fatto diversi rinvii, visto che stavo studiando, insomma
facevo finta.
Ce
n’era uno calabrese che somigliava assai al sergente Garcia di Zorro, un po’
meno grasso, ma con gli stessi baffetti e i capelli neri lisci e untuosi, che
tutti prendevano in giro per la sua dabbenaggine. Non ricordo come si chiamava.
Un suo pietoso paesano, che dormiva nella nostra stessa campata, cercò
inutilmente di spiegargli che a un matrimonio non si doveva augurare cento di questi giorni, non che portasse
sfortuna, ma non era appropriato, insomma.
Tale
altro calabrese, mi pare si chiamasse De Bernardis, era uno che aveva studiato
ed era assai allegro e scherzoso, prendeva in giro tutti, all’inizio anche me,
che invece ero timido e me ne stavo da parte. Improvvisamente poi ha cambiato
atteggiamento nei miei confronti, siamo diventati amici e mi ha presentato
addirittura la sua famiglia, una volta che ci siamo incontrati in libera
uscita, e io la mia a lui.
Ogni
campata era doppia e nel mezzo il corridoio, dalla nostra parte gli armadietti
facevano parete divisoria e c’erano otto letti di cui uno occupato da un
caporale istruttore, nel nostro caso un sardo duro come le sue montagne, di
nome Gavino, non ricordo il cognome. C’era anche uno di Lucca che conoscevo di
vista, piuttosto snob e un abruzzese grande e grosso, Sebastianelli, assai
borioso e sempre di malumore.
Ricordo
anche un terzo calabrese, Morelli, magro e con la barba, che si divertiva ad
ammazzare le vespe in volo con una paletta. Poi l’ho ritrovato a Milano, ma non
era nella mia stessa batteria.
Il servizio militare, dall’agosto 1980 al 1981, è
stato una lezione di vita, servito a capire meglio chi ero e soprattutto a
conoscere meglio gli italiani. Sì, perché c’era gente di tutto lo stivale e
anche se di alcune regioni non ho incontrato nessuno, direi che la maggior
parte ce l’ho avuta a disposizione, a livello antropologico amatoriale, per
comprendere già quanti stereotipi erano sbagliati o parziali e quanti
corrispondevano a verità. Ben pochi.
Ho avuto amici di tutte le parti d’Italia e forse
soprattutto con quelli del sud mi sono trovato bene, sia da Napoli, dalla
Sicilia che dalla Puglia, meno con i Calabresi e non ho conosciuto nessun
Lucano.
Il più grande compagno è stato però Lombardo, Emilio
Morettini di Lodi del quarto scaglione, un ragazzone veramente di cuore, un
vero amico. Ho visitato e conosciuto la sua famiglia, bravissima gente.
Per
mangiare si mangiava piuttosto male e poi dopo aver fatto la Corvè Cucina e
visto come si pulivano i pentoloni, con quei mocio schifosi che si usavano per pulire in terra, non è che
l’appetito fosse aumentato. In compenso si rubava facilmente il vino, le porte
della mensa di notte erano aperte. Il rosso era solo cattivo, ma il bianco era
pessimo, volendo però ci si ubriacava tutte le sere. Penso che l’iniezione che
ti facevano alla visita di entrata al CAR fosse potentissima, tanto che alcuni
subito dopo svenivano ed era programmata per dare una certa resistenza alle
potenziali future infezioni, forse anche per poter resistere a quei vinacci.
Tutti
i giorni, dopo le normali attività si giocava anche a pallone e in una partita,
in un polverosissimo campetto, con una ventina di gladiatori per parte, senza
volerlo, detti una solenne testata al gigante Golia delle reclute. In realtà
nell’azione in questione io ero saltato e lui era rimasto fermo. Era un romano
scuro e mostruoso che s’incazzò abbestia, io naturalmente mi scusai dicendo che
volevo prendere il pallone, ma quello rimase con un occhio nero e dopo tutti mi
guardavano con reverenza e timore. Questa fama si sparse anche a Milano perché
un suo amico giunto in loco era piuttosto pettegolo e raccontava la storia con
un sensazionalismo esagerato, come se lo avessi fatto di proposito per sfidare
quel fenomenale corpaccione, cosa che non mi era passata assolutamente per la
testa, né per la mia né per la sua da gigante.
C’era
un altro lucchese di Bozzano che giocava bene a pallone, anni e anni dopo lo
portai a giocare nel San Macario, visto che era venuto lì dalle nostre parti a
lavorare come benzinaio. Se ai tempi del CAR giocava bene e faceva un sacco di
gol, dopo invece era ingrassato ed era diventato un lumacone e l’allenatore,
Josy Matteoli, mi prese in giro per mesi, ironicamente ringraziandomi per
avergli portato un siffatto campione.
La
caserma Perrucchetti di Milano era di un corpo raro in Italia, cioè quello
degli Artiglieri a Cavallo. A noi soldati di leva, arrivati lì per caso, scelti
chissà come, non ce ne fregava niente, ma per loro: i generali, i colonnelli e
magari qualcun’altro, forse era motivo di orgoglio e vanto.
Dopo
un mese di CAR ad Albenga, sotto il sole di agosto, giungemmo a Milano, accolti
da decine di nonni con le albe sul basco esibite con arroganza.
Il
trasferimento a Milano fu in treno, alla stazione centrale i nonni con i camion
c’erano venuti a prendere, la tradizione diceva che dovevano essere loro ad
accoglierci, visto che gli portavamo il congedo. Poi guidavano in maniera da
sballottarci per bene con l’intento di farci vomitare. Il nonnismo è un
fenomeno tollerato e perfino appoggiato dagli ufficiali, perché porta un
ulteriore controllo sugli altri soldati.
Lo
scherzo che facevano alle reclute la sera stessa dell’arrivo era un falso e
burbero sergente, interpretato da un altro soldato semplice di solito abbastanza
anziano, che faceva l’imitazione di un sergente buffo, ma duro, tipo il nostro
Carbone, che andava dai nuovi per fargli fare esercizi di ginnastica in mutande
e farli abituare subito all’assurdità del clima che c’era tra i soldati e i
superiori.
Maestri
era un milanese che lo imitava alla perfezione e diceva delle frasi incredibili
di sua invenzione, esagerate ma simili alle castronerie che l’altro diceva
seriamente. Mentre faceva quel ridicolo addestramento alle undici di sera, con
le reclute con i mutandoni di lana, un artigliere tra le decine di spettatori
scorreggiò e il falso Carbone lo mise in punizione gridando con quanto fiato
aveva in corpo per una molesta e non
regolamentare sinusite al culo. Il vero Carbone non era presente, ma gli
raccontavano sempre delle imitazioni dell’artigliere Maestri, tanto che quando
quello si congedò, gli uscì addirittura una lacrimuccia e disse che anche i
migliori, prima o poi, purtroppo, se ne dovevano tornare a casa. Il Carbone
autentico non credo che abbia mai punito nessuno, non rideva mai, il suo
atteggiamento da duro era solo una maschera.
Se
ad Albenga si doveva salutare ogni superiore di passaggio, invece al corpo,
cioè a Milano, gli ufficiali capivano subito che eri appena arrivato se li
salutavi portandoti la mano destra al berretto, li mettevi quasi in imbarazzo.
Là si salutavano solo dal capitano in su, ma si vedeva che se li ignoravi gli
facevi un piacere, così non avevano bisogno di rispondere al saluto e del resto
giustamente se ne fregavano.
I
nonni mostravano l’alba cucita sul rovescio del basco nero degli artiglieri e
alcuni erano tremendi, secondo il gergo erano scoppiati, specialmente quelli
del sud che erano mesi che non andavano a casa in licenza.
Contavano
da approssimativamente 365 giorni quanti ne mancavano all’alba in cui se ne
sarebbero tornati a casa, negli armadietti vedevi dei grafici elementari e
piuttosto chiari, con le caselle e le croci. Oppure solo con bastoncini che
venivano spuntati a blocchi di settimane.
La
caserma si chiamava Santa Barbara, ma siccome è sinonimo di polveriera, il nome
più usato volentieri era Perrucchetti, in via delle Forze Armate, vicino allo
stadio di S.Siro e al quartiere malfamato di Baggio, dove c’era anche
l’ospedale militare. Era ancora più grande di quella di Albenga, pare che ci
fossero sempre più di duemila soldati.
Aveva
una grande tradizione di coraggio e valore in guerra, una delle poche esistenti
in Italia di artiglieria a cavallo. Proprio l’anno seguente ci sarebbe stata
una grande competizione di equitazione per cavalieri militari con il percorso a
ostacoli per festeggiare i 150 anni dalla fondazione del corpo. Da qualche
parte a casa ho un libro intitolato con il loro grido di battaglia: caricat voloire! Il corpo degli Artiglieri a Cavallo è
stato soppresso, non so da quando, ma era già un anacronismo a quei tempi.
Anche quel libro lo devo aver buttato via.
Mi
sono fatto subito un amico di Pistoia, Alessandro Capecchi che disgraziatamente
si stava congedando, ma perlomeno mi ha protetto dagli altri nonni. Presi
singolarmente erano bravi ragazzi, ma qualcuno l’ho dovuto minacciare, non
davanti a tutti, sennò era la guerra, ma un faccia a faccia alle latrine a
volte evitava guai peggiori.
Il
campo lo avevamo fatto proprio all’inizio, doveva essere ancora agosto perché
Capecchi era con noi e la domenica qualcuno andava a prendere il sole e a fare
il bagno al fiume Sesia. Un bel paesone quel Borgosesia, che aveva delle parti
antiche non indifferenti. Noi però eravamo un po’ fuori, non lontano dal fiume.
Si dormiva in una antica fabbrica dei tessuti di lana. Mi presero poi alla
mensa ufficiali e lì era meglio, in una vecchia palazzina di legno, che
davanti, sulla strada poco frequentata, aveva un giardino d’inverno grande e
romantico.
Baiocchi
al campo era il gestore dello spaccio, era un piccoletto simpatico del mio
scaglione, che vendeva souvenirs in piazza del Vaticano, sembrava un irlandese,
c’aveva una lingua che tagliava e cuciva. In romanesco s’incazzava sempre con
gli ebrei, per via della concorrenza sul lavoro. Una volta siamo andati al lago
di Como insieme anche ad altri, fuori dall’ambiente della caserma e delle
divise militari diventava assai più spocchioso e arrogante, sembrava comunque
uno ricco e spendeva e spandeva.
In
seguito Borgosesia si è allargato assai, ora è considerato una città giacché ha
oltre 12 mila abitanti. La fabbrica è sopravvissuta, l’ho vista su delle foto,
la devono aver usata ancora, la palazzina invece no. Dietro era tutto campagna,
ora è pieno di palazzoni.
Alle
“Lane Borgosesia” sono state realizzate le camicie rosse della Spedizione dei
Mille di Garibaldi, uno dei più importanti centri manufatturieri della regione,
settore ancora oggi molto importante per l’economia della città.
Il
servizio militare non è vero che è inutile, si impara a imboscarsi e si conosce
meglio il genere umano, se mai ti dovesse preparare a combattere penso che
riesce proprio nell’opposto, un si salvi
chi può a oltranza, un eterno quando
i gatti dormono i topi ballano.
All’inizio
avevo un incarico di autista e ho iniziato il corso che era una solenne
pagliacciata, al quale il sergente maggiore Carbone si presentava raramente e
non volendo ci faceva morire dal ridere. Portava il basco come se fosse una
pizza in bilico sulla testa, qualcuno diceva che lo stirava di nascosto, doveva
essere un calabrese anche lui. Sapeva a malapena mettere due parole insieme in
una frase maccheronica, era un burbero benefico, dopo due secondi capivi che
invece aveva un cuore grande e ti faceva divertire con tutte le cazzate che
diceva. Mi ha sempre chiamato Monzani, gliel’ho spiegato più volte, che oltre a
essere uno dei più brutti soldati in giro, secondo me non mi assomigliava per
niente. Quando mi ci chiamava tutti mi prendevano in giro e dicevano che
Monzani ed io eravamo veramente due gocce d’acqua, era per quello che Carbone
si sbagliava.
A
guidare il camion ero negato, perché bisognava fare la doppietta e sgranavo
sempre. Non mi ricordo quando e perché mi hanno chiamato a fare il magazziniere
e quella è stata la mia fortuna. Insieme a me c’erano due artiglieri quasi
congendanti: Dal Maggioni che era un grassoccio ma tosto simpaticone
involontario, per niente stupido di Bergamo. Anche lui non rideva mai, ma
faceva schiantare gli altri con le sue battute, non tutte di proposito, dalle
quali si intuivano le sue origini modeste di lavoratore di campagna, ma si
trattava di un contadinotto con il cervello fino. Poi c’era Ferrero,
antipaticissimo e vigliacco, magrolino di Torino. Il primo si congedò quasi
subito, per questo avevano preso me, per imparare il mestiere di magazziniere.
Il sergente Cicala, nostro diretto superiore, Ferrero non lo sopportava e
quando mi mettevano di guardia tante volte sostituiva il mio nome con il suo,
che soffriva anche psicologicamente perché era un anziano, un quasi congedante,
piangeva e diceva che si sarebbe vendicato su di me, ma aveva paura della sua
stessa ombra e non aveva amici. Anche lui si se ne andò presto e diventai il
più anziano del magazzino, cosa che dava diversi vantaggi teorici e pratici.
L’adunata per esempio non la facevo già dal primo giorno, ma poi imboscarsi nel
magazzino degli zaini era una bellezza, perché si poteva dormire fino a tardi e
lì ho anche cominciato a scrivere qualcosa che non fossero poesie.
Il
sergente Cicala era un personaggio da film tragicomici sul meridione
dell’Italia. Se Carbone portava il basco come un piatto pari stile pizza, lui
lo teneva invece inclinato in maniera esagerata che da quel lato gli tappava un
occhio. Fisicamente ricordava un arabo, ma con la faccia più su giallo che sul
marroncino, parlava un italiano mezzo dialettale e credo che fosse della
regione Campania, ma non sono sicuro perché era parecchio tempo che viveva a
Milano e aveva mischiato un po’ di dialetti sudisti e di parole milanesi. Il
suo più grande talento era la flessibilità, se qualcuno gli diceva qualcosa che
doveva fare, magari un superiore, la sua frase seguente iniziava sempre con vabbè, che lui diceva ‘abbè, e poi partiva con le alternative,
che di solito venivano drasticamente bocciate, ma non per questo lui ci
rinunciava. Con noi soldati semplici non faceva valere il suo grado, solo
quando era estremamente necessario, sennò si metteva al nostro livello e anzi
lo prendevamo spesso in giro, ma lui non se la pigliava, scherzava un po’ su
tutto e perfino su sé stesso che normalmente è già un segno di intelligenza non
indifferente, specialmente in quell’ambiente dove i gradi sull’uniforme sono
così importanti.
Averlo
incontrato è stato determinante per me, perché mi aiutava e anch’io aiutavo
lui, come per esempio per fare i buoni falsi per le riparazioni delle scarpe e
delle mimetiche o altri indumenti di ordinanza, che lui non sapeva fare e io
glieli facevo una volta al mese. I sarti e i calzolai, che non erano militari,
mi premiavano con riparazioni e modifiche dei miei vestiti civili. Anche perché
ero ingrassato più o meno sedici chili e i miei calzoni non mi entravano più.
Chissà
se ha fatto carriera Cicala, che sarebbe potuto diventare un maresciallone di
quelli che a volte si vedevano passare, tutti bassi e grassi, o forse solo
sembravano bassi, ma grassi con certezza erano tutti.
Il
suo superiore era il sergente maggiore Montaquila, un abruzzese piccolo e magro
che nel quasi anno in cui sono rimasto a Milano è diventato maresciallo, a
ingrassare ci avrà pensato dopo con calma. Credo ci fossero tre livelli di
marescialli ed erano tutti addetti a incarichi commerciali, se non mi sbaglio
rimangono sempre sottufficiali, mentre gli ufficiali partono da sottotenente
fino a generale di armata. Sono due carriere parallele, ma penso che per fare
quella degli ufficiali devi essere laureato.
Di
conseguenza anch’io ero purtroppo sotto Montaquila, il quale mi aveva preso di
punta e la stima era reciproca, o forse dovrei dire la sua mancanza. Non
ricordo che cosa era successo in precedenza, ma mi ostacolava come poteva, alla
fine consigliato da un milanese che lavorava nel suo ufficio, Santambrogio,
ruffiano e intelligente, gli chiesi scusa, anche se forse avrebbe dovuto essere
il contrario e lui se ne dichiarò soddisfatto, interruppe le ostilità e da quel
momento io avevo capito come funzionava, non ci furono più problemi.
A
proposito di assurdità militaresche a un certo punto fui trasferito nella
batteria a cavallo, insieme a Sirigu e Gualtieri che erano contadini e
volontari, i cavalli a loro gli garbavano. Secondo i superiori, che erano
sempre troppi e rompiscatole, la batteria in questione, che si occupava degli
equini, delle relative stalle e doveva prepararsi per sopracitato giubileo,
aveva bisogno di rinforzi. Alla fine a me non piaceva per niente e in più
starnutivo continuamente per via della paglia. Ci sono rimasto un giorno o due,
poi sono andato a parlare con il maggior Ricasoli, che mi ha dato più volte del
cretino, che se avevo l’allergia da fieno lo avrei dovuto dire subito, invece
di fargli perdere il loro prezioso tempo, ma in cambio sono potuto tornare alla
mia Batteria Comando e Servizi, dove avevo ormai tanti amici.
La
sera uscivo con Morettini, Salvatori e altri milanesi, perlopiù. Morettini era
di Lodi ed è stato l’amico più duraturo, tanto che dopo qualche anno dal
congedo sono andato anche al suo matrimonio, è l’unico che ho incontrato dopo
la naia. Diverse volte ero stato a casa sua a mangiare o anche a dormire e ho conosciuto
i suoi genitori, bravissima gente. La sua ragazza: Maristella, con la quale poi
si è sposato, l’ha conosciuta durante quel periodo.
Salvatori
era di Tirano, in provincia di Sondrio ed era un rompiscatole di una non
trascurabile simpatia. Al cinema portava sempre dei sacchettoni rumorosi di
popcorn o altro, con l’intento di disturbare la gente. Ci riusciva
immancabilmente e c’era sempre qualcuno che si arrabbiava. Anche lui sarei
contento di vedere dove è andato a finire, che tipo di vita ha fatto, se si è
sposato e ha educato i figli a essere dei rompicoglioni come lui o se invece è
diventato un tipo serio, ma non credo proprio.
La
vita macina la gente e la fa cambiare a volte, mi è capitato di trovare Angelo
Schettino su Facebook e di scrivergli. Era uno di Castellamare di Stabia,
arzillo e cagacazzo anche lui, gli ultimi miei mesi li abbiamo passati insieme,
uscendo anche la sera, pure con Longobucco, di Bari.
D’inverno
per le camerate c’era una puzza non indifferente, tanto che hanno reso obbligatorio
un bagno alla settimana per tutti. Schettino si sentiva responsabile dei
meridionali che non si lavavano e li portava personalmente al bagno. Una delle
sue frasi ricorrenti e gridate, indicando il meridione dell’artigliere in
questione, era:
“Làvate
i piédi!”
Bene
anzi male, Schettino non mi ha riconosciuto, non si è ricordato di me, si è
quasi arrabbiato che gli abbia scritto. Non ho capito a dir la verità, non mi
ha dato spiegazioni.
Un
altro che è cambiato durante il quasi anno insieme è stato Bodei, bresciano di
Nuvolera, barista nel senso che faceva le bare di legno, insomma scolpiva anche
altre cose, perlopiù sacre. Eravamo dello stesso scaglione, c’eravamo
conosciuti ad Albenga, dopo tutto quello che avevamo vissuto insieme credevo di
conoscerlo, ma quando è diventato nonno sembrava impazzito. Probabilmente
quando era recluta aveva sofferto, più di me, il nonnismo di quei tempi, ma non
avrei creduto che sarebbe diventato così l’ultimo mese della sua naia.
Nel
nostro lunghissimo magazzino si teneva tutto quello che di solido serviva al
soldato, eccetto le armi. C’erano pile di coperte stese in terra con dentro
ogni cinque uno strato di naftalina, montagne di scarpe più o meno rotte e
magliette, camice, mimetiche, divise da libera uscita. Prima di congedarsi ogni
soldato doveva restituire tutto quello che gli avevano dato di vestiario e le
calzature, quello che mancava si doveva pagare. Le reclute di solito venivano
depredate dai nonni, poi durante quegli undici mesi restanti, troppe erano le
cose rubate e rotte o perdute. Da magazziniere avevo facilmente capito il
funzionamento delle cose, quindi quelli che venivano da me per elemosinare
articoli da consegnare prima di congedarsi, li ricevevano di nascosto, nessuno
se ne accorgeva. Massimo dell’affluenza con il mio cosiddetto ottavo scaglione,
ho fatto risparmiare soldi a tanti.
I
soldati ricevevano uno stipendio ridicolo di circa mille lire al giorno, che a
quel tempo non bastava nemmeno per le sigarette, per fortuna io non fumavo
ancora.
Il
magazzino degli zaini, il mio nascondiglio preferito, era una storia a parte.
Lì si tenevano gli zaini con le cose di chi andava in convalescenza o di chi
partiva magari per una licenza e non tornava più. C’era una montagna di zaini
di gente che si era congedata a casa, che stavano lì a prendere polvere.
Insomma era raro che arrivasse qualcuno a rompere e in mezzo a questi due
grandi scaffali avevo messo la mia branda e lì dormivo, facendo vita privata e
ho iniziato anche a scrivere in maniera più sistematica. Insomma ormai ero il
boss e a lavorare ci andavano gli altri due magazzinieri.
Per
imboscarmi meglio e di più c’è stata poi la lunga preparazione fisica per la
marcia internazionale non competitiva, una “maratona” solo a passo di marcia
con invito alla partecipazione di gruppo. Era la Pre Nimega, manifestazione che
diede ampia risonanza nazionale al CAI di Malnate. Eravamo una ventina di
volontari con precedente allenamento che io avevo per via del calcio. Vivemmo
due mesi in ritiro, dentro una stanzona solo per noi, sempre vestiti con la
tuta da ginnastica e ci andavamo ad allenare proprio a Malnate, su e giù per le
colline.
C’era
anche un campo sportivo grande ma senza erba, alla fine del pomeriggio una
bella partita di calcio e la squadra che perdeva pagava la pizza all’altra.
Avendo giocato in una squadra dilettanti per diversi anni io ero l’unico con
una certa capacità e facevo gol a grappoli. Nella competizione poi riuscimmo ad
arrivare con il gruppo quasi intero, se si ritirava tanta gente si veniva squalificati.
Insomma fu un successo e ci premiarono anche. Ma quello che conta è che
riuscimmo a scamparcela dal grande concorso di equitazione e dal giubileo, che
per noi sarebbe stato solo lavoro. E poi da tutte le altre attività di lavoro
incluse le guardie che erano la cosa più noiosa e assurda. Ce ne erano di
diversi tipi tra cui quella della caserma, si faceva nei pressi dell’ospedale e
lì c’erano gli autobus parcheggiati, io mi mettevo dentro uno di questi e
dormivo.
In
polveriera invece si stava una settimana e si facevano guardie tutti i giorni.
Era abbastanza divertente perché non c’era molto da fare e non c’era controllo,
oltre alle guardie che si facevano lungo un percorso ed era un luogo tranquillo
e in mezzo al verde. La Canavesa era il deposito carburante e lì si stava 24
ore, alternandosi alla guardia.
A proposito di musica ci si doveva sorbire della roba
orribile, anche per la durata e la qualità del suono, in camerata ho ascoltato
mio malgrado tante cose napoletane e lamentose, che poi assomigliavano un po’
alla musica araba. Ricordo un pugliese che aveva fatto con una scatola di
cartone un altoparlante rudimentale che vibrava e anche se fosse stata musica
buona in quella maniera sarebbe certo peggiorata.
La cassetta Dalla
la comprai prima di partire, per la prima volta avevo un walkman e ascoltavo
anche Nero a metà di Pino Daniele. A
Milano al mercatino presi Baglioni, Neil Young e altre cassette pirata, prima
che uscissero nei negozi.
Una
volta siamo stati sorteggiati per partecipare a un pranzo con i vecchi veterani
del corpo. Vestiti com’era tradizione con il Kepì, un cappello rigido che
sembrava da capostazione o magari da generale della Mongolia. Con il ridicolo
pennacchio lunghissimo che se non l’avessimo tolto subito sul camion, si doveva
tenere agganciato alla parte di dietro del cappello e scendeva giù sulle spalle
per cinquanta centimetri. Come se non bastasse l’impermeabile imbottito che
insieme ti davano un’andatura rigida come uno struzzo con la sciatica, anche
per sedersi era un problema. Sotto avevamo la divisa da libera uscita
invernale, che per fortuna ai nostri tempi effettivamente per la libera uscita
non si doveva più usare.
Le
misure di ogni capo militare sono state studiate per non combinare mai con il
corpo di un essere umano, o sono troppo larghe e fino a lì pazienza, ma spesso
sono strette e ci si muove male. In alcuni casi pur essendo larghe in alcuni
punti, sono strette in altri e ci si sente piuttosto ingessati.
Quel
giorno era freddo e pioveva, mi pare che fosse febbraio. Da mangiare c’erano
delle robe classiche, brodino incluso, con o senza tortellini dentro, arrosto
di manzo, vitella e maiale, patate arrosto o lesse, perché quelli erano dei
vecchi veramente anziani e per arrivare lì in quell’associazione antica, tutta
foderata di legno scolpito, doveva essere già stato difficile. Per il resto
abbiamo parlato un po’ con i reduci, ma non tutti ce la facevano e dopo ci
hanno riportato in caserma che era quasi buio. Tutto sommato un’esperienza
interessante.
Il
guaio era che la vita militare mi risultava un po’ noiosa, ripetitiva, era
magari per l’ansia che mangiavo come un maiale, forse facevo anche poca
attività fisica.
La
mattina in mensa colazione robusta a base di tutto, poi verso le dieci allo
spaccio a sbafarsi qualche merendina, ma quelle si pagavano. Il pranzo a
mezzogiorno, poi merenda, cena e dopo uscita libera a mangiare dei buoni panini
con i wurstel vicino al duomo, in una piazzetta dietro San Babila.
Dimenticavo
che quando avevamo Figliolini da Napoli alle cucine spesso lo andavamo a
trovare, nel pomeriggio specialmente, io e Longobucco da Bari. Tanto per
scambiare quattro chiacchiere, ma colla bocca piena era difficile parlare,
l’unica cosa che dicevamo era:
“Figliolì
famme nu panino.”
“Figliolì,
famme nat’panino…”
Se
non c’era in giro il maresciallo, lui non diceva mai di no. Manco a dirlo un
chiattone anche quello, che sembrava che i vestiti gli dovessero scoppiare
addosso. Di solito nei panini ci metteva la mortadella, ma tant’assai. Lì alla mensa della Perucchetti di Milano si mangiava
abbastanza bene, anche se una volta tirando su con il mestolo una zuppa odorosa
ho visto venire fuori una pallina da tennis.
Figliolini
era il classico scugnizzo, sempre allegro e sorridente, rosso di capelli, con
la frangetta impeccabile e con le lentiggini, ma con una voce come Barry White,
una volta l’ho visto fare a botte e metteva paura, ma sempre con il sorriso
sulle labbra, si vedeva che si divertiva.
Il
romagnolo Galli era un gigante ciccione, sempre con la sigaretta in bocca,
nella vita civile faceva il fornaio. La sua mimetica a forza di sudare aveva
cambiato colore, da verde scuro era diventata nera, della sua taglia non era
nemmeno facile trovarne un’altra. Una volta dovevano far abbassare la punta di
un cannone e non sapevano come farlo, ci piazzarono sopra Galli che era sui
centoventi chili, quello scricchiolò un po’ e si sbloccò.
La
sera qualche volta, per abbuffarci ancora siamo stati all’ATM, che sarebbe
stato un locale grande e popolare gestito dalla società dei mezzi pubblici
milanesi. C’erano le panchine fuori, si spendeva poco e ci si mangiava bene.
Era abbastanza vicino alla nostra zona, che all’epoca era piena di caserme e
per strada si vedevano più che altro teste rapate. So che ci sono ancora questi
centri a Milano ma sono diventati dei posti più cari ed esclusivi, forse non
tutti.
In
un’epoca intermedia per mesi non sono andato a casa perché ero troppo grasso e
non mi entravano più gli abiti civili e poi mi vergognavo. Ho una fotografia in
giacca a vento blu e bianca, con il Duomo alle spalle che riesco quasi
completamente a nascondere, nella quale sembro Oliver Hardy di Stanlio e Ollio,
anche perché mi ero fatto crescere dei baffetti veramente ridicoli.
Negli
ultimi tempi a casa ci sono andato più spesso, con lo sport ero dimagrito e si
facevano licenze false che tra di noi si chiamavano fughe. Ho avuto anche una convalescenza di dieci giorni per
un incidente fortuito fatto con un cacciavite che stavo usando per vedere il
funzionamento di un’autoradio.
Quando
sono arrivato ad Albenga ero un ragazzone piuttosto ingenuo, ma uscito da
Milano, un anno dopo, ero quasi un mezzo animale, un lontano prototipo
predecessore di un tre quarti di quello che sono diventato dopo in Brasile.
Alla
fine non si è mai completi e non si cambia molto in fondo, dall’infanzia alla
vecchiaia, almeno dentro di noi. Il percorso è così lungo e tortuoso che si
perdono perfino le proprie tracce, ci sono ricordi e situazioni romantiche e
talvolta anche utili, ma non si sa ancora per cosa.
Al ritorno a casa non dico di aver apprezzato appieno
la vita, ma un pizzico di saggezza in più lo avevo accumulato, la quasi
prigionia di un anno scarso mi ha dato un bagaglio tecnico più completo e
pratico.
Quando tornai a Lucca dopo il congedo le cose sembravano
cambiate però per una certa difficoltà a riprendere la vita di prima, anche
perché mi sembrava come se fossi uscito di prigione e la vita di prima non è
che fosse molto fluida e che scorresse troppo in maniera continua, ripresi
comunque il mio lavoro alla pasticceria Smeraldo.
In
questa fase della mia vita ho cominciato a capire diverse cose di me e
dell'ambiente che mi circondava, spesso mio malgrado. L’esperienza del militare
ha avuto l’effetto di comprendere due cose contrastanti tra di loro:
1) a conti fatti avevo capito che a casa si stava
meglio, ma ho potuto ricordare e rendermi conto, più dopo che durante, di
quanto mi sia anche potuto divertire e quanto avessi realizzato, su diversi
livelli pratici e teorici, da quel periodo passato finalmente senza la
protezione della famiglia.
2)
potevo, dovevo e quindi volevo staccarmi dalla famiglia e da tutta quella
protezione ipotetica e simbolica, eppure anche troppo pesante e indesiderata.
QUARTA PARTE
DAI VENTI AI TRENTA
Arrivando
dalla scuola e dall'adolescenza, bene o male prolungata, con il tempo si scopre
lentamente che il lavoro non nobilita affatto l'uomo, né la donna,
eventualmente gli dà la dimensione di quanto la vita sia dura e soprattutto
noiosa, se non la si prende al più presto per le corna e le si impone un ritmo
a noi più congeniale.
All'inizio,
non avendo spese di mantenimento e vivendo con i genitori, tutto sembra agevole
e si comprano cose e situazioni, non rendendoci conto che una volta raggiunta
la sospirata indipendenza, di soldi non ne avanzano, casomai mancano.
Poi
se uno mette su famiglia, il lavoro e i conti da pagare ti strozzano e così ci
si schiavizza di più, per avere più soldi, che però, guarda caso, non bastano
mai e tutto diventa obbligatorio e quotidiano.
Per
me non è stato diverso, anche se il matrimonio l'ho sempre allontanato e visto
come una trappola. Quando finalmente l'ho sperimentato, qualche annetto dopo,
ho capito di aver avuto ragione prima; ma se uno ci pensa quasi tutto nella
vita, se quell’uno non si ribella, è dovuto, obbligatorio e fisiologico.
Le
macchine, i mondiali, gli amici, le fidanzate, le case, i lavori, ma anche i
punti fermi della filosofia nostra in formazione sono tutti utili per situarci
in epoche differenti e i cambiamenti non solo nel cervello e nel cuore, ma
anche nel resto del corpo che raramente dimagrisce, più spesso ingrassa e
soffre di progressivi mali fisici, ecco un altro parametro da seguire. Per
ultimi mettiamoci i libri e i racconti pubblicati, perché gli altri, quelli messi
da parte, sono troppi ed è difficile attaccarci l’immagine o la relazione di
quello che si stava attraversando nell’epoca in questione.
Non
si sa se fu inconscio o no, ma il prolungamento dell’adolescenza fu la
cameretta chiusa con il lucchetto, dentro effetti speciali come stalattiti di
gommapiuma con le luci colorate dentro, fotografie e poster sulle pareti e sul
soffitto. In terra, grazie al pavimento lucido rosa bastava una lampadina rossa
sotto l’armadio e una sotto il letto per farlo diventare fosforescente,
sembrava addirittura liquido con una qualche apparente nebbiolina sopra. Poi il
poster staccato dal pilone dell’autostrada a Nove, dove si ammucchiavano decine
di firme, di tutte le persone entrate in quella camera.
LE
RAGAZZE QUESTE SCONOSCIUTE
Dai
vent’anni in là ho avuto diverse ragazze, nel senso che sono state loro a
decidere di mettersi con me, ma sono stato io a interrompere, nella maggior
parte dei casi. In pochi sono state loro a lasciarmi, ma era proprio quando
sentivo il massimo o credevo di sentirlo. Insomma mi hanno mandato affanculo
quando ero appassionato, e viceversa quando loro erano ben disposte invece, ce
le mandavo io.
Quest’epoca
è stata densa di movimento e piuttosto confusa, si capirà anche dalla tecnica
di scrittura, che salta di qua e di là. Insomma i cambiamenti di direzione sono
stati tanti, in tanti casi completamente casuali, ma forse le cose che sono
successe mi hanno fatto capire altre cose, che poi sono state importanti per
indirizzarmi meglio, per il futuro. Le donne sono entrate nella mia vita e
hanno fatto il bello e il cattivo tempo.
Parliamo
del rapporto che abbiamo avuto con queste donne, diciamo negli anni 80, mese
più, mese meno. Il plurale è per via che dentro di me c’è un esercito di
persone che non sempre la pensano allo stesso modo, che poi parlano poco, ma
quasi come se fossero antagoniste. In confronto al movimento interno poi nelle
azioni c’è un po’ di pace in più, perché sono poche e distribuite nel tempo.
Prima
di tutto c'è da notare che raramente ho potuto scegliere, sono stato sempre o
quasi sempre scelto. Poi c'è il fatto che i foruncoli e il mio aspetto fisico
non mi piacevano quando ero… diciamo adolescente e dopo mi sono portato dietro
un’insicurezza che veniva anche dalla mentalità comunicatami dalla famiglia,
piena di pensieri e di scarsissime azioni.
Quindi
la prima è stata a Marta che poteva anche andare benissimo, ma io non conoscevo
me stesso e lei non aveva niente che non andasse, ma non mi sentivo innamorato
come mi aspettavo, vedevo più difetti che i pregi.
AMELIA
- Non è vero che ogni disavventura ci può insegnare qualcosa?
- Forse. Ma proprio tutte le disavventure?
- Sì, se non è una novità è una conferma, per esempio in amore
tutti sanno che chi scappa vince.
- Vuoi dire una vittoria di Pirro?
- No, voglio dire che chi se ne va, sembra che sia più forte, ma
invece se ne frega e basta.
- Cioè?
- Prendi la storia che ho avuto con Amelia, per lunghi mesi me ne
sono fregato, l'ho trattata anche male, voglio dire con indifferenza, insomma,
anche quando lei aveva un altro in Liguria, non mi rendevo conto di essere un
imbecille.
- E poi finalmente l’hai capito?
- Sì, ma ci vuole del tempo... e delle botte nel muro. Dopo lei mi
ha lasciato e allora sono andato in crisi.
- Cioè hai realizzato la sua importanza solo dopo?
- Infatti, si fa per dire, perché ho pianto e scalpitato per un
po' , a dire il vero piuttosto intensamente, ma neanche tanto a lungo, poi mi è
passata e dopo pareva che non fosse mai successo niente.
(Riferimento ellepì Pirates di Rickie Lee Jones, nei giorni
del dolore ascoltavo sempre questo disco)
- E da questo cosa avresti capito?
- Più che altro ho confermato che per quanto complessa questo tipo
di situazione abbia una sua logica, che viene capita solamente dopo e nemmeno
da tutti.
- Dimmela allora qual è questa logica. Io sono tra quelli che non
l'hanno capita.
- A dirla tutta si tratterebbe di una logica piuttosto illogica,
cioè che ci si innamora di chi non ci dà importanza, si disprezza chi ce ne dà
troppa, ma che l'orgoglio - dopo essere lasciati - può sovvertire le sorti del
gioco dell'amore, ribaltare i ruoli, una specie di teatro pirandelliano.
- A me mi pare un po' cervellotico. Ma che c'entra Pirandello?
- I Sei personaggi in cerca di autore.
- Cioè?
- Siamo spesso schiavi di un ruolo che ci siamo creati chissà
come, ma veniamo smascherati da uno shock, un improvviso e traumatico
cambiamento.
- Peggio mi sento. Che vuol dire?
- Che non conosciamo mai veramente a fondo noi stessi, tanto meno
gli altri, la gente, le situazioni e la vita ci sorprenderanno sempre.
- E allora che possiamo fare?
- Be, non dare mai niente per scontato.
- Ah, ora sì che mi sento più tranquillo.
- No. Meglio di no, te stai sempre allerta, dai retta a me.
- Occhio vivo, insomma.
- Ecco, occhio vivo, sempre.
- Ma con Amelia come è andata a finire, poi?
- Lei mi aveva lasciato, io ho pianto, scalpitato, poi dopo un po’
tutto è passato e nel giro di settimane si è messa con un mio amico, io stavo
con un’altra e qualche volta siamo anche usciti insieme, noi quattro. Anche lì
è finita male, in entrambe le coppiette, per un bel po’ di tempo non ci siamo
frequentati, io poi ho smesso di lavorare allo Smeraldo, dove lei ha continuato
per un po’.
Poi lei ha fatto causa alla pasticceria e mi ha chiamato come
testimone.
Ogni tanto la vedevo in città, un paio di volte mi ha chiesto dei
soldi e io glieli ho dati. L’ultima volta che l’ho incontrata mi disse che
aveva fatto di tutto, che le mancava solo di ammazzare sua madre. Avevo capito
che era entrata nelle droghe pesanti, stava con uno abbastanza noto per essere
un tossico. Qualcuno diceva che sua madre era stata una prostituta.
PERCHÉ
SCRIVERE?
Il
mio professore d’italiano delle scuole medie stroncò un mio tema in classe, che
parlava della violenza nello sport: ero scarsissimo sull’attualità e cercare di
raziocinare su notizie imprecise non mi era riuscito.
Ma
il professor Sacco che non solo per questo fu il primo insegnante che mi
piacque, innescò in me un meccanismo di rivalsa.
Scosse
il mio cervello pigro o magari il cuore bloccato dalla mia stessa eccessiva
sensibilità, forse perché seppe spiegarmi per bene perché il mio tema in classe
facesse schifo.
Quello
seguente, infatti, che invece era sui miei progetti futuri, visto che non ne
avevo nessuno e che scrissi totalmente di fantasia, fu un successone e me lo
fece leggere ad alta voce alla classe.
Poi
poesie. Senza rima, senza ritmo, ma si può dire che la poesia moderna non ha
più bisogno di questi schemi e già allora questa libertà mi affascinò.
Perché
per ritrarre uno stato d’animo o una situazione bastavano poche parole, si
poteva scrivere in pochi minuti, poi ci volevano giorni per correggere e per
renderla più artistica, va bene, ma quello che contava era che il primo sbozzo
si faceva in poco tempo.
Scrivere
poesie era una cosa che mi intristiva anche di più di quello che già ero, e lo
ero assai.
Nel
1978 avevo smesso di studiare, si fa per dire, diciamo che smisi di andare a
scuola, per studiare non studiavo nemmeno prima.
Poi
iniziai a lavorare in pasticceria, un anno dopo, nell’80 partii militare, ad
agosto.
Nell’81
ripresi il lavoro in pasticceria.
Da
militare iniziai i miei primi romanzi, con una certa convinzione, che non era
poi molta, ma avevo così tanto tempo a disposizione che lo facevo anche per
distrarmi.
Questi
primi manoscritti erano versioni maccheroniche e mischiate di film e storie già
masticate, pieni di parolacce e di oscenità per colpire il pubblico, anche se
non ce n’era, attraverso un sensazionalismo che all’epoca non esisteva ancora,
almeno come termine.
Erano
comici quando volevano essere seri e tragici quando volevano essere divertenti.
Certo
che poesie e romanzi furono solo un rozzo, ripetitivo e sanguigno esercizio di
formazione, tanto per cominciare dalla maniera più sbagliata, andando per
esclusione, come ho fatto spesso, in generale, nella mia vita, per indecisione
e per conseguente flessibilità, o anche perché, in fondo, m’interessa tutto o
quasi, perciò mi è difficile sapere quanto, finché non ho provato ad entrarci
dentro e non ci ho sbattuto perbene la faccia.
PASTICCERIA
SMERALDO
Buttavo
sul banco espressi, macchiati e cappuccini senza nemmeno aspettare che me li
ordinassero, nelle mattinate di punta, come il mercoledì, quando le altre pasticcerie
erano chiuse, o la domenica che era tradizionale per venirci a comprare un
dolce per pranzo. Aprivo il negozio alle sette e andavo a casa all’una. La mia
terza ragazza è stata una commessa del Smeraldo. Ci ho lavorato per due anni in
tutto, a cavallo del servizio militare, era brava gente, mi ci trovavo bene e
ho mangiato un numero indescrivibile di paste e pezzi salati. Alcuni prodotti
come la focaccina alla cipolla, ripiena di insalata, tonno, capperi e maionese
li mangiavamo solo noi, il pubblico ne ha viste di rado. E soprattutto la birra
cecoslovacca Pilsner Urquell.
Un
ricordo pesante di quando lavoravo alla pasticceria, è quello d'inverno la
mattina presto, con un freddo della madonna, arrivavo con la 126 e per la
strada ascoltavo sempre la cassetta dei Pink Floyd The Wall, specialmente
quelle canzoni tristissime che si adattavano al fatto che mi ero lasciato con
Valeria, che è stato il primo grande amore, durato pochissimo, ma molto intenso
da parte mia.
Una
sera mi ero messo anche a piangere con lei, ingenuamente manifestando la paura
che mi lasciasse. Naturalmente lei si approfittò di questa mia debolezza e mi
trattava con una certa sufficienza, qualche volta anche minacciando di non
incontrarmi, sapendo che per me era molto più importante che per lei e poi mi
lasciò l'ultimo dell'anno del 1980.
Nel
1982 però vincemmo il mondiale, vidi tutte le partite insieme a un gruppo di
gente derivante dalle mie conoscenze di scuola, la finale insieme ad Aldo nella
casa di campagna nel Compitese dei suoi zii. Visto che il primo tempo andava
male, nell’intervallo facemmo diversi chilometri per unirci insieme agli altri
a Porta Elisa a casa del Giorgini e la mossa si rivelò indovinata.
BARABBA
Nel
1982 ho cominciato a lavorare da Berardo in Piazza dell'Anfiteatro, era stato
lui che mi aveva chiesto se mi interessava di lavorare nella sua
birreria-paninoteca, che all'epoca era una delle poche che esistevano a Lucca.
Aveva lavorato al Magro dei Tini lui, che all'epoca era l'unica che si potesse
dire di quel tipo di mescita un po’ più sofisticata e cittadina, che serviva
anche panini caldi.
Solo
che lì non era tutti i giorni, era solo nel fine settimana, ma lì accanto in
via dell'Anfiteatro, c'era la trattoria Barabba che era gestita anche da
Girolamo, mio amico e dopo mi chiesero se volevo lavorarci come lavapiatti;
quindi saremmo stati già vicini al 1983. Ci ho fumato le mie prime sigarette,
Camel senza filtro e qualche canna, ma non là dentro. Poi diventai cameriere e
quando, mi chiesero di essere socio, me ne andai e la indovinai.
La
sera, dopo le dieci, era il ritrovo degli alternativi, che non erano molti e a
volte anche troppo alternativi. Ogni tanto qualche rissa. Ci arrivai attraverso
amici e non poteva esser differente, tutto era basato sull’amicizia. Era uno
dei ristoranti più vecchi di Lucca, più che altro un’osteria. Ci si possono
trovare ancora lapidi di marmo che testimoniano cene e libagioni epiche e
copiose, di quasi un secolo fa.
Un
cambio di amicizia graduale era iniziato quando attraverso un’innamorata
effimera, compagna di lavoro allo Smeraldo Pasticceria Bar, avevo conosciuto il
Gatti e tutto insieme venne poi il giro di Piazza San Gennaro, che in seguito
mi portò al lavoro alla Trattoria Barabba. Insomma gente meno agiata e più
ruspante, nel senso di autentica, che poi per anni sostituì quelli di prima e
nacquero nuove e forti amicizie.
Mi
sentivo veramente bene con gli altri dipendenti e con i tre soci, all’inizio
erano quattro, ma poi uno se andò. Però per essere pagato, alla fine della settimana,
li dovevo marcare a uomo. Posso dire con orgoglio che - sotto la detta gestione
- sono stato l’unico a riscuotere regolarmente e completamente lo stipendio.
La
faccia tosta di Achille era fatta di bronzo di Riace, riusciva a dire le cose
più assurde in perfetta serietà e ci aggiungeva anche una falsa e orgogliosa
umiltà che sembrava spontanea.
Una
volta dei clienti abituali mi chiesero del vino rosé e Achille stava passando
carico di piatti sporchi, intervenne e disse che era arrivato proprio quella mattina
un Pinot Rosé che era una favola.
Detto
fatto andò nello sgabuzzino e si fabbricò al momento il rosé promesso, con vino
bianco e rosso. I clienti furono così entusiasti che ritornarono sempre a
chiederlo e gli altri camerieri dovettero imparare a farne al momento, anche se
le proporzioni non furono mai divulgate da Achille, anche perché non le sapeva,
e andavano eseguite a occhio, per non risultare eccessivamente scuro, né troppo
chiaro. Però nel tale sgabuzzino ci si vedeva poco e i rosé che ne venivano
fuori erano troppo differenti per non accorgersene, eppure nessuno giammai
protestò.
Una
volta comprò uno stock gigantesco di un pessimo whisky Cluny, fatto chissà
dove, forse in Francia. Mi pare una decina di scatoloni o più, per anni restò
l’unico a disposizione, secondo le rigorose istruzioni di Achille che voleva
sbolognarlo tutto, e a prezzi nemmeno lontanamente giustificati dalla qualità.
Questo
non gli impediva certo di interpretare una scena da teatro, specialmente quando
un cliente spocchioso voleva mostrare di intendersi di whisky e alla fine di
una lauta cena gli chiedeva quali fossero a disposizione. Alla domanda Achille
rispondeva quasi gridando TUTTI e alle più incredibili richieste portava sempre
lo stesso Cluny, si metteva di fronte al cliente e aspettava che se lo
assaggiasse, con la facciona seria, orgogliosa e fiduciosa.
Una
volta che avevano chiesto un whisky di torba Laphroaig, invecchiato dieci anni,
Achille gli portò una complementare ma necessaria acqua di torba di rubinetto
arrugginito che opportunamente prese nel cortile, in più mise un goccetto di
amaro Averna nel Cluny.
Nessun
cliente ebbe mai a dubitare o a lamentarsi di qualche disguido, la faccia di
Achille bastava a convincere chiunque, clienti abituali e stanziali, viaggiatori
e turisti. A nessuno venne mai in mente di mettere in dubbio la sua
credibilità, ma lui sapeva bene a chi farli questi teatrini.
L’altro
socio, Memo, era uno sciupafemmine di quelli assai gelosi della moglie, come
pare logico e inevitabile. C’aveva un’amante mulatta brasiliana, conosciuta in
un night club, che di soprannome era Xuxu, nome di una specie di zucca
rampicante di qua. Una volta gli telefonò e risposi io, dissi che Memo non
c’era, ma lei era convinta che fosse lui che faceva lo scemo, come forse aveva
fatto altre volte e non mi riuscì di convincerla per un bel po’.
La
gente credeva perfino che io fossi fratello di Memo, e addirittura un anziano
ex-pasticcere dello Smeraldo, uscito fuori di testa per la morte del figlio in
un incidente stradale, quando ci si incontrava in Fillungo mi scambiava per
lui, giacché avevano lavorato insieme alla Cantoni Cucirini Coats. Rimanevamo
dunque un poco a parlare del più e del meno, io impersonando alla meglio il mio
fratello barbuto.
Da
Barabba c’era un clima casalingo che la gente apprezzava, ricordo anche che
Achille alla gente non diceva di sedersi, ma di mettersi a ceccia. Si mangiava bene e si beveva di più, ma alla
fine vendettero, all’epoca, per un prezzo equivalente alla metà dei loro
debiti.
Tra
i soci di Barabba quindi c'era il novello cuoco, cugino del Gatti, Girolamo
detto anche Savonarola, soprannome ereditato da suo padre, un camionista
onesto, lavoratore e sempre dritto per la sua strada, che il figlio invece non
voleva seguire. In quell’ambiente essere scavezzacolli era la regola e non
l’eccezione. Non che lui non fosse onesto, anzi lo era assai, e generosissimo
come non ho mai più trovato nessuno. La nostra amicizia, come le altre, è stata
fatta a pezzi dal fottuto mondo che ti prende e ti porta via, poi rimessa
insieme da un’inerzia sotterranea, un sentimentalismo sano che ancora
sopravvive, almeno in Italia.
In
affitto abbiamo abitato in via Cenami, o piazza S.Giusto, siamo stati a Berlino
insieme, nello stesso appartamento di Goethe strasse, lui lavorava lì vicino al
ristorante Pasta e Basta. Scappammo di là affrettatamente, appena riscosso i
salari rispettivi, per una decisione presa mentre da pedoni aspettavamo il
verde a un semaforo. Ci scolammo non so quante bottiglie al ritorno verso Lucca.
Poi
Giro aveva sposato una ragazza del Sol Levante e ha vissuto non so quanti anni
in Giappone a fare il cuoco in un ristorante italiano, il Sabatini, che
funzionava come una specie di catena di montaggio e dove l’unico peninsulare
era lui.
PIAZZA
S. GIUSTO O VIA CENAMI?
Un
cliente livornese di Barabba ci raccomandò e ottenemmo in affitto un
appartamento in Piazza San Giusto, o forse era via Cenami, ma era bell’assai e
con una vista non indifferente sui tetti di Lucca da un terrazzetto stupendo.
Le stanze erano su vari livelli, scarsamente ammobiliate ma con gusto e con il
parquet, però c'erano da montare delle scale che non finivano più, eravamo
all'ultimo piano.
Prima
che ci buttassero fuori per i troppi rumori notturni, musica alta e balli
sfrenati, diversa gente passò ad abitare con noi. La storia con Sabine iniziò
qui e Morgana ci abitava già, anzi mi aiutò distraendo l'amica Gunda proprio la
sera fatale.
Poi
con l'entrata di Mirko indirettamente cominciò anche l'epopea del Voltaire.
Morgana
era di Trento e sorella di Fausto Vavassori, amico nostro e collega a suo tempo
di lavoro da Barabba. Due simpaticoni, lei era anche una bella ragazza, oltre
che vivace e abbastanza diversa dalle belle ragazze lucchesi che erano
invariabilmente dei pesci lessi. Non si innamorò di me, bensì di Mirko e noi
eravamo, se non l'opposto, quasi.
Fausto
era un cuoco dedito più che altro alla bibita, come tutti noi, ma forse a un
livello superiore e si faceva anche più canne. In seguito si stabilì a Torbole,
sul lago di Garda e ci ospitò, Giro e me, diverse volte. Dove abitava era
bellissimo e c'era anche una meravigliosa vista sul lago dall’alto. I loro
genitori anche erano molto simpatici e andando e tornando da Berlino spesso ci
siamo fermati una notte o due.
VAGLI
DI SOTTO
Le
spedizioni a Vagli per Achille erano ogni fine settimana con la scusa che
andava a riparare le ruote del camion, portava su una masnada di gente a
ubriacarsi. Anche lui non si tirava certo indietro, ma poi si svegliava presto,
il giorno dopo lavorava sul serio e quello non era un lavoro leggero. Ho
partecipato una volta sola, ma si beveva tanto che sembrava un lavoro. Eravamo
Achille, Memo, Giro, Fausto e io, ma la formazione variava a ogni spedizione.
Il
copione della commedia era questo: all'andata ci si fermava a tutti bar che
c'erano sulla strada, per aperitivi e superalcolici vari. Il camioncino si
arrampicava su a tappe e la sera per rimettersi in forma era rituale il brodo
di carne. Durante e dopo cena si riattaccava con il vino rosso e vari
personaggi locali si univano alla libagione.
A
un certo punto uno sparì e ci si preoccupò. Cominciamo a chiamarlo per la
campagna sottostante, un poggio scosceso verso il lago, incuranti del fatto che
svegliavamo tutto il paese.
Donna,
così era soprannominato l'uomo, si scoprì solo il giorno dopo che era andato
fuori a pisciare e poi a letto. Si era dimenticato di avvertire.
A
dormire ero nella camera più in alto, la casa stessa sembrava una grotta,
polvere e umidità erano copiose e lassù il letto era puzzolente e sporco, la
finestra era un buco aperto nella parete. Quasi non chiusi occhio, ma alle
sette Giro e Fausto cominciarono a strillare che era l'ora del Campari e la
giornata cominciò così proseguendo con il Maraschino casalingo, specialità
locale e del resto poi non ricordo bene, ma le prossime volte che mi invitarono
inventai delle scuse. Anche se risero e non ci credettero, capirono bene il mio
punto di vista, forse avrebbero voluto rinunciarci anche loro, ma non potevano.
Mi
è venuto in mente che un mio giovane allievo brasiliano mi raccontò di un suo
punto di vista, simile al mio, circa andare in vacanza con i suoi amici. Lui ci
aveva provato, ma quelli non dormivano mai e quei giorni alla spiaggia
diventavano per lui, che era un po' più posato, un autentico inferno.
COLORSTAR
Era
un mestiere quello che solo un giovane può fare, perché si doveva correre come
matti a costo di prendere delle multe per portare le foto ai fotografi e spesso
ti dovevi sopportare le lamentele per i ritardi, ma te non c’entravi niente.
La
cosa bella, che a un giovane può piacere, era la dinamicità del lavoro, poi il
fatto che la zona di Livorno-Grosseto era bella, anche se le strade erano
insufficienti e sull’Aurelia si rischiava la vita tutti i giorni. La macchina
si rompeva spesso e lo stipendio era misero considerato quello che facevi e per
come lo dovevi fare.
Il
primo cliente era a Rosignano e lo trovavo chiuso, sotto la saracinesca
prendevo una busta con i negativi e ne lasciavo un’altra, con le foto. L’ultimo
anche, era a Suvereto e non ci si incontrava mai. Per i pagamenti non mi
ricordo come facessero.
Quando
la Roma giocò la finale della coppa dei campioni io facevo il viaggiatore per
la Colorstar, era il 1984, mi invitarono a cena sul percorso, esattamente a
S.Vincenzo, il titolare di Clic, negozio di fotografo era Andrea, un tipo
giovane e simpatico, almeno a quei tempi. Non ho mai capito se si arrufianava
con me pensando che potessi accelerare la stampa delle foto, invece io gliele
portavo quando me le davano e per il resto non potevo fare niente. Quello che è
successo dopo mi fa pensare di sì, comunque era a quei tempi un tipo piacevole
e una volta mi sono anche permesso di andare al mare con lui e la sua ragazza,
durante il giro, nella pausa di mezzogiorno.
I
suoi erano piuttosto anziani e la sua casa era proprio accanto al passaggio a
livello, all’ingresso della cittadina, suo padre credo che fosse stato un
ferroviere o qualcosa del genere. La Roma perse ai rigori con il Liverpool
anche se giocava in casa, mentre noi si mangiava e dopo me ne tornai verso
casa, anche se mi pare che dormii a Bibbona, che a quei tempi i miei c’avevano
un monolocale.
La
prima volta che lo sono andato a trovare erano passati tanti anni dieci o
quindici, non lo so, forse di più e mi ha accolto freddamente, sembrava
incazzato. Non mi ricordo in quale occasione è stato, perché mi trovassi da
quelle parti, ma mi parlava solo di foto e di come quel commercio stesse
andando di male in peggio, non si usciva dall'argomento. Pareva quasi che la
colpa fosse mia, che il suo negozio e tutta una tendenza del mondo occidentale
fossero inopinatamente cambiati e lo avessero lasciato in mezzo al rimpianto e
all’amarezza.
Io
ho pensato che quel determinato momento della sua vita forse complicato da
motivi che non potevo sapere e lui non me li ha detti. Non ci ho pensato più di
tanto, capitano a tutti dei periodi negativi, una persona li attraversa, per
lunghi o corti che siano, poi approda dall'altra parte. Io poi con le foto non
c'entravo più niente, durante gli anni avevo cambiato più volte passioni,
occupazioni e indirizzi.
La
seconda volta ero con mia moglie, erano passati altri tanti anni e lui non
c’era, il signore del negozio vicino al suo, molto gentile, mi ha detto che era
morto da poco suo padre, ma lo ha chiamato lo stesso con il cellulare, Andrea è
venuto. Ancora più incazzato e tenebroso dell’altra volta. Il digitale aveva
distrutto la sua vita e quella delle foto, il suo negozio non ce la faceva ad
andare avanti, S.Vincenzo era un posto che funzionava sempre meno per il
turismo, i tempi erano cambiati ed era manifestamente tutta colpa mia, per come
mi trattava, pareva evidente.
Forse
avrei dovuto sparire e se avessi avuto una bacchetta magica lo avrei fatto, mia
moglie era imbarazzata e io peggio ancora, in pochi minuti ce ne siamo
scappati. Era morto suo padre, va bene, forse l’altra volta era morta la madre
e io non lo sapevo. Comunque non ci vado più a trovarlo, S.Vincenzo non mi
piace nemmeno.
VOLTAIRE
Quando
lavoravo a Barabba, la sera si chiudeva e si andava a piedi al Caffè Voltaire.
Era un fatto automatico, non c'era nemmeno bisogno di annunciarlo a parole. In
quell'epoca, molto più che in altre, varie ragazze sperse nella notte erano
passate dal mio letto, che poi era solo un materasso a una piazza e mezzo,
steso su un tappeto, come avevo visto a Berlino, direttamente sul pavimento di
parquet.
Una
di queste era stata Morgana, ma tra noi non si andò mai oltre il bacio che era
già scivolata in un altro letto e dentro c'era Mirko, il proprietario del Caffè
Voltaire. In poco tempo lui diventò un abitante della nostra comunità, io suo
socio al 50% del Caffè Voltaire e le cose s'incamminarono in un ben determinato
tipo di maniera.
Diventai
socio di Mirko su sua richiesta, ma ci conoscevamo appena. La sua filosofia era
semplice e assoluta, si basava sulla libertà, sul sentirsi a proprio agio
sull'uso disinteressato che era concesso a tutti di approfittare delle cose
degli altri scambievolmente e fraternamente.
Il
principio era bello e giusto, disinteressato e bilaterale in teoria, in pratica
lui non aveva niente e in base a questo suo nobile ragionamento poteva usare le
altrui proprietà a suo piacimento. Anche gli altri diceva, certo anche gli
altri naturalmente potevano, però per una strana coincidenza non ne avevano
facilmente occasione.
Mirko
era un tipo differente dai ragazzotti rozzi di Lucca, pareva più libero, anche
piuttosto delicato, veniva da Torino, ma era di origine ligure. Mi aveva
proposto di essere suo socio per una serie di motivi diagonali. Gli avevo
imprestato l'appartamento dei miei al mare, per andarci con la suddetta
ragazza. Si era lasciato con la sua precedente che lavorava con lui al Caffè,
improvvisamente c'erano due posti vacanti nella sua vita, rappresentati prima
da un’unica persona, ora diventate due. In più anche il suo portafogli era
vuoto.
Aveva
urgente bisogno di soldi per pagare i debiti fatti per mettere su la birreria e
di qualcuno che ci lavorasse, meglio se la stessa persona che portava la grana.
Aveva
fatto una pratica di stregoneria, con una specialista del ramo, che mi raccontò
poi lui stesso e con la quale era risultato che io fossi la persona adatta. In
generale, per scegliersi un buon socio, però la stregoneria non è una scienza
esatta: mi sarei dovuto accorgere che quella era una storia irta di difficoltà
immense, già prima di cominciare.
Agli
inizi del diciottesimo secolo Voltaire era un uomo che scrivendo tragedie si
scontrò contro tutti e tutto, rivoluzionò la maniera di scrivere, non tanto
nello stile, ma soprattutto nei contenuti. Polemiche le sue lettere ai
regnanti, che gli servirono per capire in prima persona cosa e come fosse la
prigione, e di sviluppare, così, il suo concetto di libertà. Il suo Candido fu
il primo libro con risvolti comici della storia della letteratura.
Il
nome stesso di Voltaire diventò poi, nell’epoca moderna, sinonimo di apertura
mentale, di costumi tolleranti. Probabilmente si iniziò a Parigi, adesso in
tutte le grandi città del mondo c’è almeno un Caffè Voltaire. Non che questo
implichi che Lucca sia una metropoli, anzi, e poi là non c’è più. Si suppone
però, tacitamente, che tutti i Caffè Voltaire nascano con un’idea di libertà.
Quest’idea
di libertà io l’ho sentita personalmente solo dopo che me ne sono liberato, dopo
alcuni anni veramente turbolenti, sofferti e così via.
Il
Caffè Voltaire era un unico stanzone col soffitto alto a volta, l'entrata era
di fronte al lato corto del banco, fatto a elle arrotondata, di granito rosa e
nero, stesso materiale dei dieci tavoli rotondi e con un lampioncino rosa a
cadere su alcuni di essi, facendoci un occhio di luce, evidenziando il
passaggio di nubi di fumo in lento movimento.
Un
locale scuro, senza finestre, con musica dal vivo la domenica, gli altri giorni
invece suonavamo selezioni miste di ogni tipo, ad alto volume, che aumentava
progressivamente, seguendo l'orologio, fino all'una di notte, teorica ora di
chiusura.
Ero
diventato un improbabile imprenditore, quindi, con un socio e tutto, più una
grossa voglia di bere e dimenticare, che però invece ricordava e ricominciava
puntualmente il giorno dopo.
Il
Caffè Voltaire era un punto di ritrovo obbligato, certo, era bello ritrovarsi
ogni sera, almeno all’inizio, ma dopo qualche mese ci ritrovavamo sempre a
ritrovarci e allora ho cominciato a trovarlo noioso.
Poi,
quando smisi di ubriacarmi, anche se non lo capii subito, fu proprio un errore
imperdonabile. Mio malgrado vidi cosa stavo facendo, dove e soprattutto come e
con chi.
Prima
di tutto dovremmo figurarci una città di provincia, dalla parola celtica Luk,
palude, un luogo dove non succedeva mai niente. Il perbenismo ipocrita era
l'ideale per la sua stessa natura, una città che aveva un’università in meno di
Pisa e questo pesava nella sua vecchiaia precoce della gente, nella vetustà
polverosa degli ideali.
Il
successo del Caffè Voltaire era dovuto al suo romantico aspetto e alla sua
struttura di locale, era più caratterizzato delle poche altre birrerie e la
musica ad alto volume, cosa mai tentata prima a Lucca, rappresentava un’idea di
libertà che faceva paura a tanti ed era apprezzata in maniera altrettanto forte
da altri.
Arrivavo
lì con il cibo ancora in gola perché la sera mangiavo assai. Il lavoro partiva
alle nove la sera e dopo aver chiuso, all’una, si prolungava con gli amici
spesso tutta la notte, quando gli altri si alzavano io andavo a letto.
A
mezzogiorno non pranzavo mai perché spesso era l’ora della sveglia, se non
ancora troppo presto per alzarsi. Il fatto poi di dover aspettare tutto il
giorno prima di lavorare, generava una certa ansia. Dormire dalle quattro a
mezzogiorno non è la stessa cosa che farlo da mezzanotte alle otto, infatti si
dice che la notte è fatta per dormire, anche per una questione di ritmo
naturale per il nostro corpo.
Una
vecchietta che viveva lì vicino mi disse che lei ci chiamava Voltaren, ecco un
altro nome onomatopeico.
I
soldi prestati da mio padre per comprare parte della mia quota del Caffè
Voltaire sono stati restituiti mensilmente, finché lui ha deciso che avevo
sempre onorato il debito puntualmente e i miei fratelli vivevano ancora lì a
casa e io no, che il costo relativo del loro mantenimento poteva essere
rappresentato da quelle rate, che dopo un po' non avrei più dovuto pagare.
La
Renault 5 non mi ricordo se la comprai da loro o se me l'avevano semplicemente
regalata usata, ma alla fine fu manovrata per pagare in parte un'altra
macchina, una seconda Fiesta mentre io ero già a Berlino. La Panda non credo di
avergliela pagata, perché quando io venni in Brasile e loro la vendettero, papà
mi chiese chi si sarebbe preso i soldi e io dissi che li avrei presi io, anche
se doveva dovevano essere di loro, perché io ne avevo più bisogno.
Mio
padre insomma voleva che apprezzassi e imparassi la lealtà negli affari, e
nella vita in generale, quando vedeva che ero determinato, quadrato e onesto
poi mi regalava il restante generosamente.
Insomma
la mia famiglia mi ha aiutato parecchio a livello di soldi, ma non hanno mai
voluto lasciarmi le cose troppo facili, per abituarmi alla vita. L'idea che
avevano dell’educazione per noi figli era abbastanza spartana, senza cerimonie
o retorica, ma solidale quando c'era bisogno.
Di
tre fratelli farne tre opposti non è facile, ma loro ci sono riusciti. Il
merito o la colpa sono stati anche dell'ambiente attorno, nel quale era in atto
l'ennesimo grande cambiamento, dal boom economico al berlusconismo. In pratica
raggiunto uno stato di ricchezza relativa, l'italiano cominciava a chiedersi
quale fosse il senso della vita, come succede di solito, quando una generazione
abituata alla povertà ne porta al mondo un'altra più agiata, che ha molti meno
problemi per la sopravvivenza. Di solito in questo processo si va anche da
sinistra verso destra, ma a ondate e con altri componenti relativi e
supplementari, tra cui quello dell’immigrazione e di fare sempre meno figli.
Dei
tre fratelli poi uno solo ha avuto una prole, di un unico individuo, ma il
mondo intanto era cambiato ancora e qualcuno direbbe in peggio.
Sulla
trentina mi ero allontanato non solo dall’Italia ma anche dagli amici
precedenti, ne avevo di nuovi che poi sarebbero stati lasciati indietro pure
loro, ma qualcuno sarebbe ritornato in prima linea.
Le
direzioni da prendere erano ancora incerte e lo sarebbero sempre state, almeno
per me, ma non lo sapevo.
Il
Caffè Voltaire è stato il mio incubo più forte e duraturo, d’accordo, di
libertà ne ho usufruito anche quando ci lavoravo, basta dire che in un anno ho
chiuso quattro volte e ho fatto quattro viaggi all’estero. Però sono stati anni
assai difficili lo stesso, sono stato sempre peggio e mi pareva che tutto
intorno a me anche peggiorasse.
Quella
avrebbe potuto essere - di nuovo - la fine dell’adolescenza, ma avevo già più
di trent’anni e forse era troppo tardi, ormai.
Certo
ho conosciuto tanta gente, non tutta interessante, ma ne ho approfondito
spesso, mio malgrado oppure no, anche i lati negativi, quelli che se ne
uscivano fuori con l’alcool, mischiati agli altri. Magari è stato uno studio
antropologico interessante, ma non era quello che mi ero immaginato ed era lontano
anche da qualsiasi idea auspicabile del futuro, insomma mi ci sono trovato, più
che averlo scelto veramente. Questo però succede spesso o quasi sempre nella
vita, almeno qua sulla terra, come fisiologica conseguenza mi ha spinto a
voltare pagina: ho cambiato lavoro, niente più ristorazione o bar.
Le
notti del Caffè Voltaire però erano dense e piene di simbolico significato,
oltre che di birra, vino e superalcolici, cause ed effetti che si mischiavano
fino a non capirci più niente.
Dopo
il normale orario che sarebbe stato dopo l’una, pulivamo tutto per il giorno
dopo e partivamo per la notte, che era piccola per noi, come dicevano le
sorelle Kessler, molti anni prima, ma il loro motto era più che attuale e
funzionante.
Quelle
notti erano molto meno torbide e scure quando qualcuno ci aspettava e dopo la
chiusura facevamo quello che poteva essere chiamato Turismo al Chiar di Luna.
Consisteva nell’infilarsi in una o più automobili e tagliare la notte girando a
caso, con l'obbiettivo prima di tutto di farsi un bel cannone o due, poi
ricercare punti turistici di quello speciale genere, ci poteva essere una bella
vista o un particolare tipo di energia. Di tanti che ne abbiamo trovati alcuni
non riusciremo a localizzarli più. Siamo arrivati a un punto che volevamo fare
proprio una guida con questi punti turistici, tanto che avevo deciso di
scrivere una guida notturna per ubriaconi e gente affetta dall’insonnia,
corredata di foto e mappe di tutti i tesori turistici di quella parte della
Toscana. Visitavamo castelli, cimiteri, punti di rilievo storici e geografici
vari della lucchesia addormentata e non solo. Ma poi anche a farla chi
l'avrebbe mai consultata? Il turista al chiar di luna non è certo il tipo che
consulta una guida.
LESLIE
Lo
conobbe il mio socio, per strada suonava senza saperlo fare, ma la sua simpatia
era accattivante. Mirko lo invitò a venire a suonare da noi. Fu amicizia a
prima vista. Era un barbuto irlandese dai lineamenti tagliati con l'accetta,
beveva come un matto e suonava e cantava con molto impegno, i risultati
artistici erano scarsi, abbastanza buoni però dal punto di vista di monete che
cadevano nella custodia della sua chitarra dozzinale e vecchia.
Leslie
era molto simpatico e lo era in maniera naturale senza sforzarsi di esserlo,
senza dire battute divertenti o cercando di piacere agli altri. Rideva a
scroscio e ti faceva ridere anche te, era contagioso, anche se non sapevi
perché ridesse in quel momento. Era completamente sé stesso e non aveva pose,
anche quando rifiutava per scarsa purezza cose e persone, situazioni che a ben
vedere non erano come pensava lui. Odiava gli americani e Bruce Springsteen non
solo perché aveva fatto una canzone intitolata Born in the USA.
Un
irlandese cresciuto in Inghilterra insomma, che viveva in Francia, ma passava
tanto tempo in giro, suonando, bevendo e vivendo di conseguenza. Disse che a
Udine aveva avuto il maggior impatto, suonava meno che dalle altre parti perché
guadagnava di più.
La
seconda volta che venne da noi la sua qualità come musicista era molto
migliorata, era diventato bravo. Forse quando lo avevamo conosciuto aveva
cominciato da poco. Suonava e cantava un po’ di tutto, ma c’erano cose che non
digeriva per niente.
Per
qualche giorno dormì al Caffè Voltaire, come al solito quando era a Lucca,
siccome io ero tornato a vivere dai miei si prese il mio giaciglio. Una mattina
Mirko vide che c’era una grossa pentola vuota vicino al letto. Gli chiese a
cosa gli servisse, lui rispose che era per vomitarci dentro.
In
Francia aveva una ragazza che si chiamava Nadine, non ricordo in quale città,
forse a Lione.
Chissà
dove è andato a finire, dubito che sia andato a lavorare in banca, o che abbia
spesso vestito una cravatta, come invece tanti altri hanno fatto.
CATTIVE
AMICIZIE
Di
cosiddette brutte frequentazioni ne ho avute a sufficienza, direi che per
alcuni, in certi periodi, lo sono stato io stesso per loro. Insomma è normale,
a una certa età vuoi provare tutto o quasi, poi è meglio voltare pagina, ma c'è
gente che non l'ha ancora voltata. Va bene così, chi è che nell’esistenza si
può effettivamente vantare di scegliere, senza essere un bugiardo?
L'epoca
più alcolica è stata forse quella che va da Barabba al Caffè Voltaire, ma a
Berlino non ho certo perso tempo. I primi tempi in Brasile anche non sono stati
analcolici, ma gli ultimi venti anni invece ho quasi totalmente abbandonato, le
sigarette e le canne proprio del tutto. Cominciai a fumare a Barabba dato che
là quasi tutti lo facevano e mi offrivano Camel con e senza filtro, MS e
Marlboro. Una delle tante volte avevo smesso subito prima, ma a Berlino
ricominciai. Stesso procedimento in Brasile. Probabilmente prima di partire ero
rilassato, con la prospettiva del futuro, dopo, invece ero nervoso, perché
ricominciare a vivere in un altro luogo, o meglio: proprio in un’altra nazione,
provoca scompensi logistici per cui si attraversano inevitabili periodi di
stress, ottemperati dall’opportuno e logico entusiasmo per il cambiamento.
PARAMETRI
LIQUIDI
Da
bambino bevevo di tutto meno gli alcolici, che a me non piacevano proprio. Vino
e birra io li ho iniziati a gustare che ero quasi maggiorenne. A mio fratello
Leonardo invece, da bambino la birra gli garbava già.
Altro
parametro utile sono le bevande, infelicemente le amicizie ti confermano dei
vizi che te avevi già e quello del bere poi è diventato forte, ma solo ed
esclusivamente per loro causa, non certo per mia, purtroppo ho recuperato il
terreno perduto, forse per caso, o forse no, lavorando in bar, ristoranti e
birrerie.
Al
Voltaire facevo un cocktail chiamato Fond de Bouteilles, che era sempre
diverso, perché si usavano i fondi delle bottiglie. Naturalmente non tutti. Si
doveva, si voleva e si poteva scegliere, sennò faceva schifo.
L’Agua
de Valencia, ci fu insegnata da un’argentina dalla risata a cascata, Aparecida,
assai simpatica, che era anche cuoca e aveva fatto a Barabba una serata di
cucina del suo paese. Era un bicchierone di mistura di liquori e succo
d’arancia che al gusto sembrava totalmente innocuo e analcolico, ma dava delle
botte non indifferenti ai malcapitati, che spesso erano anche recidivi. Un tipo
di bibita molto apprezzato anche dalle donne. Dalla moglie di mio fratello
Umberto, Dayane, poi qua in Brasile per ovvi motivi è stato inventato il vino
Feminino e il vino Masculino.
Sia
a Barabba che poi al Voltaire c’erano delle birre rosse alla spina buonissime.
Forse per caso, o forse no, talvolta se ne facevano in più e purtroppo ce le
dovevamo poi bere noi. Più se ne bevevano e più se ne sbagliavano e così via.
La
Grolla era un’altra mistura di liquori caldi della Val D’Aosta che amici nostri
portarono a Lucca dopo le ferie in loco. Se non facevi attenzione, bevendo
dall’apposito contenitore di legno con più buchi, ti potevi scottare, ma di
sicuro e sempre poi ne uscivi ubriaco e accaldato. L’appartamento in via
Cenami, o piazza S.Giusto, assistè almeno due volte a questa cerimonia
tipicamente invernale e che provocava una rivoluzione nell’ordine delle cose e
soprattutto delle idee delle persone in questione.
A
proposito di roba forte la Biere du Demon aveva una ventina di gradi e un
cliente abituale del Voltaire, detto il Chiedone, dopo averne bevute una
decina, insisteva per pagare due volte, ingenuamente non glielo permettemmo e
dalla rabbia spaccò un vetro della porta con un cazzotto.
Il
vino l’ho apprezzato più raramente delle altre bevande, da ricordare una sera a
Pisa alla Limonaia, una sequenza di bottiglie pagate da amici di Orentano,
erano dei fottutissimi nettari manco a dirlo, ma tutti quei soldi io non ce li
avrei spesi.
STUPEFACENTI
Le
canne sono un argomento più complesso: la prima deve essere stata nell'epoca di
Barabba, ma la stessa materia in questione è causa di perdite di memoria e
quindi non ricordo con chi e meno ancora in quale occasione. In queste
condizioni gli episodi buffi da raccontare aumentavano e quello pareva essere
ciò che contava, cioè l'importante era divertirsi e non eravamo molto lontani
dal giusto, magari era il modo che era esagerato.
Savonarola
una volta in montagna in una escursione con un gruppo di avvinazzati e non
solo, si fermò a pisciare dietro un gruppo di case e una finestra si aprì, si
affacciò una donna, disse qualcosa che lui non capì, richiuse e dopo lui
raccontava a tutti che era stata un'apparizione della madonna. Poi venne chiamato
n’apparì la Madonna dagli amici e
conoscenti per via anche della sua nappa piuttosto pronunciata in gergo.
Si
può rimanere stupefatti dai vari vantaggi o sintomi che ci danno gli
stupefacenti, la gente ha bisogno di stupefarsi, soprattutto quando la vita
insiste nel sembrare troppo simile a sé stessa.
CARAMELLA
Di lui parla così il figlio Marco:
Butto giù questo ricordo così come mi viene, puoi dargli la forma
che vuoi.
Estate anni '60. Dopo il lavoro che
normalmente finisce verso le 18.30 gli uomini del rione del Bastardo si
ritrovavano al bar Ulisse allora in via della Quarquonia che faceva anche
da alimentari oltre che da trattoria dove Maria, moglie di Ulisse Galli
cucinava cose che oggi nessuno più conosce: gli stomachetti, la digiuna,
la trippa, le animelle e altre parti decisamente poco nobili di bovino che i
figli Franco e Aldo portavano direttamente dai macelli pubblici dove lavoravano
come abbattitori. Si trattava di parti facilmente deperibili e pertanto
invendibili per i macellai. Però sono andato fuori tema perché questo avveniva
soprattutto nei lunghi pomeriggi del sabato invernale quando ci si riscaldava a
vino e a discussioni di ogni tipo, ma soprattutto sulla giocata a tresette o a
briscola che chi vedeva le carte da dietro non avrebbe mai fatto.
Il vino. Ritorno a
quella estate che mi è rimasta particolarmente impressa nella mente.Il rione
era abitato soprattutto da operai che venivano pagati, ma non regolarmente, il
sabato. Nelle case l'amministratore era la moglie, per fortuna, e gli uomini
avevano a disposizione qualche lira per le sigarette e qualche bicchiere.
Ulisse però faceva credito, anche perché aveva ottimi clienti che gli
riempivano il bar anche nel dopo cena sia in estate che in inverno.
Agosto, un giorno infrasettimanale.
La serata si prolunga oltre al solito, anche a causa del buon bianco di
Terricciola che di cui Savonarola rifornisce Ulisse a damigiane
infiascate poi con imbuto e cannella dopo aver aspirato l'olio e assorbito
il resto con la stoppa. Fresco di ghiacciaia, va giù che
è una meraviglia. Quando Ulisse chiude, a mezzanotte, la serata
finisce sul pratino di via dei Bacchettoni dove, lungo la salita delle Mura,
c'è una filata di alberi giusto giusto quattro o cinque metri l'uno
dall'altro. Ogni albero ha il suo capannello: c'è chi canta arie di opere,
chi fa musica leggera, Ulissino con il mitra ta-ta-ta fa fuori tutti i
nemici, Beppino canta Rosammmmmunda (quando è alticcio inchecca di più),
Caramella e Alberto fanno il jazz.
La serata finisce verso le cinque di
mattina, non appena il sole comincia ad illuminare il rione del Bastardo.
Mia madre è una bestia, sei uscito per fare una partita a tresette e torni
alle cinque, ti hanno sentito in tutto il Bastardo. Le finestre del rione sono
tutte aperte per il caldo e si sente vociare in ogni strada. Perché mi devo
vergognare solo io? C'eravamo tutti......
Comunque due ore di sonno pesante e
alle sette e mezzo a lavorare, tutti.
Hanno bevuto cantine di vino e
nessuno nel rione ha avuto problemi di cirrosi.
Per ironia della sorte di cirrosi
epatica è morta mia madre che non ha mai bevuto un bicchiere, ma nel suo caso
la colpa è della celiachia.
Lo conoscevo di vista, padre di
amici, amico di amici del giro di Piazza San Gennaro, ne avevo sentito parlare
in maniera pittoresca, a cominciare dal fatto che era un non molto comune
genitore, piuttosto goliardico, di undici figli.
Quando cominciò a frequentare il
Caffè Voltaire familiarizzammo in poco tempo utile, distribuito in un arco più
lungo di quello materiale, frazionato sia dell'alcool che dai tanti altri
personaggi, non tutti positivi, che gravitavano in quelle notti di lavoro, ma
anche di teatro contemporaneo.
Appassionato di jazz e di musica
brasiliana, non disprezzava certo un Bacharach o un Paolo Conte. Al Caffè Voltaire
faceva spesso richieste musicali, più che altro sempre le stesse, con
preferenza per un certo Art Van Damme, virtuoso dei Paesi Bassi e della
fisarmonica, arrivammo a donargli la cassetta, che se l'ascoltasse con calma a
casa, quante volte volesse.
La nostra musica era a
trecentosessanta gradi, nel senso della temperatura e del volume alto, ma anche
dei dei generi diversi e opposti, dipendendo anche dagli orari. Le cassette le
facevo io, registrando dai dischi in vinile, ma non erano tanto curate nei particolari,
soprattutto le chiusure erano improvvise e troncate, a volte piuttosto
rudemente.
Caramella shoccato da uno di quei
finali senza tanti complimenti, di un'accorata performance di Tootsie
Thielemans, altro virtuoso dei Paesi Bassi e dell'armonica a bocca,
sinceramente se ne preoccupò, chiese più volte a Tutte, come lo chiamava lui,
cosa era successo, se si era fatto male, come stava eccetera. Nell'improvviso
silenzio musicale tutto il pubblico locale sentì e rise.
Faceva amicizia con tutti, ragazzotti
di trenta o anche quarant'anni più giovani, era sempre sorridente e scherzoso.
Uno di quei clienti che consumavano una birretta in tutta la serata, ma che ti
faceva piacere di vederlo lì spesso, non tutte le sere, ma quasi. Non si sedeva
mai, stava sempre al banco, dove un certo tipo di avventori insiste nell'avere
rapporti sociali anche con i baristi, camerieri o padroni del locale.
Era chiamato Caramella perché ne
aveva sempre una certa quantità in tasca da dare ai bambini.
La differenza di età per lui non
era affatto un ostacolo, anzi. Una volta lo sentii dire a una nostra cameriera
belloccia, Miranda, se lei lo avesse guardato ammodino negli occhi, che lo
avrebbe voluto sapere perché lui - sennò - stava per andarsene. Lei rise e la
prese per quella che era, una dichiarazione d'amore, da uno che da giovane
doveva essere stato un rubacuori, ma gli piaceva ancora il gioco della
conquista, anche solo per scherzare, per un piacevole e falso malinteso.
Da noi lavorava Victorinho e
Caramella ci attaccava discorso spesso, mentre lui passava carico di vassoi
pieni di bicchieri pieni e di bibite. Amava la musica brasiliana ed era anche
stato anche a visitare i suoi parenti a San Paulo. Tutte le volte che aveva
occasione lo presentava agli altri, che lo conoscevano già più di lui,
dicendogli: questo è Victorinho, di Curitiba, dello stato del Paranà.
Riferisco dalle sue stesse parole
il rapporto stringato di una serata a casa di amici, erano lui e il Serantoni,
mi pare, altra figura notevole del quartiere. Avevano bevuto di tutto e
insieme, ma cominciava ad essere tarduccio, verso le due il suo amico
ospitante, la cui moglie era già andata a letto da tempo, andò in un’altra
stanza e si sentiva sbatacchiare e frugare nei cassetti da un po’, al che
Caramella, che è sempre stato un gentiluomo lo chiamò e gli disse:
“Guarda non ci devi rimanere male,
ma noi dobbiamo proprio andare via.”
Mi
fa venire in mente la difficoltà enorme, tutte le sere, per mandare via i
clienti ubriachi. Quella più grande l’ebbi con un - mai visto prima, né dopo -
signore di una certa età, con la sua innamorata di circa la metà degli anni, al
quale, dopo aver finito di fare le pulizie con un aspirapolvere rumorosissimo e
toltogli il tavolino con tutto quello che c’era sopra, fu necessario dirgli più
volte che dovevamo proprio chiudere, che eravamo più di un’ora oltre l’orario
stabilito e permesso dalla legge.
FUSILLI
HOME
Mettendo
i soldi da parte per andarmene a Berlino cominciai a lavorare a Fusilli Home,
dietro lo stadio e ci sono rimasto dei mesi, facendo il turno spezzato, che non
ti da’ tempo e luogo per fare nient’altro che lavorare e dormire.
Eravamo
in diversi e c’era anche Fausto in cucina, si lavorava in maniera spensierata e
ci si divertiva anche, ma c’era da galoppare.
C'erano
diversi tipi da spiaggia a Fusilli Home e non erano tutti clienti, ci facevano
una pizza buonissima con il grande forno a legna, dove la domenica si
arrostivano una cinquantina di polli da portare via.
Fiano
era uno dei gestori, l'altro era Nando, detti Cric e Croc, sempre insieme ma si
sopportavano a fatica.
Fiano
era un playboy capellone con moglie e figli, uno di quelli assai gelosi ma
traditori naturali, come se fossero due cose che combinano bene. Nando invece
era più serio almeno da quel lato lì, ma anche lui non assoluto.
Fiano
chiamava i clienti con soprannomi onomatopeici, oppure contrari, o anche
casuali, ma tu capivi subito a chi dovevi portare le pizze, se lui diceva che
erano di Kojak e Sofia Loren. Vicino alla cassa aveva messo un piccolo cactus in
vaso, sottintendendo forse un simbolo fallico, era chiamato Uccelli di Rovo.
Era
in perenne polemica con Rino, siciliano sordo e attempato, che lavava i piatti
in una cucina grande e incallita di sporco atavico.
Fausto
era il cuoco e ogni tanto c'era nel fine settimana la vecchia padrona chiamata
da Fiano con soprannomi in questa sede innominabili. La figlia e padrona
attuale appariva di rado, ma ero stato contattato da lei, probabilmente perché
il lavoro era aumentato e Fiano e Nando non ce la facevano più.
Nel
fine settimana c'era un pizzaiolo specializzato di Porcari, come Nando, perché
le pizze erano fatte senza teglia e se non ci sapevi fare si accartocciavano al
primo contatto di pala. Sabato, domenica e feste comandate c'erano anche due
ragazze giovani, a volte la moglie di Nando. Il quale era sempre con la
sigaretta in bocca, cambiava il peso da una gamba all’altra e chiacchierava
incessantemente se trovava uno che lo ascoltava. Un classico era la domenica
sera, preparando le pizze che il pizzaiolo poi metteva in forno, con la massima
apparente calma, di fronte a decine di persone che aspettavano e guardavano,
non stava zitto un secondo. Nando era sprovvisto di ogni senso dell’humour, una
domenica a mezzogiorno un anziano gli chiese, di fronte all’ovvia ecatombe di
volatili allo spiedo, preparati in quella che in Brasile chiamano televisione per cani:
“Vesti
vi en polli?”
E
lui rispose serio e laconico, con la sigaretta all’angolo della bocca:
“Vesti
vi en polli.”
Risata
generale.
Fiano
era in eterna - ma tacita - polemica con Rino, per la sporcizia della cucina,
per le pur involontarie scorregge mentre mangiavamo e perché metteva teglie
sporche a scaldare e a sgrassare sui fornelli durante le ore di servizio al
pubblico.
Gli
faceva sempre le boccacce alle spalle e poi pettegolezzi stizzosi e
bestemmiati, ma non sempre giustificati. Altro classico poi era lo scherzo
ricorrente di mettergli il sellino della bici dritto, svitandone la base. Il
vecchietto che per andare a casa si toglieva finalmente gli occhiali da vista,
qualche volta era quasi caduto e Fiano aveva riso sommessamente in quella sua
maniera tipica, con la bocca chiusa, perché era sdentato e si vergognava.
Una
volta che ero andato a trovarli in ferie da Berlino, Fiano gli aveva fatto lo
scherzetto di rito e Rino si arrabbiò con me, forse perché aveva smesso di
farglielo in mia assenza, dato che l'unico sospettabile automaticamente
diventava lui.
“Pure
dalla Germania vengono a ròmpere i cogliòni…”
A
Fusilli Home si mangiava bene e si spendeva il giusto, c'erano tanti tavoli e
funzionava anche per i pranzi di lavoro, rosticceria e bar.
In
una certa epoca tentarono anche di fare consegne a domicilio, ma Fiano poi
fatta la consegna spariva e tornava solo a chiusura. Tentarono anche con
un'agenzia scalcagnata, uscirono perfino manifesti e volantini, ma il successo
fu più scarso ancora.
Essendo
in un quartiere popolare, addirittura malfamato, vicino allo stadio e
all'ospedale, il lavoro era tanto e se i clienti non li prendevi in una
maniera, lì acchiappavi nell'altra, non avevano scampo. Era per via delle leggi
delle probabilità, insomma la matematica degli algoritmi.
CITTISBANCA
Il
fotografo Marchetti era uno dei più quotati a Lucca, non ricordo come ci siamo
conosciuti, sicuramente era un cliente di Barabba, veniva tutti i giorni a
pranzo, qualche volta a cena. Suo amico e musicista, cantante e simpaticone, il
piccolo ma arzillo Ceccotti, con il quale sempre a rate, ma siamo diventati più
amici dopo, quando ero già in Brasile e venivo in Italia una volta all'anno.
La
Cittisbanca era un gruppo musicale formato da loro sulla figura folkloristica
del Citti, omo di una simpatia
sottile ma trascinante. Io ne feci parte come guardia del corpo, o buttafuori,
nel senso che stavo di lato al palco, come un altro, nei concorsi canori
guardando male il pubblico, con una sigaretta spenta che muovevo con le labbra,
senza toccarla con le mani, conserte sul petto. Le canzoni erano umoristiche e
basate su scene di vita vissuta. Per la canzone E la cuoca sudava l'argentina Aparecida si mise a piangere, ma non
era riferita a lei, piuttosto alla signora di un desco campagnolo e rustico
alle cui mangiate il Citti era stato invitato più volte. Il Citti era un
gestore di un banchetto stabile di giocattoli dietro il coro di San Michele a
Lucca, esiste ancora gestito dalla moglie e dal figlio, molto somigliante al
padre fisicamente, ma poco di carattere.
Al
Barino di Sant’Agata avevano una squadra per i tornei estivi che annoverava
degli assi del calcio lucchese e vinceva sempre troppo facilmente, 6 a 0, 5 a
0, 7 a 1 e così via... il Citti, non per caso il loro CT, inventò allora uno
stratagemma per rendere le cose più interessanti: con il megafono gridava:
CONGELAMENTO!! E tutti rimanevano immobili come statue, intanto la squadra
avversaria, anche se incredula, faceva gol indisturbata.
Dopo
facevano qualche gol loro, del Barino e, quando gli altri parevano un po’ giù,
facevano un altro congelamento o due... allora i risultati diventavano 7 a 5, 6
a 4, 8 a 3 e così via, anche per loro era più stimolante, perché poi dovevano
impegnarsi di più per non essere raggiunti o superati...
Ma
gli avversari non si arrabbiavano?
A
volte sì, altre volte la prendevano sul ridere. Succedeva anche che, punti
nell’orgoglio, iniziavano a giocare meglio e a fare gol anche senza l’aiuto dei
congelamenti.
L’Ondulato
S.Marchino, era una squadra forte, anche fisicamente e forse erano stati
informati del trucco. In finale, dall’inizio della partita, come mossa tattica
presero a picchiare negli stinchi. Come un tutt’uno, l’Ondulato, come se il
pallone non gli fosse mai interessato, botte su botte. Comunque, dopo il
secondo congelamento, stavano 4 a 2 per il Barino. Quelli si infuriarono come
tori, si sentivano umiliati. In pochi minuti, di prepotenza, ribaltarono la
partita e alla fine vinsero 5 a 4.
Il
Citti e il Ferrara, un suo amico conosciuto anche per essere un altro tremendo,
antiquario di Sant'Agata, andavano spesso a pescare al lago di Massaciuccoli,
ma non avevano il permesso e mettevano le canne dei puntali, come si usa fare
per la pesca alla carpa e alla tinca, nella quale ci vuole una grande pazienza,
come dicono i manuali.
Quando
arrivarono le guardie della Venatoria loro dissero che le canne non erano di
loro proprietà, al che una delle guardie disse:
“Se
non sono vostre allora non vi dispiacerà se le prendiamo noi.”
“Ma
veramente s’erano viste prima noi…”
Il
Citti è morto già da qualche anno. Ceccotti ha venduto il negozio di cornici,
scrive e canta ancora belle canzoni, doveva partecipare a Sanremo, a suo tempo,
ma pare che fisicamente sia stato giudicato insufficiente. Antonio Marchetti
credo faccia ancora i servizi fotografici dei matrimoni, ma ha chiuso il
negozio, per fare dei corsi di fotografia. Per causa di un incidente
automobilistico in Inghilterra è rimasto deformato in faccia e piuttosto sordo.
Questo non gli impedisce di continuare a fare il tecnico del suono ai concerti
del Ceccotti, che attualmente fa un repertorio di Fabrizio De André. Da Antonio
indirettamente ho lavorato anch'io, facendo le foto nelle scuole. Ho abitato
qualche settimana a casa sua a Sant'Agata portandoci addirittura mio fratello
Umberto per un giorno o due. Siamo stati anche con Alberto Ceccotti in vacanza
ad Hammamet e una volta siamo stati insieme, sempre noi tre, a Montalcino per
un'escursione enogastronomica. Ultimamente sono stato invitato a una cena, che
loro fanno regolarmente, del gruppo dei Diversamente
Giovani di cui fa parte anche Girolamo e poi anche Pedro, un altro amico di
piazza San Gennaro, con il quale però ho perso un po' i contatti e recentemente
si è sposato per la seconda volta, a 65 anni.
CALCIO
Lo
sport dovrebbe essere un veicolo di salute e un indirizzo più sano per il
giovane che si affaccia alla vita dell’adulto. In gioventù si ha l’occasione di
rinunciare alla droga e all’alcool, di mantenere sano il corpo e magari anche
la mente. Questo non sempre avviene, naturalmente, né si può fare a meno di
notare che sono proprio i più talentosi che s’imbenzinano per bene il giorno
prima della partita, che vengono all’allenamento dopo essersi fatti una bella
canna.
Io
ho iniziato un po’ tardi, rispetto ad altri, ero già al liceo. A cominciare dal
G.S. Nove, Falco di Santa Agata, Buonsuolo, S.Mario e Flotta. Ho giocato per
anni, a fasi alterne, ma anche con buoni risultati, con un altro cervello avrei
potuto diventare un professionista, o forse anche se avessi avuto qualche
allenatore con i debiti coglioni quadrati, che ne ho sempre visti da lontano.
Mi allenavo e avevo un fisico sano, anche se, una volta incominciato a bere, da
una parte smaltivo le tossine, da quell’altra le accumulavo.
Ricordo
che una volta un massaggiatore, visto che non recuperavo da un infortunio, mi
chiese se per caso bevevo, ed io risposi di sì, ma che forse non era per caso.
VEICOLI
DI LIBERTA’
La
terza volta o la quarta, che me ne sono andato di casa è stata per vivere in
una comunità di pochi amici in città e anche se è durata poco meno di un anno
direi che è stata positiva, per capire alcune cose, confermarne altre e
lanciare nuovi interrogativi.
La
126 beige era di mamma e ho iniziato a usarla di nascosto rubandola di notte
per imparare a guidare. Una volta ho fatto diversi chilometri con il freno a
mano tirato e non riuscivo a capire perché quella macchinetta fosse diventata
tanto pigra. Per riportarla a casa, al cancello di entrata la spingevo e in
un’occasione quando uscii per aprire, la macchina spenta in folle partì nella
discesa e fu fermata sull'orlo del precipizio da un abetino provvidenziale.
Dopo
l'incidente a Vorno mio padre decise di prendere una Fiesta e dare alla Ford la
126 appena uscita dalla carrozzeria. Solo che alla carrozzeria, dove c'era lo
zio di Marzio, io avevo detto di fare un lavoro economico che tanto si sarebbe
data via in pochi giorni. Il lavoretto in effetti fu così a risparmio che il
parafango toccava la ruota e camminando portava via strisce di gomma. Appena
tornati a casa con la Fiesta nuova, dalla Ford telefonarono e gli toccò a
pagare la riparazione ben fatta, a mio padre che non sapeva niente ed era
l'onestà in persona. La Fiesta la prese mamma e io ereditai la Renault 5 blu
che era una meraviglia, la prima macchina veramente mia con il tettino
apribile, con l’adesivo grande davanti, la bocca aperta e la lingua fuori,
simbolo dei Rolling Stones. Tentammo, io e Giro, di andare in Svizzera con
quella, ma ci trovarono un pezzettino di hashish in borsa e ci mandarono
indietro. Allora non ci restò che fare la famosa cinque giorni alcolici di
Bormio, io e Girolamo durante la quale salimmo la montagna ubriachi e piantammo
la tenda davanti a un burrone, che se durante la notte ci fosse venuto in mente
di fare la pipì e fossimo usciti in piena ansia idraulica saremmo caduti giù.
Però
la 126 era stata un trattorino non indifferente, mi ricordo una spedizione
domenicale in montagna, al Casone, con un'altra 126 blu e un gruppo di ragazze
tra cui il mio primo grande amore Valeria che mi mandò a quel paese non molto
tempo dopo, nella festa dell'ultimo dell'anno a casa di Giampaolo a Buonsuolo.
Il
gruppo di tal paese a me introdotto da Martino, era composto di una masnada di
giovinotti molesti e assai uniti nel bene e nel male, ma specialmente nel male,
che d'estate facevano gavettoni a chi se ne stava seduto a parlare fuori dalle
case. Le feste a casa di Giampaolo erano belle perché aveva uno spazio a
disposizione tipo discoteca e uno stereo con i controcazzi, dischi e volontà
eccetera.
Martino
aveva una bellissima Alfetta che sapeva guidare bene assai, ricordo in Piazza
Grande scendeva con la macchina in prima e come se la presentasse al pubblico
la teneva per lo sportello camminando e docilmente girando alla tonda come si
farebbe con un cavallo o con un animale da esposizione.
Con
la 126 d'estate io e Umberto andammo sotto il ponte dell'autostrada tra Nove e
Buonsuolo per fregare un manifesto di una donna nuda che faceva il surf su una
tavola fatta a cuore. Il poster era appena attaccato sul cemento armato del
pilone e se ne venne via subito, proprio mentre stavo aprendo lo sportello e
Umberto saltava giù lasciando parte delle palle e relative bestemmie verso di
me e sullo sportello in questione.
SEDICENTE
SCRITTORE
Se
non avessero inventato i computer, probabilmente avrei smesso di scrivere, ero
troppo arruffone e discontinuo, in più facevo una vita assai sregolata. Con la
macchina da scrivere dovevo lottare per dei giorni con la stessa pagina, prima
di poterla vedere scritta, senza troppe modifiche, pasticci e cancellature,
come volevo io.
Poi,
quando era pronta, dopo essermi azzuffato fino a diventare esausto, con
grammatica, sintassi e stile, la guardavo per qualche istante e poi la dovevo
scrivere di nuovo. In quel momento l’avevo finalmente vista bene, così come non
la potevo immaginare prima e allora sorgevano subito ulteriori miglioramenti da
fare.
Il
processo si ripeteva anche con la seguente stesura, e quella dopo, che magari
poteva sembrare definitiva, ma non lo era, fino a darmi l’impressione quasi
tangibile di essere una storia infinita...
E
si trattava solo di una pagina.
Il
computer è una meraviglia, perché permette di correggere, per un numero
infinito di volte, i nostri errori e le cretinate che diciamo.
Per
carità, si stampa solo quando va tutto bene.
O
quando ci siamo veramente stufati.
QUINTA
PARTE
BERLINO
Quando ci furono i Mondiali del
1986 in Messico stavo cercando di partire per Berlino, stavo facendo un corso
di tedesco in Piazza Bernardini, poteva cominciare ma non cominciò una storia
con Beate una ragazza di Brema che viveva a Lucca. Naturalmente tifavo per la
Germania che andò in finale ma perse con l'Argentina.
Dopo anni di manovre, a Berlino
riuscii ad andarci, per vivere, solo nel 1987 e la storia con Sabine durò a
fasi alterne, ma tornai in Italia nel 1989 per pentirmene già poco dopo.
Passati pochi mesi il muro cadde e
ci fu il mondiale italiano vinto dalla Germania, ma io mi ero già stancato dei
tedeschi e delle tedesche. Oltre a Beate c'era stata anche un'avventura con
Britte di Kiel.
Tutta la passione per la Germania
e per Berlino era nata a Barabba, prima era venuto Ossie che al teatro vendeva
le bibite, noccioline e cose varie. Poi due sue amiche vennero in Italia e al
ristorante dove lavoravo e tra me e una delle due, Sabine, nacque una storia
proprio la sera prima del suo ritorno in Germania.
Partii per Berlino e non avevo
niente da perdere, pensavo, comunque era la seconda volta, cioè il secondo
tentativo. E quando avrei avuto qualcosa da perdere me ne sarei reso conto?
Comunque misi tutto quel che avevo
sulla mia Renault 5, quello che non mi interessava lo avevo già venduto, o ci
avevo almeno provato. Come i dischi in vinile, che non potevo certo portarmi
dietro, erano più di 500 e la maggior parte non mi garbava più.
Il viaggio fu difficile, con
pioggia battente per un bel pezzo e sono in tutto 1300 chilometri, ma quando
arrivai era l’ora del tramonto e c’era il sole.
Telefonai subito a chi poteva
darmi un eventuale aiuto, trovai un posto in una soffitta, un bugigattolo che
non potevo stare nemmeno in piedi, ma per dormirci era meraviglioso.
Si trattava di una comunità tutta
femminile, conoscevo due delle ragazze, un appartamento grande, edificio
vecchio, Altbau, con i soffitti alti come facevano una volta, e cinque camere,
di cui una si stava per liberare, un mese dopo.
Ovviamente se quella comunità era
tutta femminile un motivo ci doveva essere, la mia candidatura approvata da tre
su quattro signorine, fu rifiutata da quella che aveva l’ultima parola, cioè
l’affittuaria più anziana di quell’appartamento.
Comunque era già una buona cosa
avere una sistemazione provvisoria e rimasì lì finché trovai il mio
appartamento, un monolocale molto concentrato, ma ideale per me.
Cominciai a lavarmi i panni da
solo e a cucinare, cose che non avevo mai fatto e con riscontri pessimi, almeno
all'inizio. Mettevo la roba a mollo con il detersivo, poi per stanchezza o per
pigrizia, finché potevo, la lasciavo lì per settimane invece di strizzarla e
farla asciugare, cambiavo più volte l'acqua. Il risultato era che gli indumenti
se ne uscivano puzzolenti e lavati male. Mi ricordo un paio di jeans in
particolare, che rimasero anche macchiati, perché c’avevo buttato sopra
direttamente il detersivo, senza poi mischiare l'acqua.
Il
lavoro al ristorante era senza nessun giorno di riposo, una settimana turno di
mattina, poi una di sera. Le ferie non erano pagate e l'unico documento
necessario era la Carta Rossa sanitaria per chi lavora con gli alimenti (Die
Rote Karte). Naturalmente non ero assicurato, la legge tedesca su questo non
controllava e nemmeno quella italiana era stata molto rigorosa, tanto che per
me i contributi obbligatori veramente erano stati solo quelli del Caffè
Voltaire, che cercai di non pagare, ma li ho dovuti sborsare dopo con gli
interessi.
Il
rapporto con le donne anche là fu ripetuto, fugace e immaturo. Per dire questo
mi baso sull’idea comune di maturità, non che io sia d’accordo su questi
criteri.
Senza capirlo ancora bene non mi
piaceva che tante cose, anche in quello, fossero obbligate come la continuità,
importante anche per me, eppure a mio parere esagerata, comunque non decisa da
me o da nessun altro, doveva per forza essere così. Il mio atteggiamento verso
tutte le leggi scritte, orali o tacite era sempre stato da ribelle.
I
nonni morirono mentre io ero là e mi accorsi che gli avevo voluto molto bene,
quando mamma mi mandò il biglietto con le loro foto e le date di nascita e di
morte, per i funerali. Dopo una vita insieme nonno Pita era sopravvissuto solo
pochi giorni alla dipartita di lei, nonna Mina.
Sul mangiare le cose furono
migliorando lentamente, in fondo un pasto lo facevo sempre al ristorante, là si
mangiava bene e abbondante. A casa i primi sughi per la pasta erano minestrine
liofilizzate con aggiunta di panna. Poi un mio amico di Lucca venne ad abitare
da me, per qualche settimana, finché non avrebbe trovato casa. Luca mi insegnò
a cucinare qualche salsa semplice, come aglio e olio. Soprattutto mi fece
capire che l'olio per cucinare, o a maggior ragione per condire un’insalata o
una patata lessa, doveva essere quello buono italiano e extravergine. E poi il
parmigiano originale e grattato al momento, non quelle porcherie in bustina.
Il primo lavoro a Luca glielo
trovai io, come barista nel ristorante pizzeria Mariella in Uhland Strasse, del
fratello di Pasquale, uno dei due proprietari de La Marmora, dove lavoravo io.
Gaetano però, suo fratello maggiore, era un solenne imbecille, prepotente anche
in modo inutile e Luca ci resistette poco. Mi pare che dopo iniziò a fare i
massaggi di tipo Rolfing, che credo stia facendo ancora a Lucca.
FUSSBALL
Un quasi tempio del calcio, forse
meno famoso per quello, ma più per le Olimpiadi di Berlino alle quali assistè
anche Adolf Hitler, da fuori è tutto bianco di travertino, anche se a Berlino
di squadre forti non ce ne sono, o non ce ne sono mai state di fottutamente
particolari.
Una volta c'era il Tennis Borussia
di Uwe Seeler, poi l‘Hertha Berlino, al tempo in cui io ho vissuto la c'era il
Blau-Weiss che veniva dalla serie B e che noi andammo a vedere perdere in casa
quattro a uno con il Kaiserslautern, una squadra del centro sud della Germania,
a quel tempo abbastanza tosta, ora credo che sia addirittura in terza
divisione. Quella volta c’eravamo andati io e Giro ed era caldo, eravamo alla
fine dell'estate.
La seconda volta ci sono stato con
i miei colleghi della Benetton e giocava sempre il Blau-Weiss contro il Bayern
di Monaco. Era abbastanza freddo e il Blau-Weiss era un po' più forte. C'erano
anche dei giocatori stranieri un turco e un belga, e pareggiarono uno a uno, le
squadre si erano abbastanza equivalse alla fine. Per i tedeschi di Monaco segnò
Augenthaler e il mio amico grossetano prese appunti per alcuni giocatori che
potevano essere comprati dal Grosseto, all’epoca in serie C. C’eravamo fatti
anche delle canne in precedenza e poi c’eravamo anche fermati per bere qualcosa
in un bar con i tavoli in un bel giardino affollato.
Incongruenze dei ricordi: di
questa seconda partita rammento assai bene sulla metropolitana scontri senza
violenza, se non cantando gli inni delle due squadre, ma se eravamo in macchina
come sarebbe stato possibile? Se era freddo poi perché ci fermammo a bere in un
locale all’aperto e aprimmo il tettino della Mercedes?
SABINE
Non era facile da scuotere né da
impressionare, il suo comportamento ricordava molto quello di chi vive in una
dimensione parallela. Tuttavia, le cose non stavano così. O almeno non del
tutto.
Il sesso è uno dei misteri più
intriganti della natura, l’amore non c’entra niente, anzi, secondo me, marcia
al contrario. Non lo sapevo ancora che l’orgasmo era il migliore inganno che un
fantomatico dio avrebbe potuto inventare, solo per mandare avanti la specie.
Ma a me che me ne fregava della
specie?
La sua bellezza era causata anche
dalla grande quantità di corpo rosa a disposizione. Lo ammetto, ho visto il
cielo in quella stronza e ne ho perfino sentito l’odore. E poi non lo so se la
stronza è stata lei, oppure io.
Magari tutti e due.
Chissà perché solo noi italiani
immaginiamo qualcosa di angelico nelle donne, che invece sono di carne ed ossa.
Certo, era molto più bionda di ogni ragazza che avevo avuto prima, ma mi pareva
anche irresistibile che fosse totalmente impassibile a quello che le avveniva
intorno. E intorno c’erano più che altro dei ragazzotti curiosi che ronzavano
impazziti. Non mi resi conto di niente, io, finché quella sera, ubriachi, ci
trovammo a flirtare sul divano, in maniera buffa, dopo pochi minuti eravamo a
letto. Sembravamo non avere interessi d'altro genere.
Mai avuti?
Era un peccato doverci
interrompere, ma la sua amica Gunda disse che bisognava farlo. Era già mattina,
dovevano ripartire per Berlino.
Dopo qualche vacanza passata
reciprocamente a farci visita, un giorno partii deciso colla mia Renault 5,
carica di tutto quello che non ero riuscito a regalare o a vendere e salii
verso nord per traslocare in Germania.
PARTICOLARITÀ
A Berlino la cultura occidentale e
quella orientale si fondono in una atmosfera remota, eppure ancora tangibile di
guerra e distruzione, di spie e di qualcosa d’intermedio e segreto, per
arrivare al moderno di oggi, qualche annetto dopo la ricostruzione, a seguito
dei bombardamenti. Quello della comunità edilizia essenziale e funzionale, ma
anche artistica della Bauhaus, dei quartieri di casermoni con un certo
futuristico design, costruiti su progetti dei grandi architetti, come il
Gropiusstadt e poi l’Hansa Viertel fatto di edifici ognuno pensato e disegnato
dai nomi importanti dell’avanguardia.
Uno di questi aspetti del passato
che vengono dall’est è la Kachelhofen,
che esiste solo in paesi freddi, negli ex paesi comunisti di oltre cortina,
ovviamente nella stessa Russia e consiste in un enorme parallelepipedo di tre
metri di lunghezza, per due metri di altezza, per uno o più di larghezza. Cioè
a dire una monumentale stufa rivestita di mattonelle, a volte variopinte e
stampate, oppure di un unico colore, che scalda un appartamento e si alimenta
di carbone. Nelle comunità di studenti, che affittano questi grandi
appartamenti, ovviamente Altbau, cioè
vecchi edifici, ognuno con la sua camera e con i servizi in comune, spesso ce
ne è una. Ne parla lo stesso Bulgakov nel romanzo La guardia bianca e per la prima volta me lo sono trovato in uno di
quei magnifici appartamenti delle case resistite ai bombardamenti, nei quali si
vede ancora quel tipo di architettura sobria e spartana assai simile a Praga, a
Budapest e a Mosca, oltre che a Berlino.
D’estate mi trovai a passare in
macchina dal parco di Tiergarten, di fronte al Reichstag, palazzo del governo,
credo fatto costruire da Hitler. Era notte e vidi delle luci rotonde e colorate
in mezzo agli alberi. Non avevo bevuto né fumato. Mi fermai e sentii una musica
lontana che veniva proprio dalle luci ognuna di un colore diverso, in mezzo
agli alberi. Mi avvicinai seguendo la bellissima musica strumentale che veniva
da enormi casse acustiche, ognuna aveva una luce colorata rotonda in alto,
ognuna di un colore differente. C’era altra gente che si godeva quella
sensazione, mi resi conto che da ogni cassa veniva uno strumento differente,
una qualità di suono incredibile.
Lessi poi dalla rivista Tip che
recensiva o semplicemente annunciava i tanti spettacoli quotidiani della città
di Berlino che quella era una dimostrazione stabile, per una settimana, della
musica dodecafonica, 24 ore su 24.
Come in altre mie epoche la notte
era usata al massimo della sua estensione per divertirsi, a cominciare dalle
discoteche, ma poi anche girando in macchina per le vie della città e
raccattando tutti quelli che si volevano unire alla nostra allegra brigata. La
macchina di là che avevo comprato era una Mercedes, ex taxi, era abbastanza
grande quindi si caricavano su degli ubriachi e si partiva per incursioni che
potevano essere nel parco giochi per adulti, ma anche dovunque persone un po'
alticce potevano divertirsi.
D’inverno mi è capitato di fumarmi
una canna o due in concomitanza con diversi tipi di alcolici e camminare senza
meta per un viale alberato in mezzo a degli edifici alti e moderni del
quartiere di Kreuzberg, in prossimità del Muro, non lontano dal Checkpoint
Charlie. Ero abbastanza cotto ed era anche assai freddo, era notte tardi, o
quasi mattina e in giro non c’era nessuno. A un certo punto vidi un gigante
alla fine della strada, dove si allargava in una piazza.
All'epoca
per me leggere libri di Carlos Castaneda dopo una canna era regolare e
frequente. Le sue allucinazioni guidate,
nel suo caso stimolate da vari tipi di droga, favorirono quella mia del
gigante, credo in Prinzen Strasse, andando verso Moritz platz.
Non mi preoccupai, nello stato
comatoso in cui mi trovavo, di altro se non di andare a vedere da vicino.
Camminavo senza fretta in quella direzione e non mi passò nemmeno per la testa
che fosse una situazione surreale o che potesse in qualche modo essere
pericoloso. Mentre percorrevo quei cento o più metri che mi separavano dal gigante,
dentro di me formulai varie ipotesi, più o meno improbabili o demenziali, su
chi o cosa fosse quel mastodonte. L’illuminazione era scarsa, la visuale
frammentata dagli alberi e oltretutto quella creatura mostruosa rimaneva
immobile, sembrava proprio che mi stesse aspettando. Nel mio stato fuori di
testa mantenevo una certa lucidità per cui pensai che assomigliasse a un Jeeg
Robot di Acciaio o a un Atlas Ufo Robot, però con sembianze meno meccaniche e
più umane, doveva essere altro almeno una decina di metri. Non era
un’allucinazione, anche perché quelle durano poco e quello invece non aveva
nessuna fretta, mi aspettava veramente a piè fermo, là in fondo. Ci volle
qualche minuto per arrivare abbastanza vicino e capire che quella era una
statua enorme, che non avevo mai visto, perché non ero mai passato in quella
piazza. Sentii una specie di sollievo, in senso generale, me ne andai a casa e
poi tranquillamente a letto.
KLEINGARTENKOLONIEN
Da
punti di vista alti e privilegiati, passando in autobus o con la S-Bahn (la
metropolitana sopraelevata) ho notato questi appezzamenti di terreno
pianeggiante, tutti divisi in centinaia di piccoli giardini, od orti, ognuno
ben recintato, con piccoli casotti di legno annessi, qualche sedia, anche a
sdraio, qualche minuscolo tavolino. Sembrano allevamenti di piante, all'inizio,
ma un buon osservatore nota poi la differenza.
Piccoli
cipressi o tuie vengono usati, come pergole di rampicanti, per mantenere la
privacy. Si riesce a capire che cosa diavolo sono solamente dall’alto, si
diceva, passando con la macchina sulla strada, per esempio, al loro lato non si
riesce a comprendere che cosa c'è dentro questi Kleingartenkolonien e ce ne
sono a centinaia solo nel perimetro urbano di Berlino, in Germania ce ne sono
più di un milione.
Me
lo hanno spiegato dopo, si chiamano infatti Colonie di Piccoli Giardini. In
buona sostanza coloro che vivono in appartamento, che qui sono la grande
maggioranza, specialmente i pensionati, non si accontentano di passeggiare per
i numerosi parchi, ma desiderano anche coltivare e fare giardinaggio. Così in
questi pochi metri quadrati, che a occhio e croce devono essere tra i venti e i
trenta, il tedesco si può intrattenere piacevolmente, zappando e magari
bevendosi una birra ogni tanto.
Dai
nomi si capisce che alcuni appartengono alle grandi imprese, che forse li danno
al loro pensionati, non so se sono di proprietà o se sono in affitto, ma è più
probabile la seconda opzione. Alcuni sono parte di Club e associazioni.
Sono
sempre molto ordinati, gli alberelli e i cespugli sembrano tutti disciplinati e
ben pettinati. I brasiliani si sentirebbero certo in gabbia in questa
situazione figuriamoci gli italiani, ma ai tedeschi piace.
La
grandezza dei giardinetti dipende dalla disponibilità di spazio, forse quelli
di Berlino sono i più piccini, essendo stata la superficie della città limitata
dal famoso muro che la circondava.
Figurarsi che ogni albero, fuori da questi giardini era numerato.
Altrove
i Kleingartenkolonien diventano come villaggi veri e propri, fatti di piccoli
terreni tutti uguali, che circondano la grande città.
PRIMA E DOPO
Certo che scrivere era una cosa
pratica, perché si capivano cose che solo pensando non si toccavano mai.
Iniziai a rendermi conto, un po’ alla volta, che potevo farlo ovunque, bastava
una penna e un foglio. Scrivevo spesso dopo aver bevuto, allora mi venivano le
idee più bizzarre, solo recentemente mi sono reso conto che le idee vengono lo
stesso e senza bere l’organizzazione del lavoro è migliore.
All’inizio scrivevo solo a mano,
comprai la mia prima macchina da scrivere a Berlino, al Floh Markt, il
Mercatino delle Pulci, e tornai verso il mio monolocale in affitto della
Tempelherren strasse, fantasticando sul fatto quasi compiuto che la letteratura
italiana, forse allora in decadenza, stava finalmente per conoscere un nuovo
talento.
La macchina era già un simbolo, la
vedevo nei film, gli scrittori ce l’avevano tutti, l’atto di mitragliare le
lettere - anche se per me si realizzò solo molti anni dopo - era un romantico scorrere
di parole e d’immagini, avevo una fantasia parallela e spesso ben separata
dalla realtà.
Non si può dire che non scrissi
proprio niente con quella scassata portatile, che aveva quel tremendo difetto
che quando doveva battere una A entrava invece una B, e la O invece era un
grosso punto nero perfettamente rotondo, che dopo la C faceva uno spazio
automatico e indesiderato, che perdeva il margine ad ogni riga e più altre
numerose cosette di minor conto.
Fu una di quelle cose che pare che
non siano servite a niente, ma invece erano un piccolo passo avanti, un poco di
sbieco, ma verso qualcosa che intravedevo da lontano e non capivo ancora bene
com’era.
Dopo aver tentato invano, per un
po’, di usarlo così com’era, poi di aggiustarlo per alcuni giorni di lotta
furiosa e relative feroci bestemmie, quel simbolico marchingegno diventò ben
presto un autentico ammasso fumante di ferri ricurvi e inutilizzabili, almeno
per scrivere.
La testardaggine è uno dei miei
migliori difetti e certo una delle peggiori virtù che ho.
DER
KOMMISSAR
Vivevo
vicino al Muro, nel quartiere dei turchi e delle comuni studentesche. La
collina da cui prendeva nome il quartiere, si chiamava così, Kreuzberg,
Montagna della Croce, forse perché era stata fatta con il mucchio delle macerie
della guerra, in cui la città era stata praticamente rasa al suolo.
Entrai
nel ristorante La Marmora pochi giorni dopo essere arrivato a Berlino, c’era
stato un annuncio di cercasi lavapiatti e mi presentai perché sapevo poco la
lingua e per lavare i piatti non è necessario. Fu Pasquale che mi fece il
colloquio seduti a un tavolino di fronte al bar.
Mi
disse che aveva bisogno piuttosto di un barista, che il lavapiatti l'aveva già
trovato, io dissi che non sapevo molto bene la lingua, ma lui disse che non era
necessario, perché il barista del ristorante preparava le bevande, le metteva
sul banco in base a dei buoni, che i camerieri scrivevano alla cassa in
italiano. Ero ancora più contento, dissi io, perché il barista era il mio
mestiere, in Italia avevo lasciato il Caffè Voltaire in gestione, ma ero ancora
il proprietario insieme al mio socio.
Al
ristorante La Marmora, i due proprietari-camerieri, un siciliano e un
napoletano, pensavano che quello fosse il nome delle cascate umbre e le avevano
fatte disegnare sull’insegna, sui menù e sui fiammiferi pubblicitari.
La
Marmora era un generale, invece, o magari due, i fratelli Alessandro e Alfonso,
riformatori dell’esercito Sabaudo, il primo dei quali fondò il corpo dei
Bersaglieri.
Comunque fosse, mi ci feci un anno
quasi da soldato, alla Marmora, arruolato come barista, senza neanche un giorno
libero, ferie non pagate.
Le notti le trascorrevo in
discoteca. Ero giovane e pieno d’energia, avevo bisogno di scaricarla e già che
c’ero mi ci divertivo anche.
Alcuni di noi lo chiamavano
amichevolmente Cornuto, oppure Cornù,
anche se ci risultava che il Commissario, come lo chiamavano più
rispettosamente i tedeschi, non avesse moglie, chissà se ne aveva mai avuta
una.
Alla Kneipe (taverna) di fronte ci
avevano confidato che aveva fatto la guerra, che era tornato con le rotelle che
giravano con difficoltà, o a volte anche troppo rapide, insomma, che dopo non
era più stato lo stesso. Com’era stato in precedenza, però, non lo sapevano,
perché prima della guerra non abitava lì.
Passava la mattinata camminando,
girando, su e giù, avanti e indietro, quando non era troppo freddo,
appoggiandosi con un bastone, che gli serviva anche per trovare le prove di
certi misfatti che gli interessavano.
Sfilava più volte, davanti alla
vetrina del ristorante italiano La Marmora, nel quartiere berlinese di Britz,
con grande lentezza e varietà di espressioni di faccia, parlava da solo, a
volte gridava imprecazioni incomprensibili. Soleva indagare su infrazioni di
vario tipo, ma le prove erano sempre mozziconi di sigarette e bottiglie di
superalcolici vuote, di quell’acquavite tedesca a buon mercato, o di quelle
imitazioni di cognac nazionali.
Portava un cappotto lungo,
allacciato in vita, dalle tasche enormi e rigonfie di prove di quei misteriosi
atti di delinquenza, che erano poi il suo unico argomento, del quale, ogni
tanto, noi camerieri, baristi e personale vario della cucina, gli chiedevamo
informazione.
Uno dei due padroni del
ristorante, quello siciliano, quando lo vedeva lo chiamava e gli chiedeva le
novità, l’altro, il napoletano, sorrideva amaramente e scuoteva la testa
malinconico.
Der Kommissar era ogni volta
ansioso di mostrarci, in sacchettini trasparenti, quello che aveva trovato, che
accompagnava con il suo discorso da poliziotto, parlando un tedesco magari
dialettale, da una bocca assai sdentata. Frasi che noi capivamo a pezzi, più
che altro il senso, ma a volte nemmeno quello. L’evidenza delle prove era
comunque palese per tutti, perfino per gli albanesi lavapiatti che non capivano
il tedesco, né l’italiano.
Si avvicinava caracollando, ci
guardava negli occhi, tornava alla cicca sul marciapiede, sventrata con il
relativo tabacco sparso, ce la indicava con la punta del bastone, con
un’espressione eloquente di tranquillo disgusto, poi faceva una faccetta
furbesca e formulava la sua domanda retorica:
- E chi è stato?
- Maier!! Gridavamo tutti noi in
coro.
Lui faceva uno strano gesto
tremolante con la mano libera, forse per sottolineare l’assurdità della vita,
la diabolica ripetizione degli efferati eventi.
Quel Maier era proprio un
malvivente, fumava e beveva superalcolici, probabilmente tutti i giorni, aveva
ragione di credere.
Sorrideva contento ma severo,
approvava la nostra perspicacia nell’indovinare, ma lasciava intendere che non
era roba da scherzarci sopra, anzi, proprio al contrario.
A quel punto, soddisfatto sì, ma
pur sempre in diligente servizio, ci salutava militarmente e ripartiva,
rovistando con il bastone ogni ciuffo d’erba, ogni anfratto del marciapiede,
qualsiasi spazio nascosto pur piccolo.
Era sempre un certo Maier il
colpevole, ci aveva forse già spiegato più volte chi fosse, questo famigerato
Maier, o perché lo teneva d’occhio, magari eravamo noi che non avevamo capito.
Lavorai per un anno in quel
ristorante, poi un anno alla Benetton, alla fine decisi di tornarmene in
Italia.
Un giorno, sbrigate finalmente le
necessarie pratiche, andai al ristorante La Marmora per salutare i miei ex
compagni di lavoro, prima di scendere verso sud.
Mi misi a sedere a un tavolo e ordinai
una birra, mentre loro lavoravano, ogni tanto si fermavano a parlare con me, se
avevano tempo si sedevano anche per qualche minuto.
Un cameriere sardo, assai giovane
e simpatico, prima che me ne andassi mi disse che Der Kommissar era sparito,
non si vedeva più in giro, anche alla Kneipe non ne sapevano niente.
Poi gli venne in mente una cosa
importante, ma prima doveva portare quei piatti caldi al tavolo dieci, mi
intimò di non andarmene. Poi arrivò un sacco di gente, lui aveva troppo da fare
si era fatto tardi per me. Mi raggiunse vicino alla doppia porta d’uscita e mi
confidò alla svelta, carico di piatti caldi, forse un po’ più tiepidi, chi
fosse alla fine quel famigerato Maier.
Noi c’eravamo chiesti spesso chi
fosse stato, c’erano vari ubriaconi che bazzicavano sia la Kneipe che il
ristorante, ci eravamo fatti idee e ipotesi che ora si confermavano tutte
errate.
Lo aveva saputo anche lui da poco,
ma da fonti attendibili, cioè da un grasso signore che abitava nello stesso
palazzo del ristorante e che lavorava per il municipio di Britz.
Finale a sorpresa. Pare che Maier
fosse proprio lui: il commissario.”
IL DENTISTA RUSSO
“Eine secundchen!”
Un secondino, un piccolo secondo,
diceva, e poi tornava dopo un’ora e mezza. Si chiamava Rifkin ed era russo il
dentista consigliatomi da Pasquale, uno dei proprietari del ristorante. Non che
me lo avesse proprio consigliato, aveva solo detto che c’era un dentista lì
vicino.
Da solo lavorava in tre stanze e
con tre poltrone, tre clienti contemporaneamente, o forse dovrei dire pazienti,
perché di pazienza ce ne voleva assai. Un giorno sono stato là dentro da
apertura a chiusura, con la pausa per la minestrina in brodo. Era il montaggio
finale, doveva installare i miei quattro ponti.
Il
dentista era di Mosca, secondo le sue stesse parole, l’odontotecnico si
chiamava Roni, era dell’Ucraina, a quel tempo facevano parte della stessa
Unione Sovietica.
L’ambulatorio era grande e c’erano
tre stanze attrezzate per il dentista, più un grande laboratorio per
l’odontecnico.
Eravamo nel quartiere di Britz,
lontano dal centro, abbastanza popolare, ma non tra i più popolari o lontani,
c’era di peggio, dipende anche dai gusti.
L’assistente era carina e turca,
qualche volta era venuta al ristorante La Marmora, dove lavoravo, a prendere
cibo da portar via.
Oltre i dolori e i soliti guai con
i denti, da me sempre avuti ciclicamente, avevo saputo che il governo tedesco
pagava a noi gastarbeiter (lavoratori
ospiti) il 75% delle spese che non era poco.
Mi fece quattro ponti che sono
durati una trentina d’anni, l’ultimo rimasto in alto a destra ne ha
trentaquattro e funziona ancora egregiamente. Quello sotto lo sto cambiando
ora, ma il dentista brasiliano per toglierlo ha dovuto soffrire un po’, era
molto robusto, se il dente su cui appoggiava non fosse andato in carie avrebbe
potuto durare ancora.
UN RAGAZZO DI OSTUNI
Nino era un cuoco di Ostuni,
provincia di Brindisi, che arrivò alla Marmora all'improvviso e dopo poco
eravamo diventati inseparabili. Per via della sua allegria e dell'ampiezza dei
suoi interessi, era una buona compagnia.
All'inizio sembrava una persona
seria, magari perché portava gli occhiali, poi notammo che le lenti erano
sporchissime e come se non bastasse si faceva le canne durante il servizio, e
forse per un cuoco sotto stress l'uso di stupefacenti - anche leggeri - può
essere controproducente, chi ha lavorato in una cucina di ristorante capirà che
ambiente nevrotico sia e come ci sia già - a cose normali - il rischio di
rompere di testa.
Girolamo a Berlino ha lavorato con
un cuoco bresciano, in uno dei più famosi ristoranti italiani, che si faceva
perfino gli acidi durante il servizio ed era piuttosto pericoloso, non solo per
sé stesso.
Comunque in discoteca ci si
divertiva assai e poi a notte fonda, diciamo quasi mattina, ci si faceva delle
mangiate tremende per strada o a casa sua e poi si andava a letto contenti.
Nino era capace di mettersi a cucinare alle cinque di mattina e in casa aveva
ogni ben di dio. Sennò un kebab o due erano il nostro leggero spuntino, che dopo
ci si sognavano inferni di cristallo, la corrida di Pamplona o cose del genere.
Una
volta eravamo una decina, o pochi meno, e andammo in un posto dove facevano il
kebab, ma non era un chiosco, era quasi un ristorante turco che conosceva Nino
e dove fu salutato rispettosamente. Erano le quattro di mattina ed eravamo
tutti abbastanza cotti, dopo varie canne, birre e danze alla discoteca Abraxas
Lui prese le ordinazioni, tutti
kebab, ma uno senza peperoncino, uno senza cipolla, uno senza maionese e così via.
Il turco aveva preso la comanda sorridendo, davanti a noi, ma i kebab poi li
aveva fatti tutti uguali. Forse aveva perso un buon cliente come Nino, ma ci
aveva fatto divertire assai e sorridendo rispettosamente. Quando furono pronti
Nino fece una faccia delle sue, esprimendo perplessità e cose limitrofe, ma
cosa poteva fare? A quell’ora e cotti come eravamo, cosa si poteva pretendere
da uno che aveva la faccia di aver lavorato almeno dodici ore?
Quando
arrivò al ristorante Nino per fare bella figura preparò la Crudaiola: fusilli
al dente con su una splendida salsa di ortaggi crudi, parmigiano e olio
d’oliva, la quale si lasciava ad amalgamare ventiquattr’ore, prima di essere
servita. Non aveva il tempo di farla
macerare, ma era buona anche così. Sarebbe un sugo crudo, ma cucinato dal
tempo, dalla forza tutta mediterranea del basilico fresco e dell’aglio, una
salsa tanto ben calibrata che si potrebbe mettere anche sulla pizza.
Il clima
era di un ben determinato tipo, per il quale, d'inverno, per mesi, il cielo
rimaneva coperto da una cortina grigia. Avevo fatto conoscere Luca a Nino e si
erano trovati bene, scherzavano con i tedeschi dicendogli, in quella mistura di
tedesco, d’italiano e di dialetti del sud: Ao kino (cinema) dovete
andare, se volete vedere ‘o sole!
Quando comprai la Mercedes, Nino
lavorava in un magazzino di prodotti importati italiani che riforniva i
ristoranti. Lui comprò una Volkswagen Passat rossa che era già mezza distrutta
e gli si fermò definitivamente, dopo alcuni mezzi addii, sull'autostrada.
Lavorando tutti e due in cose
diurne, l'epopea dell’Abraxas era finita, nel fine settimana non ci si andava
lo stesso, avevamo perso il ritmo.
Il capo di
Nino nel deposito di alimentari importati dall’Italia era un fenomeno di
stressato piuttosto stressante. La momentanea impossibilità di sfogare la sua
iperattività sfociava in un fiume di frasi martellanti attaccate l’una
all’altra:
“Metti la
chiave, girala, si è acceso il motore? E che aspetti? E parti! La sai guidare
questa carretta? Non mi far perdere tempo! Che io tempo non ne ho, non ne ho
mai avuto e se ora anche ne avessi non lo vorrei perdere certo qui in un
posteggio… che stai aspettando?
Gira qui,
metti la freccia, c’è il semaforo, al semaforo ricordati che devi fare sempre
come me: puoi anche passare col rosso, non c’è problema, ma prima controlla se
c’è una guardia, non si sa mai. Una volta ho preso una multa, a Brescia, o era
a Bergamo… no, forse a Padova, o a Rovigo? Non ha importanza. Frena! Sei
impazzito?
E stai
attento, non ti distrarre, qui nessuno ti disturba, checché, concentrati nella
guida e non ascoltare la radio… non ascoltare nemmeno me, mi raccomando di non
guardare dalle parti, solo davanti, sempre e solo davanti, come nella vita, non
bisogna mai voltarsi indietro. Siamo arrivati, frena, metti la freccia, gira e
posteggia. Che ore si sono fatte?”
La sua
maniera di elogiare qualcuno era di dire agli altri che erano degli stronzi;
più volte, ammirando alcune sue pensate circa il rivoluzionare l’organizzazione
del servizio, oppure per via di nuove idee sulle decorazioni per la vetrina,
chiamava tutti a raccolta e iniziava a gridargli contro:
“Voi siete
dei coglioni! Mai una volta che vi prendete un’iniziativa, mai una pensata,
guardate qui, è tanto difficile fare lavorare il vostro cervello di gallina una
volta nella vita? Come potrete pretendere un giorno, di avere il vostro
negozio, se lavorate solo per i soldi, se non avete inventiva, se non cercate
di fare bene quello che fate?”
Nei primi
giorni del suo nuovo lavoro Nino, che in precedenza non l’aveva mai guidato,
buttò giù una parete con il muletto.
EMIGRANTI
I sudisti appena scesi dal treno
cominciavano a imbastardire il proprio dialetto, mischiati a tanti altri
meridionali che se ne andavano dall'Italia per trovare un lavoro, tanti che
lasciavano il calore del sud per il freddo del nord, l'amore per la propria
amara terra per una nostalgia ancora più forte, mentre se ne allontanavano.
Berlino
era una città fredda, dicevano, perché popolata principalmente da tedeschi. Il
che era verità, ma c’erano anche tante altre nazionalità e razze, provenienti
da tutte le terre emergenti dal mare, del nostro piccolo, ma formicolante
pianeta.
I miei
erano gli ultimi anni del Muro, anche se nessuno lo sospettava, la metropoli
ferveva, aveva tutto il suo bel fascino misterioso. Là il passato s'incontrava
tutti i giorni col futuro... e quello che ne usciva fuori si chiamava presente,
cosa che potrebbe succedere anche altrove, ma non sempre ci riesce. Forse-forse
perché quella Berlino, più che quella di adesso, o quella di altre epoche, era
una città che viveva ventiquattr'ore su ventiquattro, molti suoi bar e
discoteche chiudevano solo un'ora al giorno, per fare le pulizie, i ristoranti
aprivano a mezzogiorno e chiudevano a mezzanotte, alcuni rimanevano aperti
anche fino alla mattina.
A Berlino
tutto era differente per me, forse anche per il fatto singolare di essere
un'isoletta consumista nel bel mezzo del comunismo della Germania Est, anzi,
più vicina alla Polonia che alla sorella occidentale.
Una grande
città che era divisa, più che altro simbolicamente, tra Francia, Inghilterra e
Stati Uniti. Berlino Est era invece, assai meno simbolicamente, russa. A
Berlino Ovest la Germania non poteva avere esercito, visto che era occupata
dagli alleati. Una città riconosciuta come uno splendido paradiso di
tolleranza, cosmopolita e aperta, proprio perché era chiusa, strano ma vero,
un’autentica meraviglia. La presenza di un bell’arcobaleno di cittadini del
mondo, faceva sì che la vita nei locali notturni fosse movimentata e la musica
avesse il suo grande potere di aggregazione. Jazz, latina, elettronica, rock...
e, quello che era il meglio, era proprio che si suonava e pure si ballava ogni
tipo di musica. La città era assai più viva di adesso... strano a dirsi, ciò
che faceva la vivacità del luogo era proprio il muro, o meglio: le sue
impreviste conseguenze.
Un po’
come il Vesuvio che, dicono, ha reso la mentalità del napoletano spensierata,
visto che da un momento all’altro la sua vita poteva terminare sotto una colata
di lava, allora tanto valeva divertirsi, senza pensarci troppo.
Una compagnia mista di sudisti
s'incontravano al bar Italia, dove non si perdevano una partita di calcio
italiano, eravamo nel 1988 e non esisteva ancora l'internet, non so che
diavoleria di antenna avevano messo, solo per questo. Giocavano a carte e
commentavano gridando e, all’occorrenza, pure bestemmiando, tutto il
commentabile.
Non
potevano starsene sempre al bar, più che altro ci andavano durante la
settimana, la sera o quando c’era qualche avvenimento sportivo importante.
La
domenica, per esempio, la sera era d’obbligo, perché davano i gol delle partite
italiane, pochi mancavano all’appello per vedere la Domenica Sportiva, alle
dieci e trenta, e poi giù commenti infuocati e polemiche.
Erano
perlopiù pensionati che lavoravano, con poco tempo per vivere di nostalgia, ma
di una nostalgia a pancia piena, perché stavano bene, a livello di soldi, anche
se usavano lamentarsi un po’, come tutti gli italiani, forse per una mentalità
da commercianti, o meglio da mercanti, ereditata insieme alle origini del
nostro popolo.
Si diceva
che quelli che si lamentavano meglio di tutti erano gli italiani che lavoravano
veramente come commercianti, perché univano le due forze: quella della modernità
e del presente a quella della tradizione e del passato. Una malinconia basata
sulla mancanza che sentivano del proprio paese, fatta di storie vere e
inventate, esagerate o fedeli solo alla realtà di chi le raccontava, quella che
cambiava, cioè, di volta in volta.
La
domenica si trovavano, verso le tre e mezza, cioè dopo il turno del pranzo dei
rispettivi ristoranti, in piazzetta, dicevano.
È chiaro:
il modo di dire era quello paesano, ma quella era una piazzetta dentro
all'Europa Center, nello shopping, ai primi piani del grattacielo, a lato della
Gedächtnis Kirche, ovvero la Chiesa della Memoria, quella che era
stata restaurata in maniera da poter mostrare ancora i segni dei bombardamenti,
per servire come lezione, in futuro. Se Berlino era stata definita il
centro dell’Europa, quell’edificio ne rappresentava, di nome e di fatto, il
centro del centro. Ciò nonostante la domenica i negozi erano tutti chiusi e
loro dovevano stare in piedi a parlare, appoggiati ai parapetti di legno,
perché non era possibile nemmeno sedersi.
Erano una
decina di italianacci che avevano navigato nello spazio e nel tempo, attraverso
il bene e il male, in povertà e solo dopo in ricchezza eccetera, eccetera.
Nelle domeniche buone erano perfino in quindici, venivano dalle Puglie, dalla
Basilicata, dalla Campania, dagli Abruzzi, dalla Calabria e dalla Sicilia,
qualcuno anche dalla Sardegna.
In genere
gli italiani, là a Berlino, vivevano nel loro mondo all'interno di quello degli
altri, con le loro preferenze e conoscenze, generalmente di stampo italiano,
per non voler dire meridionali.
Nel migliore dei casi usavano il sowieso nel senso di sicuramente,
invece voleva dire in ogni maniera, ma tra gli italiani dei ristoranti
quella parola tedesca, da loro molto usata, aveva cambiato, come altre,
leggermente, il suo significato originale.
La maggior parte parlava male perfino l’italiano, figuriamoci il
tedesco. Alcuni dopo una vita, frequentandosi tra di loro, lavorando in cucina,
non lo masticavano per niente.
Mi ricordo
un riccioluto e vecchio cuoco di Pacentro, provincia dell’Aquila, diceva che
stava con una polacca e ci stava pure
‘bbene, ma non la chiamava mai per nome, era solo e sempre La Polacca. Mi chiedevo come
s’intendevano, da trent’anni a Berlino, parlava solo il dialetto e anche io
quasi non lo capivo quando parlava. Un calabrese socio del ristorante
Monsignore, aveva trovato un sistema per vincere alla roulette, però non lo
aveva ancora provato, lo stava perfezionando e intanto lo prendevano tutti in
giro.
Mi
affascinava sentire certe cose strane che non avevo mai udito in Italia, o
anche fuori, cose che non avrei mai avuto occasione di venire a conoscere in
altra maniera, che rappresentavano per me un universo a volte anche volgare,
sì, ma fantastico. La commedia della vita, più scherzosa, paesana e meridionale
di quella che vivevamo al presente, a Berlino, che era invece una metropoli
straniera, fredda e teutonica.
Sia al ristorante pizzeria La
Marmora che alla Benetton io ci stavo bene, essendo una specie di jolly, stavo in magazzino, o in un
negozio tra i vari che c'erano. Ogni tanto uno apriva e un altro chiudeva, ma
non arrivavano mai alla decina. Io stavo dove c'era bisogno, facevo spostamenti
di merci da uno all'altro e la sera andavo a letto presto. Bevevo meno e fumavo
raramente.
Alla Benetton erano quasi tutti
del nord, i pochi italiani che c’erano, più facilmente del Veneto, a differenza
dei ristoranti che erano appannaggio del sud.
Negli europei, vinti dall'Olanda
mi trovai a fare un tifo indiavolato per l'Italia, da fuori le si vuole più
bene che dentro, anche se poi il calcio è simbolico e rappresenta ma non troppo
una nazione. In quell’epoca successe anche che vincessimo tutte e tre le coppe
europee, cosa mai successa, gli stranieri migliori erano tutti in Italia, poi
si sono spostati in Spagna e dopo in Inghilterra.
Cominciai a pensare al relativo
patriottismo moderno che questionavo sempre più in maniera critica, un
meccanismo necessario per eventuali guerre. Riflettendo anche più compiutamente
qua in Brasile, se mi avessero richiamato non avrei risposto, per ovvi motivi e
tra gli italiani che perlopiù ho incontrato, sia in Germania che in Brasile, il
parere era lo stesso. La maggior parte era emigrata per mancanza di
opportunità, e per gli stessi motivi, mi sentivo come loro. Se fossimo stati
bene saremmo volentieri rimasti a casa.
I padroni dei ristoranti sognavano
di tornare in Sicilia, in Campania, in Sardegna, in Calabria e in Abruzzo con i
soldi fatti lì, qualcuno c'è anche riuscito, ma molti si sono abituati alla
vita del posto, anche se piuttosto differente da quella dell’Italia del sud e
si sono sistemati con la relativa famiglia, qui o là, in tanti e diversi luoghi
del mondo emerso. La famiglia per me è sempre sembrata un miraggio che
inseguivo con progressiva scarsa convinzione.
KREUZBERG
Passato da quella ristorazione
alla Benetton, a fare il magazziniere, all’occorrenza stavo in negozio, alla
cassa oppure tenevo la contabilità, a volte perfino le statistiche.
Ero l’unico che aveva la voglia,
la capacità e la necessaria indecisione per imparare tutti i lavori
disponibili. Gli altri, specie le reclute in perenne arrivo e partenza, non
resistevano molto alla musica alta tutto il giorno, a quel tipo di lavoro
ripetitivo. Fare il commesso alla Benetton dava una, magari poco comune, ma
assai tangibile e dolorosa sensazione di inutilità.
Chiaro che all’inizio tutti
adoravano ballare e piegare i vestiti a tempo di musica, ma la gioia passava in
un’ora o due. Non duravano una settimana, alcuni scappavano terrorizzati, non
tornavano nemmeno a prendere i soldi guadagnati.
Io non solo resistevo, ma tappavo
ogni buco che poteva presentarsi e non protestavo, perché cambiare mi piaceva e
mi piace ancora. In un anno di lavoro mai un’assenza, mai arrivato in ritardo.
Però quando mio padre si ammalò,
anche se pensavo di non amarlo troppo, in un istante decisi di piantare tutto e
di tornarmene a casa.
Nella società berlinese di quegli
anni, la residenza era legata al lavoro, al permesso di permanenza e tutto si
chiudeva in un circolo che bisognava aprire con una certa pianificazione e non
da un momento all’altro. Oltretutto per portarmi a casa la mia Mercedes diesel,
ex taxi, dovevo fissare un’ispezione di controllo e ottenere i documenti per
l’esportazione, che mi sarebbero serviti in Italia per immatricolarla.
Mi vergognavo di tornare al
lavoro, o anche solo di telefonare per avvisare, o di desistere semplicemente
da quel progetto basato sulla mancanza totale di effettiva pianificazione.
Intanto, mentre mi scervellavo per trovare un modo, non ero andato a lavorare,
non avevo avvisato nessuno, non avevo risposto al telefono per giorni.
Giorni passati da solo, tagliando
fuori anche gli amici, parlando unicamente altre due volte al telefono con
l'Italia, per sapere le ultime notizie su mio padre.
La situazione al Quercione non era
migliorata.
Intanto avevo abbandonato anche le
fondamentali pratiche di sopravvivenza, stavo tornando verso casa esausto, dopo
ore di ossessivi ed inutili pensieri, senza mangiare né bere per ore, incapace
di capire cosa avrei dovuto fare.
Erano le sette ed era già buio, mi
trascinai verso casa ubriaco di silenzio, di un eccesso traboccante di parole
non dette e di tante, o forse troppe, solo pensate ad alta voce.
Da lontano vidi che proprio nella
mia strada, la Tempelherren strasse, c’era un camion dei pompieri che puntava
la scaletta verso un punto che pareva assai vicino al mio edificio.
Passo dopo passo vidi che era
proprio il mio.
Avvicinandomi incuriosito notai
che c’era un sacco di gente che da sotto guardava verso la scala protesa, sulla
quale un pompiere si stava arrampicando in direzione di una finestra, che
pareva proprio all’altezza della mia, unica e grande, del mio appartamento di
una sola stanza, più angolo cottura e bagno.
Il mio stato di trance m’impedì di
vedere la situazione in maniera razionale, ma ora ero sicuro che fosse la mia
finestra... un qualcosa attaccato al soffitto pendeva, al di là delle tende,
illuminato dal faro potente dei pompieri.
Per
qualche secondo vidi il mio corpo impiccato, come se potessi vedermi dal fuori,
effimero ed ultimo privilegio di una vittima del mondo, della società, della
situazione, oppure di me stesso.
Una
cinquantina di persone attorno, faceva commenti che captavo qua e là, a pezzi.
...
non rispondeva alle chiamate...
...
tanto un bravo ragazzo...
...
per questo si sono impensieriti...
...
non era mai mancato al lavoro...
...
da giorni era assente e non aveva telefonato...
A
Berlino la percentuale di suicidi era tra i primi posti nel mondo, specialmente
la domenica, nei giorni di festa la solitudine mieteva più vittime. Io ero uno
in più, con il mio spettacolare togliermi di mezzo di nascosto avevo catturato
non solo l’immaginario collettivo, intorno a me, ma anche la mia mente e il mio
cuore ci si erano completamente immedesimati. Quella sagoma appesa oltre la
tenda faceva pensare ad un impiccato col collo reclinato, le gambe rigide e
leggermente allargate.
Qualcuno
ha detto che il tempo si misura con i battiti del cuore, non con l'orologio.
Infatti passarono solo pochi secondi, forse un minuto, dilatato dallo
smarrimento.
Poi
la mia razionalità riemerse di schianto, nell’attimo in cui capii, non che
quello non potevo essere io, perché ero lì sotto in mezzo alla gente... no di
sicuro, ma mi ero ricordato improvvisamente che avevo incassato l’una sopra
l’altra le sedie bianche di plastica da giardino, le avevo appese al posto del
lampadario, che poi non c’era mai stato, solo per guadagnare spazio. Quelle tre
le usavo solo quando ricevevo ospiti, cioè quasi mai, normalmente me ne bastava
una.
Scossi
la testa come per liberarmi definitivamente da quel pensiero morboso e vidi che
proprio accanto a me c’era la sostituta dirigente della Benetton, da pochi
giorni a Berlino per via di una crisi della società. Lei mi guardò, prima senza
riconoscermi, poi rivolse di nuovo lo sguardo verso di me, registrò l'accaduto
o meglio: quello che non era accaduto.
Poi
chiamò i pompieri dicendo:
“Possiamo
sospendere, è qui, è questo qui...”
Dopo
un attimo di smarrimento, la gente, i pompieri stessi e gli altri compagni di
lavoro si dimostrarono contenti, che fossi vivo. Anch’io mi sorpresi a gioirne,
come se me ne fossi accorto in quel momento, che ero ancora vivo, dopo alcuni
minuti di limbo.
Mi
fecero promettere di non farlo mai più, mi spiegarono che normalmente avrei
dovuto pagare una multa, perché tutto ha un costo al mondo, anche un’emergenza
dei pompieri aveva il suo cartellino col prezzo attaccato.
Poi
la folla si disperse.
Il
giorno dopo tornai a lavorare e sbrigate le pratiche necessarie, giacché ero
tornato di nuovo tra i vivi, me ne scesi in Italia dopo qualche mese. Mio padre
stava meglio e la vita mi parve migliore, come se il privilegio di poter
osservare la mia morte dall'esterno mi avesse fatto diventare più saggio,
almeno un po’ meno ingenuo.
Ero
arrivato a Berlino e me ne sono tornato in Italia nello stesso periodo
dell'anno, a giugno. Nel secondo caso, alla fine dell'autunno, il Muro è
caduto.
FILOSOFIA
La
mia vita fuori dal lavoro era piena di ritmo: tutte le sere bevevo, ballavo e
rimorchiavo in discoteca, di solito all’Abraxas, sulla Kant Strasse. Era un
posto piccolo, scuro, pieno di cimeli del passato: strumenti musicali,
fotografie e dischi di vinile attaccati al muro, ma con della musica veramente
bella. Davano anche Take Five di Dave
Brubeck e roba dei Santana, di Pino Daniele e Sergio Caputo. Era sempre pieno
di gente da scoppiare.
Abraxas
di cui si parla anche nel libro Il Lupo
della Steppa di Hermann Hesse era un Dio che non separava così nettamente,
come il nostro, il bene dal male e questo mi sembrava più giusto ed efficace
per stare al mondo. Inoltre era un bellissimo disco dei Santana.
«Ciò che Abraxas pronuncia è quella veneranda e
maledetta parola che è vita e morte al tempo stesso. Abraxas dice verità e
menzogna, bene e male, luce e tenebra in una sola parola. Egli è la Pienezza
che si fa uno con il Vuoto. È le Nozze Sante. Dio dimora nel Sole, il Diavolo
nella notte. Ciò che Dio trae dalla luce, il Diavolo lo rigetta nella notte:
ma Abraxas è il mondo, il suo prodursi e il suo svanire.» |
(Carl Gustav Jung, Sette
discorsi ai morti, 1916) |
Abbracciai
questa concezione nuova, non la sposai, poiché ne ero incapace, mi ci fidanzai,
perché mi fece inconsciamente da potenziale manifesto per il futuro.
Ero scontento della nostra
religione cattolica, troppo rigida e anacronistica, secondo la quale tutto
quello che è permesso è obbligatorio e il resto è proibito. La gente aveva già
troppi problemi per sopravvivere dignitosamente, per accollarsi un’ulteriore
matassa di regole inutili se non dannose.
La nostra vita è - per modo di
dire - adagiata su un tapis roulant di cambiamento continuo, se il cambiamento
non c’è invece si arrotola tutto e si sbanda. Un macello. Mantenersi in
movimento è importante e decisivo ma non basta, se non seguiamo un senso
efficace, siamo solo stressati e nervosi.
È forse come un animale feroce
quello che noi cerchiamo di cavalcare, veramente difficile dirigerlo dove
vogliamo e poi bisognerebbe sapere cosa desideriamo per il nostro oggi che
corre, ed è già domani e solo quello è un cimento proibitivo. Siamo piccoli e
pieni di limiti, cerchiamo di imitarci a vicenda, ma non abbiamo idea di cosa
facciamo.
Uno grande, di cambiamenti, fu
quello che Sabine, il mio grande amore tedesco, mi indusse a considerare il
nobile lavorare meno possibile. Il
secondo fu la non competitività appresa in India, ma solo in seguito. Non a
caso due cose che andavano contro la mentalità applicata dai più, senza mettere
mai in discussione che fosse sempre meglio aggiungere e mai sottrarre,
accumulando montagne di cose faticose, inutili e alla fine negative, per il
loro eccessivo andare in un senso unico non scelto, ma solo subìto.
È improbabile non farsi distrarre
da tutto quello che ci piove addosso, nella vita riuscire a scegliere è un
esercizio difficilotto per tutti, proprio perché ogni cosa attorno a noi ci
spinge o ci frena, quando e dove meno possiamo porci rimedio.
Siamo
troppo spesso in balia della corrente e quella ci porta dove vuole lei, non
dove vogliamo noi. Il libero arbitrio è una cosa abbastanza ribelle. Sì, è vero
che c'è anche il destino, però in cospicua parte possiamo scegliere, sempre che
siamo ragionevolmente sicuri di quello che stiamo facendo e che la nostra
camminata non significhi poi una sola soluzione, ci possono essere tante
variazioni e tanti cambiamenti che non erano preventivati.
AUTOMOBILI E LIBERTA’
Mio padre
mi prendeva in giro perché in macchina accendevo prima l’autoradio e poi il
motore. Una volta in marcia mi godevo la musica più che a casa, o in altre
situazioni della giornata. Nell'epoca di Sabine c'erano i Simple Minds e i
Simply Red, gli ABC, Anna Domino, i Roxy Music. A Berlino i Bap, Ulla Meinecke,
gli Spliff, e poi Nina Hagen. Dopo la mia breve amicizia con Vicky, uno dei
pochi berlinesi originali conosciuti, la canzone Wish You Were Here degli
Immaculate Fools.
Il disco Music for your pleasure, dei Roxy Music,
fu colonna sonora di un incontro con un'amica svedese di Sabine, a casa sua, in
particolare la canzone era In every dream
home a heartache. Quella era un’infermiera fuori di testa e aveva fatto
diversi servizi attaccati, per accumulare giorni liberi. Senza dire niente,
aveva messo una qualche droga nel caffellatte e io credevo di capire il
tedesco, cosa impossibile a quell’epoca, per cui mi convinsi che parlassero
male di me e mi arrabbiai con Sabine. Nella confusione sbagliammo il metrò e
passammo nelle spettrali stazioni abbandonate della DDR, decadenti e popolate
solo dalla polizia e poi, quando cominciai a riprendermi, eravamo seduti sotto
la pioggia in un parco, non mi ricordo dove, mi sembra nel quartiere di Moabit
dove abitava la sua amica Gunda.
Con i
Tangerine Dream mi garbava guidare, forse perché la musica accompagnava il
ritmo del motore, le cose che passavano rapide oltre il parabrezza dell'ex taxi
beige. Mi ricordo in particolare un viaggio di andata verso l'Italia in cui, in
Germania Est, quella musica sembrava veramente surreale, fatta a posta.
Se avere un’automobile per me
rappresentò una bandiera di libertà, andare a vivere a Berlino ne fu un'altra,
meno simbolica e assai più concreta. Là potevo essere aiutato ancora meno dai
genitori e dovevo arrangiarmi un po' su tutto.
D’accordo,
non bisogna darle troppa importanza, ma quando sei giovane ti da’ un’idea di
libertà che potrà essere facilmente provata e ripetuta. Forse un’illusione, che
si possa andare dovunque e comunque, dipende da tante altre cose, ma ci vuole
anche e soprattutto il coraggio di fare il primo passo, o il primo giro di
ruote.
Con la
macchina ci ho fatto dei viaggi di migliaia di chilometri e spesso anche da
solo, magari mi annoiavo, ma avevo la sensazione di avere una specie di
controllo sulla mia rotta, coscienza della mia destinazione o destino insomma,
di sapere dove stavo andando. Qualche volta era solo apparente, d’accordo, però
è importante per poter comprendere e poi dimostrare a noi stessi che non siamo
in una specie di acquario, come a volte sembra, bello da vedersi, ma con dei
vetri in mezzo che c’impediscono di interferire e se si rompono quelli cade
tutto giù, come i pesciolini, si smette di respirare e si muore.
Con
la Mercedes diesel beige con il cambio automatico, ex taxi a Berlino, ci ho
fatto egregiamente viaggi non indifferenti. Con la seconda Mercedes, comprata
usata alla Renault del Berutto mentre stava quasi chiudendo i battenti, ci sono
andato in Spagna e Portogallo, da quel viaggio indirettamente è cominciata la
mia epopea brasileira.
La
vecchia Peugeot bianca è stata una macchinina costata quasi nulla, ma che non
mi ha fatto godere proprio niente, tenuta poco e sostituita dalla Panda di
famiglia, quella sì che era un gioiellino.
RITORNO
Quello che fu importante poi era
che avevo provato con relativo successo a vivere fuori dall'Italia, mi ero
destreggiato piuttosto bene e mi ero mantenuto con il mio lavoro. Le amicizie
italiane erano state un po' distanziate, la famiglia anche. Il mio senso della
vita finalmente pareva il mantenersi attivi, in movimento insomma, non farsi crescere il muschio sui ginocchi
era il motto, e non le ginocchia.
Parlavo
l'inglese e il tedesco, portai a Lucca la Mercedes beige ex taxi che avevo
comprato da Pasquale, napoletano padrone del ristorante La Marmora, dove avevo
lavorato per un anno. Poi avevo fatto il jolly alla Benetton e nel mezzo avevo
consegnato i giornali di notte per il Berliner Morgenpost. Il Caffè Voltaire
era in gestione, ma quando finì dovemmo ritornare a lavorare lì, dopo un po'
liquidai il mio socio e rimasi da solo, nel frattempo c'era stata una storia
importante con Mariana, ma nel 1993 riuscii a vendere a cambiali e feci un giro
per l'Europa con Victorinho, primo brasiliano conosciuto in vacanza in
Portogallo.
SESTA
PARTE
DALLA
GERMANIA AL BRASILE
Al ritorno dalla Germania diverse cose erano cambiate.
Se in un primo momento mi ero assoggettato a starmene al Quercione dai miei,
intravidi l'occasione appena venduto il Caffè Voltaire e me ne andai a vivere a
Viareggio, nel loro piccolo appartamento, ma con un grande terrazzo, dove feci
alcune feste prontamente rintuzzate dalla polizia, chiamata dai vicini.
Non capivo ancora, o ritenevo più opportuno ignorare,
nella pratica quotidiana, che la mia libertà finiva dove cominciava quella
degli altri, anche se erano dei vecchietti rincoglioniti. Se non altro perché
un giorno io sarei diventato uno di loro e ora mentre scrivo non ci sono tanto
lontano.
L'amicizia con Aldo fu riallacciata, anche se ci
vedevamo raramente, lo stesso quella con Martino, ma quella con Rinaldo no,
forse era ancora presto.
Usai
per un buon tempo la macchina da scrivere di mio padre, una Olivetti. Chissà se
ora gli piacerebbe quello che faccio ora, a quel tempo no. Si sforzava invano
di cercare di capire cosa significava, a quei tempi, ma non è stato per caso
che io abbia pubblicato i miei primi libri solo dopo la sua morte. Temevo
troppo il suo giudizio, il suo pessimismo mio malgrado un po’ ereditato come
stile di vita.
Nel
1991 iniziai a scrivere con il computer di mio fratello Umberto, mi ero appena
lasciato da una delle mie ragazze più durevoli, avevo abbastanza tempo di
giorno, di notte lavoravo al Caffè Voltaire. A Viareggio comprai un portatile
usato che durò pochissimo, ma stavo scrivendo anche quasi niente.
Quando
partii militare ero un bambinone viziato e stupido, dieci anni dopo non ero
certo un filosofo, ma iniziavo a capire che una certa disciplina nella vita è
necessaria.
Ero
andato a vivere, prima a Lucca, poi a Berlino, poi ero ritornato a casa, nel
giugno del 1989, l’anno in cui cadde il Muro, ma già a novembre non ci
resistevo più.
Per
tanti anni con i vecchi amici dell’infanzia non mi sono incontrato, nemmeno per
caso.
Roberto
perse quasi subito il suo lavoro di meccanico alla Peugeot, a suo tempo
fallita, ma secondo me è stata la sua fortuna, perché si è messo a fare il
falegname con suo padre, ereditandone anche il soprannome: l’impiegato.
(Si
narra che il padre, bell’uomo di poche parole, mentì alla sua amante che era un
impiegato, forse anche statale, insomma un tipo stabile, uno stipendio sicuro.)
Allora
ha fatto una vita libera, unico operaio-padrone della sua ditta, proprietario del suo naso, come si dice
in Brasile. Di falegnami in Italia ce ne sono rimasti sempre più pochi e se
volevi riparare qualcosa dovevi aspettare, lui non ha mai avuto eccessiva
fretta e da poco è andato in pensione assai contento.
Girolamo aveva preso un ristorante a Canaiola, sulle
colline e ci andavo spesso. Lì c'era una cameriera, Mariana, con la quale
cominciò una storia tra le più importanti, solo che me ne resi conto dopo.
Sarei potuto rimanere con lei per sempre, mi ci trovavo bene, ma era proprio su
me stesso che non potevo contare, ero troppo ribelle anche per un rapporto a
due, per lo meno come veniva comunemente inteso.
Rinaldo
ha mantenuto fino ad andare in pensione il suo lavoro alla pressa, per fare
suole e tomaie per una piccola fabbrica di scarpe. Ha fatto per un po’ di tempo
i mercatini nei fine-settimana comprando e vendendo orologi per varie città
italiane.
Mauro
era socio in una palestra a Pontecchio essendo professore di ginnastica.
Martino era al Club Campagna di Apparso, vicino al confine del territorio di
Lucca. Faceva il factotum, dalla reception alla cucina, dalla piscina al
maneggio, Marzio forse stava facendo un corso negli Stati Uniti. Lui e Aldo si
erano laureati in Veterinaria, se non sbaglio.
In
un periodo non precisato per rimorchiare certe ragazze, dicevo anch’io che ero
all’università, invece stavo lavorando. Principalmente nell’epoca delle vacanze
estive a Bibbona, insieme ad Aldo, che mi diceva cosa dovevo raccontare, degli
esami e cose del genere.
MIO
PADRE
Mi pento e mi dolgo di aver - seppur di nascosto -
preso in giro mio padre per la sua scarsa affinità con i berretti, ma forse
dovrei dire berette, come si dice a
Marilia e in tutto il Capannorese. La mia somiglianza anche caratteriale (non
direi fisica, forse solo nella faccia, perché io sono molto più alto e lui era
assai meno atletico) si è accentuata con il passare degli anni e la forma della
testa, da ovale… a molto ovale. Quindi sempre meno combina con le berrette di
ogni tipo e la maledizione, forse anche per colpa o merito mio, mi ha colpito.
Ora ogni tipo di copricapo mi sta male e qualcuno peggio.
Mio padre guardava Derrick tutte le sere alle
diciannove, alla stessa ora poi c’è stato un altro tedesco, più simpatico, che
di faccia assomigliava assai a papà e portava degli occhiali simili a due
piazze, da mafioso fuori moda, il commissario Köster. Il Maresciallo Rocca c’è stato più tardi, e poi
era solo una volta alla settimana, e quello lo guardava anche mamma, per via di
Gigi Proietti, che a Viterbo, in mezzo a sistematiche tragedie purtroppo umane
e a volte perfino disumane, non perdeva il suo buonumore e trovava la maniera
di fare delle battute come questa:
“Lo
sai perché i gatti quando li accarezzi sulla schiena alzano la coda?”
“No,
perché?”
“Per
avvisare: fine der gatto!”
Mio
padre è morto nel 1996, non ha fatto in tempo a venirmi a trovare in Brasile,
né a vedere il Commissario Montalbano, che è stato trasmesso solo a partire dal
1999, ma ho motivo di credere che gli sarebbe piaciuto.
Anche volendo a Berlino non ci sarei potuto rimanere,
perché bisognava ritornare al Caffè Voltaire, dato per due anni in gestione a
uno che se gli piaceva poi lo avrebbe comprato.
E non gli era piaciuto.
COME
INIZIAI A FARE L’INDIANO
Nel
1993 le vacanze in India mi hanno portato una finestra nuova, che ho scavalcato
immediatamente. La non competitività era una cosa che ne spiegava tante altre
ed era molto più pratica e intelligente di tutto quello che avevo provato e
vissuto nel mondo occidentale, competitivo su tutto e per tutto, anche quando
non ce n'era nessuna utilità. Un sistema di vita troppo diffuso, quanto
inefficace e frustrante.
Si
pensa che l’uomo debba rincorrersi la coda, sennò s’impigrisce e non produce.
Forse è anche vero, con alcune persone, ma molte altre si accodano, vanno
dietro a qualcosa che non capiscono ma si adeguano. Tutta questa produzione è
fine a sé stessa, per stare bene sono necessarie altre cose, che invece si
perdono di vista sempre di più.
Non
era passato molto tempo dalla fine della prima Guerra del Golfo, noi tre
avevamo preso un volo che faceva scalo nel Kuwait; per questo eventuale
rischio, costava molto meno e in più, dall’alto, si potevano vedere ancora i
pozzi bruciare e tanti i crateri delle bombe.
Mi
trovavo in viaggio per l’India insieme a un mio amico, Dino e a sua moglie,
appena usciti da un centro di riabilitazione per tossicodipendenti.
Facemmo
vita di albergo in un sedicente
quanto decadente hotel di Connaught Place di Nuova Delhi, che, secondo Dino,
significava girare per le camere di amici e/o conoscenti e farsi ripetute
canne, o sennò chilum, insomma bonghetti e cose di questo genere, che quindici
giorni mi parvero una manciata di secondi.
Fummo
invitati da questo signore di cui non ricordo, date le nostre meravigliose
pratiche religiose, né il nome vero, né quello fittizio indiano. Non ascoltavo
neppure, se ben mi rammento, quando loro parlavano, assai assorbito com’ero dal
pulsare dei colori, degli oggetti, delle persone e animali che andavano e
venivano dentro di quello che pareva un sogno, con i ricordi e i pensieri
connessi e mischiati, passato, presente e futuro... ma in maniera piacevole. Da
notare la squisita persona del guru in questione seduto sul letto, ma non nella
posizione del loto, come ci si potrebbe altrimenti immaginare.
Durante
quella lunga conversazione, per accompagnare gli additivi fumiganti e preparati
dal mio amico, non mosse mai un muscolo che non fossero quei pochi della bocca,
ma anche quelli, devo dire mio malgrado, il minimo possibile per parlare,
eppure in maniera armoniosa e naturale.
Certo,
senza essere visti, si muovevano pure qualche timpano e relativi ossicini
appositi all’udito, dentro alle sue orecchie, ma lui era assolutamente
rilassato e lo si capiva dal fatto che se ne stava lì completamente immobile,
senza magari ruotare gli occhi intorno, per esempio.
Noi
tre invece no: i nostri corpi non si fermavano un secondo, in aggiunta alle
nostre instancabili pupille, sgambettavamo come bambini la cui energia
traboccante non poteva proprio essere placata.
Questo
sacerdote indù di religione, ma romano di origine, anche dopo le ripetute e per
noi devastanti fumate, sembrava sorprendentemente uguale a prima, mentre noi
eravamo stravolti e sudati come tacchini allo spiedo.
Con
quel guru lì, mi resi conto, faceva bene a tutti parlare, anche solo guardare e
essere guardati, come avevo fatto io per qualche volta, anche nei giorni
seguenti, senza proferire troppe parole.
Faceva
bene specialmente alla gente stressata che era abituata a gesticolare, come
comitiva di mulini a vento impazziti, a strizzare gli occhi e ad avere tic
nervosi a profusione, senza farci troppo caso e/o potersi controllare in minima
parte.
Quando
parlavi tu, lui ti ascoltava con interesse, senza interromperti, che è una cosa
rara al mondo, quando parlava lui, ti veniva da ascoltarlo veramente, le cose
che diceva erano belle e semplici, in più le accompagnava con una faccia che
combinava, pure.
A
proposito di gente forsennata, incontrammo un’italiana fuori di testa, assai
atteggiata a profonda e calma meditatrice, ma nervosa e tesa come una corda
d’arco.
Questo
però fu dopo, a Benares, detta anche Varanasi, Vanarasi, Banaras, Baranas più un’altra decina di nomi simili e
graziosamente anagrammati, che poi è un’unica e famosa città sacra sul Gange,
pure fiume sacro, dove gli indiani vengono da lontano per morire e ogni tanto
si vede qualche cadavere a sedere ritto, in decomposizione avanzata, passare
sulle acque limacciose.
Loro
quell’acqua lì se la bevono anche, sono diffuse a livello endemico malattie
come epatite B, tifo e colera. Noi di fuori non possiamo bere l’acqua del
rubinetto, solo in bottiglia e non ci si deve azzardare a mangiare verdure
crude.
Avevo
saputo, che questa ragazza, all’ingresso del centro di preghiera sulle pendici
dell’Himalaya che loro frequentavano periodicamente, non era stata neppure
lasciata entrare, giacché poteva influenzare gli altri con i suoi vari e
intermittenti attacchi d’ansia, tic, scatti, movimenti convulsi.
Avrebbe
certo potuto intaccare e danneggiare il sistema di pace e orazioni calate in
una dimensione di meravigliosa e giusta fuga dal mondo occidentale.
Una
volta, in Italia, almeno una decina di anni prima, sono stato una settimana in
un appartamento del litorale toscano durante l’inverno, avevo fatto la spesa,
non c’era nessuno e io volevo scrivere.
Dopo
sette giorni senza parlare, tornando verso casa, mi sono fermato a fare rifornimento
per la mia Renault 5.
Quando
è arrivato il benzinaio, per qualche lunghissimo secondo, non sono riuscito a
parlare, mi pareva di essere diventato muto, mi sono anche spaventato... poi,
un poco alla volta, quasi come se fossero state anchilosate, informicolite e
appiccicate l’una all’altra, sono uscite faticosamente le prime parole.
Mi
ha fatto riflettere questo fottutissimo guru romano, al quale avevano imposto
un anno di silenzio, per raggiungere la sua calma interiore, per poi diventare
un sacerdote del Buddha. Non deve essere stato facile, sebbene io non sia tra
gli esseri umani più loquaci, non credo che ci sarei riuscito. Quello che
rappresentava era forse l’opposto di questo rumorosissimo mondo occidentale,
dove tutti parlano e nessuno ascolta.
Per
chi non lo sapesse, c’è da dire che, in India, i sopracitati additivi hanno una
funzione preparatoria per le cerimonie dei sacerdoti e relativi devoti. Però al
ritorno a Lucca rimasi seduto sul vaso sanitario per un mese.
CUOCHI
Ho
letto da qualche parte che lo scrivere è un'attività dissociativa, più che
unire separa la gente. Ignari si comincia a battere sui tasti, mitragliando
vocali e consonanti e ce ne andiamo via col proprio cervello e cuore, da
un'altra parte, non importa dove. Eppure, da quando scrivo, mi sento coi piedi
per terra, ben piazzato nel mezzo di questa realtà instabile e confusa del
mondo moderno. Se a volte m’inceppo per qualche mese, poi inevitabilmente
riparto.
Qua
in Brasile, ho pubblicato due libri e un CD multimedia, in lingua italiana,
guadagnando anche un qualcosetta di soldi. Conosco gente di tutti i tipi e di
varie nazionalità, ho una lista di una cinquantina d'indirizzi e-mail. Mando
quello che scrivo, ansiosamente, che a volte non è ancora terminato, attraverso
l'internet. So che dall'altra parte del filo l'ansia non è la stessa, la gente
deve lavorare e darsi da fare per tante altre cose.
Tanti
non hanno l'abitudine di leggere, alcuni non ne hanno la forza, la sera, dopo
il lavoro, nei fine-settimana hanno tante altre cose arretrate da sbrigare. Tra
tutti i miei potenziali lettori sparsi per il mondo, mi sono reso conto che la
categoria più rappresentata è quella dei cuochi, pure quasi sempre italiani e
non molto avvezzi alla posta elettronica.
Un
italiano che vuol viaggiare, ha un grande vantaggio, rispetto - per esempio -
ad un inglese: può adottare il ristorantino tipico come base logistica
onnipresente. Non saprei dire dove non ce ne sono e anche se lo sapessi,
magari, in questo momento ce ne starebbero costruendo uno o due a tradimento.
A
Berlino, dove ho conosciuto questo cuoco, involontario protagonista della
storia, nel 1988, ce ne erano la bellezza di 800, ma non tutti erano gestiti da
italiani.
Ho
visto con i miei occhi e perfino assaporato specialità di ristoranti italiani
mandati avanti da turchi, libanesi, egiziani e altri popoli, imitazioni coi
baffetti di siciliani, calabresi e napoletani... e nemmeno tutti mediterranei.
Ho lavorato per qualche tempo come cameriere e barista, in Italia e fuori,
diciamo abbastanza da non volerlo fare più. Meno ancora come lavapiatti,
pizzaiolo o aiuto cucina, perché là dentro c'è troppo caldo e ci si stressa
pure con la spesso necessaria velocità del servizio. Tra i cuochi ho conosciuto
veramente persone piene di energia, un po' fuori di testa, d’accordo, ma gente
assai gradevole, forse perché intelligente e imprevedibile.
Ero
bambino che non andavo ancora a scuola, la prima volta che ho visto un cuoco
vero, col berretto bianco a fungo in testa e tutto, nel ristorante lucchese chiamato
Stipino: stava urlando ed inseguiva un cameriere con un coltellone in mano.
Dieci
anni fa, sempre dentro una cucina, mi sono imbattuto in questo giovinottone
dell'entroterra lombardo. Vive viaggiando di qua e di là, approfittando di quel
fatto che ho già accennato, per il quale un esperto di culinaria italiana ha
garanzie di lavoro ovunque nel mondo. L'ho ribattezzato Giuliano Contoni, per
non insospettirlo alle prime pagine e corrisponde a uno degli indirizzi di
e-mail della mia lista.
Il
fatto è che, un po' di tempo fa, dopo aver bevuto e mischiato troppi e
differenti alcolici, ho avuto l'assurda idea di attaccarmi al computer. L'ho
fatto senza saperne nemmeno il perché, magari per scrivere qualche frase
sghemba ma geniale, in un racconto, che poi avrei corretto con calma o proprio
cancellato del tutto, nei giorni successivi.
Invece
no: ho scritto e mandato un’e-mail di protesta contro i miei lettori virtuali,
visto che elettronicamente non mi spedivano più pareri e apprezzamenti,
critiche o elogi. Con tono indignato e amareggiato, gli comunicavo che mi
pareva che lavorassero troppo, e, tra una cosa e l'altra, ho cercato di
scuoterli dal loro torpore, con la migliore delle intenzioni, mi sembrava. Ho
dichiarato con la mano sul cuore che li immaginavo come in una situazione in
cui la gente di questo cazzo di mondo globalizzato s'infila nel tunnel della
routine e non vede né sente più niente di quello che non ne fa parte.
Alla
fine concludevo, comunicando a tutti che era facile cancellarsi dalla mia lista,
se stavo disturbando la loro vita prefabbricata, mandandogli manoscritti
inutili, da cestinare virtualmente, bastava indirizzarmi un’e-mail con la
chiara volontà di uscire da quel ‘giochino del menga’ ed io li avrei tolti.
La
lettera era da considerarsi ridicola, visto che il nostro tipo di rapporto era
sempre stato del tipo di massima libertà, dato che nessuno pagava e ognuno
poteva fare quello che voleva.
Il
giorno dopo, riletto il contenuto e la forma di quell'appello disperato, da
moderna sceneggiata napoletana, me ne sono pentito. Era troppo tardi, però in
seguito, tra le risposte, ho ricevuto delle frasi tanto sincere quanto
inaspettate. Era forse quello che volevo quando, trascinato dall'alcool,
inconsapevolmente li avevo provocati con quel lamento di sconfinata solitudine
letteraria?
Probabilmente
sì.
C'era
gente che diceva che stavo esagerando ed aveva ragione, ma questa non era la
parte più interessante. Altri dicevano che li leggevano, i racconti, anche se
non tutti, o che non avevano tempo, uno rivelò che l'ultimo mio poliziesco era
stato troppo lungo ed aveva rotto il ritmo, c'era stato poi un periodo seguente
che avevo scritto e distribuito troppa roba e... insomma era stato difficile
starmi dietro.
Avrò
ricevuto una decina di e-mail di risposta, se ben mi ricordo, non tantissimi...
però, tra tutti, proprio quello di Giuliano mi colpì. Perché disse di non fare
scherzi, che non potevo assolutamente sospendergli l'invio di quei racconti,
giacché li spacciava per suoi e lo aiutavano a conquistare una ragionevole
porzione di ragazze. A dire la verità lui usava un termine che forse non dovrei
citare qui, ma visto che sto facendo un racconto interattivo, basato
sull'assoluta veridicità dei fatti, anche nei particolari, lo dirò.
Giuliano
dichiarava che i racconti gli servivano per beccare le tardone. Naturalmente la
cosa m'intrigava, perché significava che avevo un certo tipo di lettrice che
non sapevo di avere. In Italia le tardone abbondano, per motivi di cultura o
per la sua mancanza, per via della globalizzazione o per snobismo, per mancanza
di opzioni e di uomini autenticamente maschi, per esuberanza di embrioni
femminili e di stress unisex.
Se
da una parte l'attitudine dissociativa dello scrittore in generale è effettiva
e veritiera - come nel mio caso, almeno per quanto riguarda l'evasione -
dall'altro lato pareva proprio che associasse, invece. E se quelle creature di
sesso femminile apprezzavano i miei racconti, era segno che là dentro c'era
della vita, della voglia di comunicare... oppure anche piuttosto il contrario e
loro erano delle sempliciotte ed io peggio di loro e Giuliano manco a parlarne?
Comunque
fosse, era una cosa che m'incuriosiva.
Giuliano
ed io, a Berlino qualche volta uscivamo per farci una birretta o due, e proprio
non mi ricordo niente di quello che ci dicevamo, ma ci divertivamo ed era
quello che contava. Non lo vedo da almeno una quindicina d'anni. In seguito a
questa sua straordinaria rivelazione, comunque, gli ho chiesto dei chiarimenti,
che ha ignorato come già m'aspettavo, non ho insistito. A dire la verità, non
c'è quasi nessuno, tra i miei amici italiani, che risponde alle domande che gli
faccio per e-mail.
E
poi mi sono trovato spesso a pensarci, a Giuliano e alla sua sorprendente e
piacevole rivelazione, a cercare di capire, a distanza, la meccanica delle sue
tattiche. Non è mai stato un lettore assiduo, proprio per via del suo lavoro
massacrante e dell'hobby dello svuotare i bicchieri. Lui, ne sono quasi certo,
li stampa e li sfoglia distrattamente, prima di passarli sghignazzando, tra sé
e sé, alle sue vittime.
Ecco
che ho pensato che magari potevo saperne di più, perciò ho iniziato a scrivere
questo raccontino truccato, apparentemente uno di quelli in cui parlo di tante
cose, per alcuni interessanti, per altri no e per certi occhi stanchi, a volte,
una barba insopportabile. Verso la fine, avendo già abbondantemente annebbiato
gli sguardi esausti e/o ubriachi di Giuliano Contoni, apro il gioco, dico che
lui è un bravo ragazzone, pure di buona famiglia, un buon partito e tutto... ma
che, per quanto ne sappia io, al massimo è capace di scrivere la lista della
spesa del ristorante.
Attraverso
queste stesse pagine mi metto a disposizione per parlare con queste mature
ragazze, per qualsiasi informazione a riguardo del nostro astuto burlone,
discussioni letterarie incluse. Lascio il mio indirizzo e-mail bardoni
camuffato in mezzo alle parole, chiocciola, così che lo possano terra. copiare
e com. br usare. Il fatto che io non abiti in Italia e che staziono da undici
anni in un luogo lontano e perduto, nel sud del Brasile più meridionale, le
dovrebbe aiutare ad aprirsi con me, spiegarmi magari che cosa gli piace o cosa
non gli piace nei miei racconti, fare qualche critica costruttiva, qualche
mordace distinzione o interessante scoperta di difetti.
Non
è neppure da escludersi che il cuciniere in questione, mosso e/o commosso dalle
conseguenze della mia iniziativa, si faccia vivo personalmente, via e-mail, per
ringraziarmi o per mandarmi affanculo.
SOSIA
Quando sono andato a vivere a Viareggio mi sono
sorpreso a vedermi salutare per strada, al supermercato, o in un bar da gente
che io non avevo mai visto. Essendo molto fisionomista ero sicuro di non
sbagliarmi, erano loro che mi scambiavano per qualcun altro. C’era un mio
sosia, forse qualcuno che mi assomigliava parecchio.
Mi era già successo che mi scambiassero per qualcun
altro, per una effettiva ma a volte neanche troppo forte somiglianza, come
quella al portiere dell'Inter Zenga, in una certa epoca in cui lui era famoso e
avevamo anche lo stesso taglio di capelli a caschetto.
Un'altra volta, molto tempo dopo, mi hanno preso per
Sarri, che a quel tempo allenava la Juventus, al ristorante Prato Verde di
Chiatri, perché oltre alla approssimativa somiglianza, portavo degli occhiali
simili ai suoi e anche il taglio di capelli assai corti era di quel tipo, la
barba un po' incolta eccetera.
Però stavolta vivendo in una città dove non avevo mai
vissuto, varie persone mi hanno scambiato per qualcuno che evidentemente
abitava in quella stessa città, cioè Viareggio. Ho provato allora a capire chi
fosse, ma non ci sono riuscito. La situazione mi incuriosiva e allora ho
pensato di parlare con quelli che mi salutavano, di chiedere chi fosse quel
signore che loro credevano che io fossi ma non ero.
Solo che le prime volte ero troppo sorpreso per farlo
e le seconde volte non ci sono state proprio, non vivevo già più a Viareggio.
Non è che non avessi niente da fare, anzi il mio
lavoro di giardiniere era complicato, nel senso che era assai faticoso e in più
dovevo farmi con la mia Panda venti chilometri di andata e venti al ritorno.
A San Michele di Moriano c'era questa villa antica acquistata da uno di
Milano, ma non lavoravo tutti i giorni, mi chiamavano quando c'era bisogno.
Sabato sera e domenica pure, fatti i soliti quaranta chilometri tra andata e
ritorno, facevo il cameriere alla Barcarola, ristorante-pizzeria di Monte San
Quirico.
Il bello o il brutto era che negli ultimi tempi,
finché ero rimasto a Lucca, ero stato disoccupato. Quei due lavori li avevo
trovati, manco a farlo apposta, appena ero andato a vivere a Viareggio.
BORGHESIA, AUTOMOBILI E LIBERTA’
Con
la Mercedes diesel beige con il cambio automatico, ex taxi a Berlino, ci ho
fatto egregiamente viaggi non indifferenti. Con la seconda Mercedes, comprata
usata alla Renault del Berutto mentre stava quasi chiudendo i battenti, ci sono
andato in Spagna e Portogallo, da quel viaggio indirettamente è cominciata la
mia epopea brasileira.
La
vecchia Peugeot bianca è stata una macchinina costata quasi nulla, ma che non
mi ha fatto godere proprio niente, tenuta poco e sostituita dalla Panda di
famiglia, quella sì che era un gioiellino.
Nel vecchio continente non ho mai avuto la pazienza di
rileggere e correggere, di terminare qualcosa che valesse la pena, in qualche
modo c’è bisogno di una maturità, forse mai trovata completamente, ma
migliorata assai in Brasile.
Queste
case ordinate, con i giardini che sembrano di plastica, queste automobili nuove
e appena lavate, questa gente vestita così in maniera impeccabile, le donne
agghindate come se andassero all'opera, ma invece vanno in bicicletta
all'alimentari a comprare due salsicce e un pezzo di pecorino.
A
qualcuno tutto questo piace, ma a me no, e non mi è mai garbato, anche quando
affannosamente cercavo di vestirmi meglio e di sembrare diverso da come ero.
Il
senso di tutto questo mi è sempre sfuggito, mi sentivo anche in colpa, ma ora
capisco che avevo ragione. Naturalmente questo mi allontana dagli altri, che
cercano di assomigliarsi il più possibile, di omologare la propria vita a
quella dalla gente attorno. Mentre io cerco di sfuggire a questi meccanismi
assurdi, eppure anche troppo logici e umani.
Ebbene
sì, ho cercato anch'io di essere normale, ma non mi è riuscito, non perché
fosse oltre le mie capacità… o magari sì, non sono stato capace di essere
falso, di vivere secondo un canone prestabilito e sono stato me stesso sempre,
più o meno fin dall'inizio della mia vita di nicchia. Proprio per questo la mia
storia e la mia geografia non potevano portare a un successo qualunque, tra
quelli comunemente intesi, poiché non mi piacevano.
La realtà mi è sempre sembrata stretta, ma a volte
anche troppo larga, allora sentivo il bisogno di uscire, di astrarmi, di
evadere insomma e ho cominciato a scrivere. D'accordo: non volendo sono stato
più originale, ma ho seguito anch'io dei canoni prestabiliti.
Magari ne avevo la vocazione, da piccolo scrivevo dei
pensierini curiosi, poi dopo dei temi che venivano letti alla classe. Da
militare i miei primi romanzi di formazione, delle boiate insulse, mi ci
divertivo, perché avevo la necessaria immaginazione per trasferirmi in quelle
situazioni.
PROVERBI
Un
proverbio viene citato a dismisura e sproposito da chi si sente forse in colpa
per essere sempre rimasto nel suo paesello, ma pure da chi ha girato il mondo,
sì, anche abbastanza, ma non è mai andato a vivere in un altro paese qualsiasi,
a lavorare, per anni, stabilendosi in quel tipo di cultura che da turisti può
effettivamente sembrare simile alla sua, ma non lo è.
Non
bisogna arrabbiarsi con i proverbi, non è colpa loro, a volte dicono uno il
contrario dell'altro e dal nostro punto di vista hanno tutti e due ragione.
Nemmeno con gli esseri umani, che hanno poi la petulanza di esprimersi in
maniera molto precisa e determinata, perfino di irritarsi con chi la pensa
diversamente, su cose che non solo non conoscono, ma che non fanno niente per
cercare di capire meglio, si fidano ciecamente della propria ignoranza, perché
metterla in dubbio sarebbe troppo faticoso e hanno tante altre cose da fare.
No,
non proprio tutto il mondo è paese, di solito chi lo dice è perché non ha mai
viaggiato, vissuto e lavorato in un'altra nazione, neanche in una vicinissima,
confinante con la sua.
Semplifichiamo
al massimo: certamente ci sono cose che sono simili tra esseri umani del
Brasile e quelli italiani, meno tra i tedeschi e gli italiani, ancora meno tra
tedeschi e brasiliani. Ma i cinesi o i nigeriani sembrano proprio di un altro
pianeta.
Nella
stessa Italia ci sono differenze enormi tra i cittadini di Lucca e quelli di
Pisa, per non dire quelli di Trapani.
Se
facciamo attenzione, tra quelli di una stessa città sono già molto diversi, a
partire dalla loro storia personale, ma anche origine ed età eccetera eccetera.
Se io vivo in Lapponia, avrò abitudini e lingue molto diverse da chi vive in
Tunisia, è anche una questione di temperature; ma anche chi vive ad Arles, in
Provenza, Francia meridionale, ne avrà assai diverse da chi vive a Sanremo, a
non troppi chilometri di distanza, cultura e temperatura simili.
A
volte in persone della stessa famiglia ci sono differenze enormi, ma ci sono
più possibilità di trovarne in un'altra, in quantità e qualità. Figuriamoci poi
in un'altra città, regione, nazione, emisfero, zona secca o temperata, foresta
equatoriale e così via.
Le
lingue diverse hanno spesso, oltre i significati, dei suoni che noi non
riusciamo a emettere e questo provoca anche nella cultura differenze non
indifferenti. O meglio: è un movimento nei due sensi, causa ed effetto si
mischiano e il risultato è sempre un involucro con due gambe, due braccia e una
testa, ma dentro e fuori, nella sua vita, le proprie manifestazioni normali,
per altri possono sembrare assurde.
Confucio
disse: alle persone sagge piace l'acqua,
a quelle benevole piace la montagna. Forse aveva torto, ma anche un po’
ragione e viceversa.
L'uomo
moderno dice che non bisogna giudicare, ma purtroppo non riesce ad astenersene
mai, nemmeno quando dorme e sogna di non generalizzare, è sempre sbagliato
eppure lo fa sistematicamente, è più forte di lui.
Si
potrebbe anche un po’ generalizzare, comunque, ma prima bisogna studiare assai
e sempre esprimersi in maniera non assoluta, con il giusto e pratico beneficio
dell'inventario.
SETTIMA
PARTE
IN
GIRO PER L’EUROPA
“Stasera
potrei raccontarvi di quella volta che feci un giro di 6000 km per l’Europa con
la mia Mercedes che aveva la pompa dell’acqua rotta, ma quella poteva essersi
guastata solo un chilometro prima di arrivare e poi in quel viaggio non
successe praticamente niente di interessante, sennonché conobbi il primo
brasiliano di una lunga serie e che dette il via alla mia epopea brasileira,
quella che poi non è ancora terminata.”
A
volte mi figuro, per stimolare la mia voglia di raccontare, di essere un nonno
davanti al caminetto acceso, con dei bambini intorno, figli di altri esseri
umani, che avessero voglia di chiedere e di ascoltare, interrompendomi di
continuo fino a farmi perdere il filo.
Tra
l’altro credo che la nostra lingua sia l’unica in cui i figli di fratelli o
sorelle si chiamano esattamente come i figli dei figli, cioè i nipoti.
L’età
ce l’avrei già, modestamente, purtroppo i nipoti però scarseggiano. Di quei
pochi, che per ora è uno solo, tra entrambi i tipi, non ha certo voglia di
sedersi davanti al caminetto ad ascoltare un vecchio nostalgico dei bei tempi
andati.
I
tempi sono cambiati purtroppo e niente che non sia elettronico può interessare
i giovani, in compenso io ho imparato a fingere di credere in qualcuno che
abbia veramente tanta voglia di leggere. Qualcuno ancora c’è, a rigor del vero,
ma diventano sempre meno. Quando ne trovo uno, specialmente se insospettabile,
è una grande soddisfazione.
Comunque
i virtuali nipoti miei o di qualcun altro a quel punto si dimostrerebbero
interessatissimi e io per fare il prezioso, ma anche per un innato amore della
verità, direi:
“No,
forse è più divertente, o anche più importante che voi ascoltiate dalle mie
stesse romantiche parole quello che successe quando con il brasiliano in
questione, (lo stesso della prima storia che vi ho accennato, ma che magari vi
racconterò un’altra volta,) che aveva lavorato per me al Caffè Voltaire,
facemmo un altro grande viaggio, non so se di seimila chilometri, forse anche
di più. Victorinho era di Curitiba, nello stato del Paranà. Suo padre era
militare e venne trasferito a Joào Pessoa, capitale del Paraiba, il punto più a
est del Brasile e dell’intera America Latina e forse era stato là, almeno mi
pare, che era nato.”
I
nipotini con questi nomi esotici avrebbero già cominciato a sognare e a
sfregarsi le mani forse, e io avrei potuto ricordare, in mezzo alle mie stesse
frasi, tante cose alle quali non avevo più pensato.
“Eravamo
io e Victorinho, un emerito rompiscatole al quale però ho sempre voluto bene,
anche quando ho scoperto che mi prendeva in giro con espressioni brasiliane,
che all’epoca non comprendevo, ma solo dopo aver vissuto qua. Inizialmente sono
rimasto indignato, ma tutto era in linea con il personaggio, che magari un
giorno leggendo tutto questo si farà delle grasse risate alle mie spalle.
Victorinho
l’avevo conosciuto in Portogallo. Anche questa storia varrebbe la pena di
raccontarla, magari in un secondo o terzo momento. Su mio invito poi era venuto
a lavorare da me, che qualche anno prima avevo preso da solo il Caffè Voltaire,
cominciando a liquidare a rate il mio socio.
Per
via dell’inizio dei controlli sui lavoratori extracomunitari, Victorinho poi
andò a lavorare al ristorante da Leo e solo in un secondo momento al Caffè,
però ha abitato per i primi anni e senza pagare niente nel rustico appartamento
che c’era sopra. Appena venduto il locale a cambiali, decidemmo di scapparcela
a gambe levate.
Correva
l’anno 1993, era autunno, con la mia Panda verdolina facemmo un giro per
l’Europa, senza limiti di tempo ma solo di soldi.
Il
grande viaggio ebbe luogo, come di solito succede a noi poveri esseri umani,
dopo che una prigionia provvisoria arrivò ad una fine. In quel caso la
proprietà del Caffè Voltaire volgeva finalmente al termine e non se ne poteva
veramente più.
Insomma
il mondo si apriva di nuovo davanti a noi, se non tutto almeno l’Europa, che è
già abbastanza estesa e piena di cultura e vita, di strade interminabili, di
sogni fatti di realtà concreta e tangibile che noi - in alcuni casi -
conoscevamo solo attraverso libri o foto, qualche film.
Stavolta
possedevo solo una Fiat Panda, una macchinetta in gamba quella, che fece più
che egregiamente il suo dovere anche in un’altra vacanza di terribili strade,
in Corsica. Ma fu prima o dopo? Non mi ricordo tanto bene.
Insomma
prima tappa un paesino in provincia di Vicenza dove un certo amico brasiliano
di Victorinho ci avrebbe dovuto ospitare, ma forse non era stato avvertito, o
forse sì, non si sapeva o sono io che non me lo ricordo.”
Molte
delle divagazioni erano mie originali, ma altre più lunghe, fonti di ulteriori
domande, erano dettate dalle curiosità dei nipoti che volevano sapere sempre
qualcosa che io non dicevo e scoprivano subito quelle cose che non ricordavo,
accidenti a loro.
Bisognerebbe
anche specificare che io e Victorinho attraversavamo una fase diversa e
contraria della nostra vita, in cui io avevo una gran voglia di parlare e di
condividere impressioni e sentimenti, diversamente dal mio solito, ero di una
felicità euforica, forse anche irritante.
Lui
invece stava zitto quasi tutto il tempo e alla fine mi zittivo anch’io, visto
che mi trovavo di fronte a un muro d’indifferenza.
Ricordo
tratti di centinaia di chilometri fatti in silenzio, pochi scarni commenti del
paesaggio, veniva voglia di tornare a casa, ma eravamo solo all’inizio.
Per
farlo diventare simpatico e pieno di energia bastava che arrivasse una femmina
che dovendo per forza tentare di conquistarla allora Victorinho diventava tutto
pieno di energia e di entusiasmo. Un tipo di comportamento che mi faceva
arrabbiare, quindi ci irritavamo a vicenda.
“Giunti
che fummo già di sera a casa di tale amico, lui non c’era e non si sapeva dove
era e quando sarebbe ritornato, aspettavamo che ci invitassero a cena, ma loro
avevano già mangiato e ci dettero dei minuscoli toast che ci venne ancora più
fame e poi davanti alla TV con il padre e le sorelline l’attesa fu troppa e
articolata in varie fasi di fame, sonno e noia. Con malcelata indifferenza
parlammo di Airton Senna, grande pilota di Formula Uno brasiliano, morto da
poco a Imola, mi pare, ci chiesero dove diavolo avremmo dormito, noi non lo
sapevamo e loro insistevano nel non invitarci a oltranza, il figlio non
arrivava, forse lo avrebbe fatto se noi ce ne fossimo andati via. Dovemmo già
sul tardi avanzato inventare una sistemazione notturna di emergenza e perciò
telefonare e fare una relativa scappata a qualche centinaio di chilometri, dal
mio amico Fausto Vavassori a Torbole sul lago di Garda.
Prima
però una bella pizza e più che copiosa birra lì vicino, che ci mettemmo in
viaggio già mezzi ubriachi e la cassiera della pizzeria ci aveva fregato sul
resto, approfittando del nostro stato di ebbrezza, me ne resi conto solo dopo
qualche ora e relativi chilometri.
Tale
amico cuoco avevo già più volte visitato e ci avevo in precedenza lavorato
insieme a Lucca, non era uno che lesinava in fatto di alcolici, tanto bevemmo e
tanto parlammo che a letto ci andammo quasi a gattoni e in più c’era anche da
montare le scale.
Dormimmo
in quella camera più bella, con stupenda vista sul lago, ma le persiane erano
chiuse e non ci ricordammo nemmeno di guardare, voglio dire neppure la mattina
seguente, sembrò che cominciasse solo pochi minuti dopo. Partimmo sul tardi e
mezzo, io con il mal di testa, destinazione Austria, che non era lontana, ma
c’erano troppe curve, stranamente anche sull’autostrada, ma eravamo in
montagna, e quelle dovevano essere proprio le Alpi.
Cominciammo
subito sul tragicomico, con un passaporto scaduto, il mio, alla frontiera con
l’Austria. Tornati qualche chilometro indietro, con mano sicura Victorinho
falsificò a penna la data. Il nove del mese di settembre era diventato un più
conveniente dodici, che poi sarebbe dicembre. Ovviamente scegliemmo un'altra
frontiera, non troppo lontana per andare a Innsbruck.
Con
i passaporti moderni non sarebbe stato possibile, vedete che il passato era una
roba molto più umana.”
“È
vero, è una vergogna.”
“Uno
scandalo vero e proprio.
Va
detto a questo punto che tutto il giro europeo era stato organizzato da Victorinho
con tappe obbligate nelle case dei vari compagni di corso di italiano, che
erano fortunatamente di diverse nazioni vicine o confinanti, che secondo lui ci
avrebbero ospitato, in alcuni casi però non mi parve con eccessivo entusiasmo.
Se il suo piano avesse funzionato avremmo potuto risparmiare più soldi per
viaggiare di più.”
Victorinho
da buon brasiliano con la sua abile, ma spesso anche troppo forzata
manipolazione, era riuscito a farsi promettere un po’ da tutti che lo avrebbero
ospitato, nel caso avesse potuto fare un giro per il vecchio continente, anche
se ormai da tempo incontinente.
Forse
un giorno, sulla mobilità in progressivo e costante aumento degli esseri umani,
questa moderna incontinenza, scriverò un noioso trattato pieno di numeri e
percentuali, o forse sarà meglio di no.
A
proposito, c’entra poco o niente, ma ci dissero solo dopo, che avevano
organizzato una competizione, della pubblicità, forse anche dei premi, per chi
faceva dei viaggi lunghi con la Fiat Panda. Magari per evidenziare che aveva un
motore instancabile, il che era vero e in salita era una capra di montagna.
Poi
quando l’ho saputo era troppo tardi, ma c’era gente che era andata a Capo Nord
o addirittura a Pechino e il nostro giro non avendo una meta prestabilita,
andava di qua e di là un po’ alla rinfusa, probabilmente anche se lunghetto non
sarebbe stato preso in considerazione per la Pandata in questione.
Comunque
sia, arrivati a Innsbruck, essendo ospitati e accompagnati da due ragazze,
Victorinho tornò a essere goliardico e arzillo, tanto che tra di loro non mi
riusciva parlare, anche perché la conversazione era tutta sul corso e i loro
compagni che io non conoscevo.
Imparai
però che in quell’epoca lì c’era il fenomeno del Föhn, o Favonio, è un fenomeno che si verifica
nel versante sottovento di una catena montuosa e che causa una rapida e marcata
variazione dei parametri meteorologici. Quando un intenso flusso si dirige
verso una barriera come le Alpi, nel versante esposto al vento la massa d’aria
sale e di conseguenza si raffredda e forma nubi e causa intense precipitazioni.
Una
importante curiosità, l’aria satura salendo si raffredda di 6°C ogni
km. Ad esempio, se la montagna è alta 1000 metri e la temperatura a
fondovalle è 15°C, in cima si riscontreranno 5°C. Nel versante sottovento,
complice la differenza di pressione e densità dell’aria, si ha un processo
opposto, con moti discendenti. L’aria si comprime, scaldandosi e seccandosi.
Questo causa mal di testa e malumori improvvisi nella gente, c’è chi ne risente
di più e chi meno.”
“Ma
qui in Italia non c’è?” Chiedono i bambini che non ne hanno mai sentito
parlare.
“Certo,
a quei tempi anche io non lo sapevo, ma dopo mi sono documentato: il Föhn o
Favonio in Italia si presenta soprattutto in pianura Padana e nelle valli
Alpine. In queste zone si verifica in presenza di flussi settentrionali
(nord föhn o föhn alpino). In presenza di correnti intense da sud-ovest il föhn
appenninico può irrompere in Emilia-Romagna, Marche e Abruzzo causando
temperature molto elevate.
Anche
una singola montagna può indurre condizioni di föhn, che assume nomi
locali e avviene in quasi tutte le regioni italiane.”
“E
in Brasile?”
“Beh,
temperature in costante cambiamento ci sono, ma non credo che si possa chiamare
così, là da noi. Però nel sud, la regione dove ho vissuto quasi metà della mia
vita, c’è influenza dello scontro di temperature e umidità differenti, per via
dei venti provenienti dall’Antartide, che si scontrano con quelli che invece
vengono dalle zone calde dell’equatore. Malumori e mal di testa anche da noi
erano frequenti. Ci sono persone che lo sentono di più, altre che lo
percepiscono ma non lo sanno che è fenomeno che dipende meno da loro stessi e
più da fattori atmosferici…”
Quello
di cui anche un nonno virtuale si accorge, standoci insieme, è che i bambini è
meglio trattarli da adulti, che non è vero che certe cose non le capiscono, ma
i genitori, specialmente quelli italiani, vogliono proteggerli dal mondo e così
invece li indeboliscono.
“Tornando
a noi e al viaggio, la permanenza a Innsbruck fu rapida, mi sa che ci abbiamo
dormito una notte sola o al massimo due, la città era moderna e non c’era molto
da vedere, o forse non avevano voglia di mostracela e Victorinho non era uno
che cercava della cultura, almeno a quell’epoca. Ricordo il trampolino olimpico
per il salto con gli sci dei giochi invernali, lo stadio di calcio del Tirol,
dove aveva giocato anche il tedesco Hansi Muller, squadra che ora non esiste
più, è fallita. Siamo stati a un ristorante tipico sulle montagne, dove abbiamo
mangiato assai bene. Le ragazze erano simpatiche. Una timida, quella che ci
ospitava e l’altra espansiva, un po’ grassoccia, con Victorinho parlavano in
inglese, io parlavo il tedesco ma Victorinho no, insomma io non sono quasi mai
riuscito a dire niente.
Poi
siamo andati a Vienna, che era abbastanza vicina e molto più interessante come
città. I nomi non me li ricordo ma lì ci ha ospitato un ragazzo biondo, che
parlava poco e viveva in uno scantinato, era di un paese di fuori e studiava
lì. Non andava molto d’accordo con Victorinho, quindi il suo entusiasmo per
stare insieme a noi era scarso o nullo. C’era anche una ragazza di cui
Victorinho era innamorato, era simpatica ma l’abbiamo incontrata solo una
volta, in una zona centrale della città, che mi è sembrata molto bella, sebbene
avessi sentito dire che era una città morta. Forse ai tempi di Freud era più
dinamica, non lo so.”
“Nonno!
È vero che il cappuccino l'hanno inventato in Austria?”
“Certamente.
Il pensiero nostro corre subito agli omonimi monaci cappuccini, nati dalla
corrente francescana e quindi ispirati a un modello di vita fatto di privazioni
e umiltà: abbigliamento povero, barbe lunghe e incolte, questi preti erano
soliti vagabondare coperti da un cappuccio (distinguibile da quello di altri
ordini poiché molto più piccolo). La loro tonaca era di un colore marrone
chiaro, ovvero proprio del colore dei nostri odierni cappuccini. A creare la
bevanda infatti pare sia stato proprio il monaco cappuccino Marco
D’Aviano, che all’epoca in questione era confidente dell’imperatore asburgico
Leopoldo I.”
“Asburgico?”
“La
geografia politica non sempre ha avuto le nazioni come sono ora, ragazzi miei.
Sapete quante sono attualmente?”
“Circa
duecento, ma cambiano sempre il numero.”
“Infatti,
molto bene, anche ora il mondo attraversa una delle solite transizioni. Diciamo
che ogni luogo, anche l’Italia, è passato per guerre, conquiste, invasioni
eccetera.”
“Quindi?”
“Beh,
la casa d'Asburgo, detta anche casa d'Austria, è una delle più importanti e
antiche famiglie reali e imperiali d'Europa. I suoi membri sono stati per molti
secoli imperatori del Sacro Romano Impero, hanno governato in Austria come
duchi, arciduchi e imperatori, e sono stati re di Spagna e re del Portogallo.”
“Insomma
approssimativamente erano gli austriaci.”
“Brava.
Alla fine dell’assedio di Vienna nel 1683, i turchi abbandonarono sul campo
interi sacchi di caffè; fu il soldato Franciszek Jerzy Kulczycki a
requisirli e aprendo a Vienna, l’anno dopo, la prima vera caffetteria
europea: il Fiasco Blu. Qui capita un giorno padre D’Aviano e
non riuscendo a bere il caffè nero, chiese qualcosa per addolcirlo, creando
quindi la miscela di crema, spezie, caffè e zucchero (qualcuno dice persino
zabaione) che da Franciszek venne chiamata kapuziner, dal colore
della tonaca del frate.
La
vera e propria diffusione del cappuccino come lo beviamo oggi, tuttavia iniziò
solo nei primi anni del Novecento quando un italiano, Luigi Brezzera, inventò
la prima macchina espresso per il cappuccino, nel 1901.
Va
aggiunto che quest’ordine di frati era a Vienna molto stimato, tant’è che tutti
gli imperatori asburgici sono sepolti nella cappella dei cappuccini. Una
certezza è che il primo cappuccino fu fatto con la panna; l’aggiunta di latte è
arrivata probabilmente solo nell’800, poiché tutte le fonti storiche concordano
nel dire che prima di quel momento il latte veniva usato solo per la creazione
di formaggi e non come bevanda.
Origini
austriache quindi, ma non vi è dubbio che il cappuccino di oggi, sia una
bevanda del tutto italiana.
Tornando
al viaggio, anche la visita di Vienna è stata rapida, un giorno o due, poi
siamo partiti per Budapest. Passata la frontiera tra Austria e Ungheria, su
entrambi i lati della strada c’era una fila interminabile di banchetti che vendevano
carne e verdura, della roba brutta, scura e pochissima varietà. Un banchetto
vendeva patate e solo patate, un altro cipolle e solo cipolle e così via.
Attorno una puzza tremenda, probabilmente allevamenti di maiali.
Il
Danubio divide Buda da Pest, due belle città, con dentro dei palazzi antichi,
spesso di tonalità beige, molti monumenti militari, ma non avevamo nessuno che
potesse ospitarci e non abbiamo trovato nessuno che parlasse lingue straniere:
né tedesco, né inglese, né italiano, né spagnolo, né tantomeno portoghese.
Prima
di entrare in Cecoslovacchia siamo passati vicino a uno stadio dove stavano
giocando una partita di calcio. L’ingresso era libero, poi abbiamo scoperto che
erano gli ultimi minuti. Abbiamo cercato di chiedere dove eravamo e che squadre
giocavano, ma nessuno parlava le nostre potenziali lingue e se ne vergognavano,
tanto che attorno a noi, sulla gradinata, si è formato un vuoto, un paio di
metri liberi in mezzo alla folla.
Abbiamo
visto anche un bel gol, la squadra verde ha segnato contro quella azzurra e
bianca, penso che fossero tutte e due ungheresi.
A
sera siamo arrivati a Praga. Lì ci ospitava una ragazza che non aveva fatto il
corso con Victorinho, ma era sorella di una che viveva a Lucca. Il nome non me
lo ricordo, forse lei è ancora a Lucca, stavamo per avere una storia d’amore,
una volta…”
“Ma
la nonna perché noi non ce l’abbiamo? Tutti ce l’hanno o ce l’hanno avuta e noi
no:”
“Di
nonne voi ne avete avute tante, tutte nonne virtuali, intendiamoci, cari
bambini miei, tanto per cominciare anche noi qui siamo virtuali, proprio perché
io di figli non ne ho mai avuti. Quindi nemmeno nipoti del tipo: figli dei miei
figli. Perlomeno nessuno mi ha mai chiesto il test del DNA…”
“Ma
costa una cifra! E poi per quello bisogna essere famosi e pieni di soldi,
nonno!”
“Guarda-guarda,
vedi come siete fottutamente precoci, meno male che non ho ancora detto quanti
anni avete, anzi meglio lasciar perdere questo dettaglio.”
“Infatti,
ma in fondo chi se ne frega? Insomma tu hai avuto tante fidanzate vere, di
ciccia. Parliamone!”
“Nooo.
Mi toccherebbe diventare bugiardo come un venditore di automobili. Se è per
quello c’è stata anche una cicciona, una volta, a Berlino… ma torniamo a noi,
piuttosto, che ora mi sono ricordato il nome di questa ragazza che poi proprio
in quegli anni è diventata ceca…”
“Come?
Lei non… improvvisamente non ci vedeva più?”
“Aha!
Vi siete preoccupati? Vi ho fregato! E meno male che ogni tanto ci riesco!
Proprio in quegli anni, dovete sapere, dopo la caduta del blocco orientale, la
Repubblica Slovacca chiese e ottenne la separazione dalla Repubblica Ceca, ma
senza una I dopo la prima C.”
“Aaaah!
Infame mentitore! Ma come si chiamava ‘sta ragazza Ceca?”
“Aspetta
che non mi ricordo…
Ah!
Ecco: si chiamava Lenka, un nome assai comune là da quelle parti.”
“E
la sorella com’era?”
“Ma
voi pensate già alle ragazze? Io all’inizio quando ho cominciato a scrivere
questa storia mi figuravo dei nipoti un po’ meno cresciutelli.”
“…ma
noi siamo dei bambini come tanti altri, nonno, oggigiorno tutto è più rapido.
Il mondo occidentale oggi è fatto così, magari anche quello orientale, insomma
non è più come una volta…”
“Va
bene che io c’ho i miei pesanti sessantadue quasi sessantatré anni, comunque a
me mi pare un’esagerazione…”
“A
me mi pare non si può dire.”
“Ah
già, è vero! Ma che sappiate la grammatica e la sintassi, mi fa proprio
piacere.”
“No,
è il programma di riconoscimento vocale che ci ha segnato un errore blu, certo
se fosse stato rosso sarebbe stato meno grave…”
“Vi
state registrando questa lezione di vita, eh? Voi con il cellulare fate dei
miracoli. Un giorno arriverete a fare ogni cosa da lì, tirarci fuori un
cappuccino con la schiuma fatta a cuore o una succulenta pizza ai frutti di
mare, ma io spero proprio di non esserci più al mondo.
Insomma
la sorella di Yonika era simpatica, il nome non me lo ricordo. Era meno bella
di lei, ma più simpatica, come spesso succede. E tutte e due avevano capelli
tra il biondo e il rossastro, una cosa piuttosto rara. Dicono che stanno
diventando sempre meno al mondo i rossi di capelli.
Comunque
là c’erano anche un cineasta Macedone e un pittore di Santo Domingo, che
abitavano in quella casa, che era quasi una comune, molto pittoresca e
confortevole, nella nostra camera c’erano anche le pulci, ma non si può avere
tutto dalla vita. Anzi piuttosto qui di roba ce n’era d’avanzo.
Praga
è molto bella, c’è la birra più buona del mondo, i prezzi erano bassi assai e
tutti erano molto alla mano e disponibili. Tanto che ci rimanemmo quasi una
settimana, facendo giri attorno non indifferenti.”
E
dopo la Cecoslovacchia siamo andati a Berlino, dove avevo vissuto due anni,
fino a cinque prima del viaggio, l’ho trovata molto cambiata, dopo la caduta
del muro.
Se
c’erano musei, esposizioni e altre cose da pagare il biglietto dicevamo che
avevamo risparmiato quei soldi e non ci andavamo mai. A lungo andare può essere
una schiavitù anche quella girare i posti e non approfittare mai di quello che
offrivano, in pratica spendevamo solo per mangiare, bere e la benzina.
Siamo
andati a vedere a casa di Sabine, mio grande amore di quell’epoca, ma quando
sul campanello ho visto scritto il cognome del suo ex, accanto al suo, che
magari era tornato a essere effettivo, non ho nemmeno suonato.
Il
ristorante La Marmora, dove avevo lavorato non era più di Pasquale e Mario, la
Benetton, dove avevo lavorato dopo, anche aveva cambiato tutto e tutti.
Michele
il napoletano e Rosario, il siciliano che erano rimasti, non ci hanno voluto
ospitare inventando scuse e li ho capiti, prendersi in casa della gente quando
si vive con la propria moglie o innamorata, è difficile.
Io
volevo tornare a casa, mi ero rotto della compagnia di Victorinho, abbiamo
anche litigato. Mi ha accusato di lasciarlo nei guai perché senza la macchina e
la divisione delle spese, per lui sarebbe stato molto più caro viaggiare. Io
gli ho detto e ribadito che lui era un pessimo compagno di viaggio e gliene ho
spiegato le ragioni, non che dopo sia cambiato qualcosa.
Mi
pare che fossimo rimasti d’accordo che lo dovevo portare un po’ più vicino
all’Italia, forse in Francia, ma non ne sono sicuro. Alla fine siamo andati in
un ostello e il giorno dopo siamo ripartiti.
A
Dusseldorf abbiamo visitato Luiz e lì c’era anche sua cugina tra la quale e
Victorinho è nato un grande amore. Luiz era stato ospitato al Caffè Voltaire,
quando era venuto a Lucca, era simpatico e intelligente, in Brasile poi ho
conosciuto anche suo fratello Guto, un grande sassofonista che ora vive in
Svezia, ma sua cugina era stupida, brutta, antipatica, in più si credeva il
massimo assoluto… e ci tengo a farvi notare che lo dico con tutto il rispetto.”
“Meno
male.”
“Al
confine con l’Olanda non c’era nessuno a controllare i passaporti, forse perché
era domenica, abbiamo commentato ridendo.
Siamo
andati in Belgio, dove avevamo due posti dove essere ospitati, uno a Gent e
l’altro non ricordo la cittadina, ma era una piccola e molto graziosa.
L’architettura assai accattivante, simile a quella dell’Olanda, con i mattoni a
vista e i tetti a punta, gli infissi bianchi.
Le
ragazze del Belgio poi, sarà stato un caso, o forse no, le ex colleghe di
Victorinho, erano tutte carine e affabili, intelligenti ma senza quella
antipatica voglia di farsi notare. Sembrava il paradiso delle donne, perché
oltre a quelle che erano con lui, vivevano altre amiche in queste specie di
comuni studentesche, avevano caratteristiche fisiche molto differenti, alcune
bionde, altre scure, capelli lunghi o corti, ma moralmente abbastanza simili,
in definitiva non parlavano né tanto né poco, mettevano spesso in dubbio le
cretinate che Victorinho diceva, senza mettersi a fare polemiche inutili
all’italiana. Insomma erano molto più giovani di me, ma mi sono quasi
innamorato una decina di volte.
A
Gent (nome fiammingo) o Gand (nome francese) vivono non molte persone
stabilmente, ma tanti studenti in maniera provvisoria, che vengono da altre
città. Però i bar e le discoteche sono insonorizzate in maniera che non si
sente niente da fuori.
Ad
Anversa ci sono le prostitute in vetrina come ad Amsterdam, ma poi lì non ci
siamo stati perché a Rotterdam ci hanno rotto il vetro di notte e ci hanno
rubato la roba in macchina e allora siamo andati verso la Francia.
I
silenzi in macchina erano lunghi, se guidi per centinaia di chilometri e
nessuno parla sembrano migliaia e a Victorinho non c’era argomento che gli
interessasse. Qualcuno ha detto che se vuoi conoscere qualcuno devi fare un
viaggio insieme, secondo me non è vero. Prima di tutto bisogna vedere in che
momento della tua vita fai questo viaggio, poi io penso che viaggiare, secondo
e come, cambia parecchio la persona, anche solo provvisoriamente, perché
rivoluziona la sua routine.
Per
entrare in Francia si deve passare di nuovo per il Belgio, alla frontiera ci
hanno chiesto se eravamo stati in Olanda, certo per via della droga. Noi
prontamente abbiamo detto di no. Ci hanno fatto altre domande e poi ci hanno di
nuovo chiesto, quasi come fosse per caso, se eravamo stati in Olanda e abbiamo
subito risposto di no. Alla fine hanno chiesto a me dove ci avevano rotto il vetro
e Victorinho si è infilato svelto e astuto e ha detto che era stato a
Rotterdam.
Ci
hanno smontato la macchina, hanno portato i cani specializzati ma non hanno
trovato niente. Forse perché il pezzettino di hashish che avevamo, ce lo
avevano dato i ragazzi di Praga, era dentro uno di quegli scatolini del rullino
della macchina fotografica, dove era stato in precedenza, devo dire senza alcun
calcolo mio, un po’ di shampoo, che forse ha un odore molto forte.”
“Ma
come, esistevano ancora i rullini di pellicola?”
“Credo
che esistano ancora, per gli amatori fanatici, solo che non è facile vederne in
giro.”
“Che
anno era?”
“Il
93. Lo so che per voi questo è impensabile.”
“Non
eravamo ancora nati. Ma quando è che il digitale ha sostituito i rullini?”
“Intorno
al 2000. Nel cinema è successo anche prima, nel nostro caso quando è stata
maggiore la necessità di rendere più miniaturizzate e portatili le fotocamere
anche per ambiti di tipo professionale.
Nel
2000, le fotocamere digitali vendute erano 10 milioni e nel 2010 oltre 140
milioni.”
“Dicono
che nel cinema ha causato un livellamento basso della qualità.”
“Bravo.
Infatti, la pellicola era un costo enorme che improvvisamente è diventato pari
a zero, tutti potevano fare un film, anche schifoso magari ma filmato, tanta
gente che prima non poteva permetterselo.”
“Un
po’ come i social che hanno precipitato il livello della discussione sociale.”
“Madonna
mia, siete degli intellettuali a meno di dieci di anni di età?”
“Ma
quando mai! E perché non è vero?”
“No,
è verissimo, lo ha detto anche Umberto Eco poco prima di morire.”
“La
gente che prima al bar bevendo un bicchierotto o due di vino diceva delle
bischerate e veniva subito zittito, ora che esiste Facebook ha voce in capitolo
su tutto?”
“Ecco.”
“Al
bar i pensionati non ci vanno più?”
“Meno
direi.”
“La
gente si incontra meno, in generale. Anche voi giovani ve ne state lì davanti
lo smartphone e non vi trovate mai personalmente.”
“E
chi ce lo fa fare?”
“È
molto più comodo ognuno a casa sua.”
“Una
volta l’uomo era un animale sociale?”
“E
anche piuttosto socievole, ma ora è solo un animale. Tra l’altro dopo che mi
avevano rubato la macchina fotografica a Rotterdam, con tutta la mia
attrezzatura di obbiettivi e cavalletti vari, sono stato diversi anni senza, ne
ho comprato una proprio quando stava per cambiare tutto il mercato della
fotografia mondiale.”
“Naturalmente
i fotografi lo sapevano, ma non ti hanno detto niente.”
“Infatti.”
“Insomma
alla fine siete entrati in Francia.”
“Sì,
fatti pochi chilometri ci siamo fermati a fare benzina e appena ci ha visti la
polizia è venuta da noi, forse attirata dal vetro rotto. Ci hanno chiesto
separatamente dove era successo e io ho detto in Olanda, pensando che ormai
fossimo stati segnalati dalla polizia della frontiera, che non si era convinta
che non avessimo droga in macchina, dopo essere stati in Olanda. Victorinho
invece ha detto in Belgio.
Ci
hanno rismontato la macchina e non hanno trovato niente di nuovo.”
“Meraviglioso!”
“Non
tanto, a dire la verità, ci hanno fatto aspettare un bel po’ di tempo, tra
tutte e due le volte. In più alla banca lì vicina si sono rifiutati di
cambiarci le lire, dicendo che la nostra moneta era troppo fluttuante.”
“Bella
roba, la Francia vi ha rovinato la carriera!”
“I
francesi che avevo conosciuto in precedenza mi erano rimasti simpatici, un po’
come i belgi, e soprattutto le belghe, senza quella grande voglia di mostrare
il loro potenziale a tutti i costi. La gente a me mi garba così, che ci posso
fare?”
“Forse
perché anche tu sei così?”
“Ecco,
hai messo il dito nella piaga. La voglia di protagonismo è una delle malattie
della nostra epoca. Forse la televisione e il cinema ci hanno messo questa
insensata voglia, i social, i selfie…”
“Sì.
D’accordo. Ma ora ci dirai anche te il solito fermate il mondo che voglio
scendere…”
“Noo,
lo penso tutti i giorni, non lo nego, ma io ormai sono un vecchietto e tra poco
tolgo il disturbo e saranno tutti cazzi vostri. Non dite ai vostri genitori che
io dico queste parolacce, sennò pensano che ve lo ho insegnate io.”
“Ah,
ah! Lo pensano già.”
“Vabbè,
chi se ne frega.
Parigi
comunque è bellissima e io, che c’ero stato già, sono rimasto stupito lo
stesso. Una ragazza portoghese ci ha ospitato ed era simpatica e tutto, anche
lei più timida che invadente, la metropoli è affascinante, ma io avevo quasi
finito i soldi e anche la pazienza, me ne sono voluto tornare a casa e
Victorinho è rimasto lì.”
I
bambini forse non parlano così, non ne conosco molti, a dir la verità, ma il
figlio di mio fratello Leonardo forse è stato un po’ simile a questi tre qui,
che mi sono solo immaginato. Ormai Sandro è un adolescente avanzato e io sono
un estremo sessantatreenne che non si guarda quasi mai allo specchio.
OTTAVA
PARTE
BRASILE
Perché sono venuto qua in Brasile?
Me lo chiedono soprattutto i brasiliani, gli italiani lo sanno già, anche se
poi quello che si figurano del Brasile è più stereotipo che verità. Per la
gente di qua però è un mistero, perché coltivano una passione esagerata per
l'Europa e gli Stati Uniti. Il primo mondo è una realtà idealizzata, ed è così
chiamato per motivi finanziari, ma anche culturali, non da tutti, perché qui i
soldi, e chi ce li ha, sono idoli dorati. Ma i brasiliani che escono da qua si
accorgono meglio di quello che c'è di buono in questa grande nazione. Quelli
che non sono mai andati fuori dicono che non è un grande paese, ma un paese
grande, sottintendendo una certa amarezza.
All'inizio ho abitato in un
appartamento piccolo, umido e buio, ma dopo, da sposato, siamo venuti quassù. Il
primo e il secondo matrimonio sono crollati e qui ai miei due lati ci sono due
case con dentro altri due uomini soli. Dopo aver vissuto qualche decina di anni
insieme, aver fallito con le due rispettive donne, aver fatto figli, che ora
sono adulti e poi basta... ognuno per la sua strada.
Una volta il matrimonio anche qui
era indissolubile, ora è diventato una barzelletta. Non sono mai stato un
estimatore del matrimonio, per carità, per me lo ritengo assai improbabile, ma
ammiro la famiglia come era una volta, anche se era fondata sulla rinuncia. La
gente stava meglio quando c'erano meno soldi e meno tecnologia, forse anche
meno illusioni.
SPIAGGIA
“Quando sono arrivato in Brasile
la famiglia Spreafico mi ha aiutato assai e sento per loro la massima gratitudine.
Erano veramente brava gente, o
meglio: lo sono ancora.
Il figlio di nonna Nora,
Gianfranco, sposato con Gertrude, di famiglia tedesca, lavorava ai sindacati.
Nel rapido fioccare dei giorni
feriali, se per caso lo incontravo, m’invitava per la tradizionale escursione
del fine settimana:
- Venerdì sera alle cinque e mezzo
sono qui e appena arrivo viaaaa, tutti alla spiaggiaaa!! Così dicendo batteva
le mani per evidenziare, con lo schiocco, l’estrema rapidità di quell’epica
fuga dallo stress della grande città.
Dopo le prime esperienze dirette,
sapevo che non sarebbe andata esattamente così, anzi quasi tutto al contrario.
Era come un film.
Per cominciare, alle cinque e
mezzo lui non arrivava mai, ma sempre verso le sette. La moglie e la madre
immancabilmente e instancabilmente lo accusavano del ritardo, lui si arrabbiava
e cominciavano a preparare le cose da portare via aiutandosi a urli.
Man mano che le cose venivano
preparate, aveva luogo un pittoresco andirivieni di gente a caricare la
macchina, con tutto quello che ci sarebbe potuto entrare e riuscendo talvolta a
elasticizzare le rigide proprietà geometriche dei corpi solidi e, in alcuni
casi, perfino della fisica quantica.
Martinho, figlio di primo letto di
Gertrude, era un bambinone quasi adolescente, dalla simpatica faccia da indio e
faceva il grosso del trasporto, dall’appartamento al primo piano, fino
all’automezzo, che proprio grande non era.
Considerando che saremmo rimasti
là solo due giorni, era una montagna di roba, ma a pensarci bene sarebbe stata
troppa anche per un mese.
Io mi mettevo a fare altre cose,
intanto, nel mio piccolo appartamento a lato di quello di nonna Nora, a piano
terra, se avessero avuto bisogno di una mano mi avrebbero chiamato, certo che
mettersi ad aspettare era una cosa assurda.
Nonna Nora, invece, seduta sul
divano colla borsetta in mano, televisione rigorosamente spenta, ci stava fino
alle undici, undici e mezzo. Ogni volta che passava Gianfranco litigavano un
po’, al volo, ripassando i loro cliché classici, alla tipica maniera italiana.
Al momento di partire una montagna di cose giacevano ancora fuori dalla
macchina, sul marciapiede, pronte ad essere caricate.
La prima volta, al mio inutile
avvertimento, Gianfranco disse che andava bene così e gli altri ridacchiarono e
mi fecero cenno di salire.
Una volta entrati e seduti tutti,
lui ce le mise addosso, in maniera che non ci si potesse più muovere, ma che le
teste affiorassero dalla marea di oggetti di vario tipo. Insomma, in fondo si
poteva anche respirare e perfino parlare, ma le voci venivano fuori un po’
soffocate.
Naturalmente lui era l’unico
escluso dal martirio, perché doveva guidare e già che c’era lo faceva anche
alla velocità massima, come se fosse l’ultima azione che avessimo potuto
compiere nella nostra vita, cosa che poteva anche essere, a conti fatti, ma ci
siamo salvati sempre, per fortuna.
Eravamo partiti, finalmente, ma
purtroppo ci si doveva ancora fermare a prendere la chiave dallo zio Adolfo in
un quartiere completamente fuori mano di Porto Alegre, poi a prendere una
coperta e un trapano dalla cugina Adelaide in un’altra zona, un servizio di
piatti e bicchieri a casa del cugino Romeo in un terzo quartiere deserto e così
via.
Questi altri personaggi
sorridevano sornioni e fingevano di sorprendersi per l’inusuale ritardo, erano
ore che ci aspettavano, dicevano e ci offrivano da mangiare e da bere,
comprendendo il nostro sforzo fisico e mentale.
Noi non potevamo scendere e ne
approfittavamo sul posto, liberando gli arti prensili alla meglio e intanto si chiacchierava
allegramente del più e del meno. Anzi, poi non la smettevano più di parlare, a
dire il vero, causando ulteriore ritardo agli orari della spedizione e secondo
me quelli lo facevano di proposito.
Quando ci trovavamo
miracolosamente e finalmente sulla strada per il mare erano passate alcune ore
e le nostre ossa scricchiolavano.Per fortuna la spiaggia era solo a un
centinaio di chilometri e di traffico a quell’ora non ce n’era tanto.
Alle curve una massa enorme di
oggetti tentava di scapparsela e si muoveva sinistramente, noi ne venivamo
trascinati fino alle porte ben chiuse della macchina.
Ogni tanto Gianfranco non riusciva
ad evitare un cratere dell’asfalto, comparsogli davanti all’ultimo istante e il
risultato lo sentivamo tutti direttamente sull’osso sacro.
Gertrude gli gridava di andare
piano, ma Gianfranco non se ne faceva un cruccio, non le rispondeva neanche;
poi accumulandosi le richieste urlate, alla fine rispondeva e urlava anche lui,
allora era peggio.
Qualche volta, in quello stress di
viaggio avevamo anche la petulanza di berci il chimarrão, nel qual caso, aveva
luogo un rumoroso e ripetuto e frenetico movimento di braccia, per spostare gli
oggetti che ci ingombravano le mani, per riceverne il recipiente, (fatto con
una zucca secca e chiamato cuja) per le nostre relative calde succhiate nella
notte già abbastanza sudata.
Arrivati a Magisterio, ci pareva
di essere su una nave di Cristoforo Colombo che avvistava terra. Dal mare si
vedeva un chiarore di alba e noi colle membra anchilosate, eravamo veramente
contenti di venire liberati, uno alla volta, oggetto sotto oggetto e dopo di
scaricare tutto, portare la roba in casa, respirare a pieni polmoni l’aria che
sapeva di salmastro.
Poi andavamo a dormire stanchi
morti, ma felici di avercela fatta.
A questo punto non so se ero
l’unico ad avere già il pensiero alla domenica sera di dover ripetere la scena,
per il ritorno, ma non lo dicevo a nessuno. Appena sdraiato gli occhi mi si
chiudevano da soli, avevo appena il
tempo di sentire il preludio del concerto di russate che risuonava per tutta la
casetta, dalle porte aperte delle piccole camere.
Una volta l’abitazione era stata
di legno, più grande e proprietà delle due famiglie, quella di nonna Nora e di
sua sorella Mara. Poi era stata letteralmente segata in due, quella di Nora e
Gianfranco, dove stavamo noi era stata distrutta e ricostruita in muratura.
Dall’altra parte, però, era rimasta tale e quale, o quasi, perché
quell’operazione di drastica spartizione non aveva tenuto conto delle strutture
portanti, credo, o almeno non del tutto e l’aveva resa pericolante e storta.
Gianfranco aveva comprato una
telecamera e un giorno ci fecero vedere, a me e a mia moglie, attraverso la
televisione, il primo filmato fatto, che ritraeva in movimento la famiglia
Spreafico in uno spaccato di normale quotidianità.
Erano in casa, tutti presenti,
però c’era qualcosa che non andava. Il film mancava di brio, loro si chiedevano
addirittura le cose per favore, nessuno gridava, nessuno si mandava affanculo.
Davanti alla telecamera tutta la pittoresca naturalezza del gruppo Spreafico si
era irrimediabilmente persa.
Cercammo di non ridere, loro se ne
accorsero, non ci rimasero male, credo che non ne capirono il perché.
INFORMAZIONI STRADALI
Nei miei primi mesi di permanenza
nello stato del Rio Grande do Sul, mi mandarono a insegnare la mia lingua madre
in una cittadina di circa 200.000 abitanti, di dominazione tedesca, con qualche
italiano d’origine sparso. L’industria calzaturiera era stata per anni la fonte
primaria della loro economia, poi i cinesi da lontano li avevano eliminati
dalla mappa, per via dei prezzi bassi della loro mano d’opera. Novo Hamburgo
era a una quarantina di chilometri da Porto Alegre.
Arrivai in macchina e non c’ero
mai stato. Dovevo incontrare il signor Tramontin, il responsabile della scuola,
che poi era un club di italo-brasiliani.
Chiedere un’informazione per
strada, per sapere dov’è l’ospedale - o la stazione, o la scuola tal dei tali –
è un tipo di azione che può dare sviluppi e risultati differenti a seconda
della nazione o perfino della regione dove ci troviamo. Per esempio in Brasile
è una cosa piuttosto diversa dall’Italia, ancor più dalla Germania, tanto per
citare i tre paesi dove ho vissuto.
Un cinquantenne pelato e un po’
sudato mi raccontò nei particolari la storia della sua vita e della sua
famiglia, per una strana coincidenza di origine italiana. Poi con qualche
apparente difficoltà di orientamento mi spiegò, girandosi attorno nervosamente
e scrutando l’orizzonte (che doveva essere dietro a quei palazzoni di tre o
quattro piani,) come sarei potuto arrivare, senza perdere troppo tempo, e/o
denaro, a destinazione. Seguendo le istruzioni di quell’affabile individuo mi
persi in un dedalo di stradine e chiesi di nuovo indicazioni a una signora che
aspettava l’autobus, probabilmente di origine tedesca. Non mi raccontò niente
di romantico e personale, era piuttosto riservata, ma mi disse che c’ero vicino
assai, a piedi in cinque minuti ci sarei arrivato, però con la macchina dovevo
fare un giro piuttosto lungo che mi spiegò in maniera confusa ma ripetuta.
Dalla progressiva rarefazione di case capii che dovevo aver sbagliato qualcosa.
Ero in aperta campagna. Rientrato in città scelsi - tra la tanta gente intorno
- un ragazzo con in mano un pacco lungo e pesante che insisteva nel non voler
appoggiare per terra, disse che studiava la nostra lingua e precisamente la più
bella al mondo, gli garbavano assai Laura Pausini ed Eros Ramazzotti.
Alla
fine, su mia ripetuta insistenza, affrontammo di nuovo l’argomento che mi
premeva di più e fu allora che mi mostrò una cartina della città appesa nella
piazzetta del Municipio, dove ci trovavamo in quel momento. Non mi potevo
sbagliare, eravamo a un tiro di schioppo. Mi spiegò che il centro di Novo
Hamburgo era piccolo assai e che lì non ci si poteva proprio perdere, neanche
volendo.
Eppure io ci riuscii di nuovo,
forse per colpa dei sensi unici o del calore.
Non so più quante piccole e
tragicomiche disavventure dopo, in base a qualche divina ispirazione, alzai la
testa, anche per asciugare la mia fronte che grondava copioso sudore,
distinguendo con quasi certezza che il nome di quella stessa strada, scritto in
bianco su una targa azzurra, era proprio quello giusto.
L’Associazione Italiana Mamma Mia
era al numero 2, a dieci metri da dove avevo chiesto la prima indicazione.
Avevo girato come una mosca senza testa per più di mezz’ora ed ero arrivato nel
punto esatto dove avevo chiesto informazione a quel primo signore, tra i tanti
che avevo interpellato in cerca di aiuto, l’indirizzo in questione era lì di
fronte a me e pareva impossibile che ci fosse stato anche prima.
Quando raccontai quella storia al
signor Tramontin rise di gusto, parlava un italiano mezzo mischiato al dialetto
veneto con qualche parola di portoghese. Dopo un’ultima risata e un residuo
porcodio, mi spiegò divertito:
“No, no, non si fa così. Si vede
che lei non è proprio di queste parti. Lei deve capire prima di tutto che il
brasiliano si vergogna a dire che non lo sa. Gli pare brutto. Sembra che non
voglia collaborare, una mancanza di rispetto. Allora dice quello che pensa che
sia il posto giusto, gli pare di averlo sentito dire, o era qualcosa del
genere, che poi saperlo e spiegarlo sono già due cose differenti, ma se non lo
si sa nemmeno...”
Il Tramontin era un simpaticone,
mi raccontò che era stato direttore del Banco di Brasil, che ora era in
pensione, grazie a dio, che sua figlia era in Italia sposata con un italiano
autentico, che l’altro che conosceva ero io, ma poi c’era anche il segretario,
al quale subito mi presentò e gli raccontò la storia. Il signor Pacini arrossì
e rise, si scusò, parlava un italiano quasi da manuale:
“Io sono Toscano come lei. Son
arrivato qui una ventina d’anni fa, ma ho ancora parenti a Grosseto, li visito
ogni due o tre anni, a volte vengono loro qui da me.
Guardi: la pazienza è necessaria
sempre, non solo nel Rio Grande do Sul; ma qua bisogna anzitutto capire che
questa brava gente preferisce dare un’informazione sbagliata al dire che non sa
dove è quel luogo, gli pare meglio mentire con classe che dire una spiacevole
verità. Si fa molta attenzione a non contrariare gli altri, la soavità del modo
di fare a noi pare eccessiva e ad ogni costo, è certo una maniera di stare con
gli altri differente dalla nostra europea, più schiva e spesso anche fredda.
Al turista si consiglia di
chiedere più volte le informazioni e di fare una media tra tutte, riuscirà
così, con un po’ di fortuna, a capire, più o meno, dove si trova l’indirizzo
che cerca e a conoscere tanta gente disposta sinceramente ad aiutarlo, anche se
purtroppo non hanno la necessaria competenza per farlo, sono servizievoli,
gentili e simpatici.
E qui nel Rio Grande do Sul è
meglio non dirgli che siete italiano, ma proprio italiano vero, non solo di
origine, che sennò per strada lei ci fa notte, è anche pericoloso. Meglio dire
che siete spagnolo, qui ce ne sono pochi anche di origine e non sono tanto
entusiasti come i nostri compaesani, anche solo di origine, lei mi capisce. ”
Nell’ultimo stato in fondo al
Brasile, sopra l’Uruguay sul litorale e a lato dell’Argentina all’interno, ci
sono numerosi peninsulari di origine e ognuno proprio per quel motivo si sente
speciale. Non sono mai stati in Italia, ma l’amano con tutta la loro forza.
MACCHÉ
Nel sud del Brasile si da’ lezione
anche in epoche calde, come a marzo, alla fine dell’estate, o a novembre, alla
fine della primavera.
Nella tarda mattinata di un
qualsiasi giorno caldissimo, mi preparai opportunamente vestito con pantaloni
lunghi, ma leggerissimi, portati dalla Germania ed una maglietta impalpabile.
Le lezioni alle classi non si
possono dare con i pantaloni corti e francamente in un Brasile anche solo
subtropicale come il nostro, mi pare assurdo, ma è così.
Chi lavora negli uffici, anche se
c’è l’aria condizionata, prima o poi deve uscire, sia solo per andare a pranzo,
o tornare casa e in giacca e cravatta,
con 35 o più gradi, si fa delle sudate da sauna.
Meno male che, ora che lavoro solo
con le lezioni private, lo faccio in canottiera, pantaloncini e sandali,
accetto solo allievi con aria condizionata eppure torno a casa appiccicoso e
fetido.
Non sono mai stato uno di quelli
che si guardano tanto allo specchio per vedere se sono belli o stilisticamente
conformi al desiderato, col passare degli anni lo sono diventato ancora meno,
se possibile.
Però prima di due lezioni
d’italiano, davanti a classi di una ventina di persone, è meglio darsi almeno
un’occhiatina, non si sa mai.
Mi era già capitato di dare
lezione con un bel buco nella maglia sul petto, ma, per fortuna o per sfortuna,
me ne ero accorto solo dopo.
Il Brasile, devo dire, rispetto
all’ossessiva cura dell’aspetto dell’Italia, mi da’ molto più sollievo, anzi,
quando sono troppo elegante mi sento a disagio, ma mi capita di rado.
Quel giorno però, credevo di
essere particolarmente a posto, mi ci sentivo bene, insomma, perché erano
indumenti leggeri e freschi, ma perfettamente combinati come colori.
I pantaloni di quel violetto scuro
che era quasi un grigio, la maglietta rossa aperta, senza colletto, con quattro
bottoni, le scarpe blu scuro tutte buchettate comprate in Italia, pagate da
mamma.
Il dubbio, da queste parti, quando
ti vesti un po’ a colori vivaci, è che ti scambino per un omosessuale, ma i
tempi stanno lentamente cambiando, in quella direzione, anche in uno stato
storicamente assai maschilista e rigido in certi tipi di situazione.
Perciò quando uscii di casa
sentivo il venticello fresco su tutto il corpo, mi sentivo bene, fisicamente ed
esteticamente, secondo i miei gusti personali, ma notai subito che tutti mi
guardavano.
I casi erano due: sembravo
eccessivamente delicato, o ero troppo elegante, anche se, già altre volte avevo
usato quell’accostamento e non avevo notato niente del genere.
Prima di partire verso la scuola
di destinazione, ero andato a parlare con i muratori che lavoravano nel
giardino della casa del mio vicino di fianco.
Mi ero messo d’accordo con loro,
tempo addietro, per fare un lavoro nel mio giardino e precisamente la struttura
di pietra intorno alla piscina, installata da poco e già funzionante.
Carlinho, il capo di questi
muratori, (che mi guardavano tutti colla coda dell’occhio, come se la mia parte
più elegante fosse visibile proprio dal dietro,) era il mio vicino di fronte,
dalla parte del portone d’entrata.
Colla mia coda dell’occhio, a mia
volta, avevo notato questo ben determinato tipo di tendenza, mentre parlavo con
lui su quando sarebbero finiti quei lavori lì, che stavano tentando di
terminare invano, da alcune settimane e più o meno quando sarebbero cominciati
i miei lavori.
Con la coda del mio cervello, mi stavo chiedendo di quale dei due casi si
trattasse: omosessualità o eleganza eccessiva, o, chissà, magari un terzo ed
imprevisto caso... un misto dei primi due?
Però, in fondo, di quello che
pensano gli altri me ne frego sempre abbastanza e a volte, lo ammetto, sbaglio.
Il dialogo era finito, senza
naturalmente risolvere il mio interrogativo riguardo al tempo restante di
attesa.
Stavo cominciando a capire che
qualsiasi cosa mi avesse detto, Carlinho, o qualsiasi altro brasiliano, non ci
potevo contare.
Che cosa glielo chiedevo a fare
non lo so, forse per fargli capire che avevo fretta, magari, o qualcosa del
genere.
Il tempo italiano disgraziatamente
non coincide mai col tempo brasiliano che qui è giusto che sia quello
ufficiale.
Ho sempre avuto le mie difficoltà
a comprenderlo, il tempo brasiliano, come ne ho ancora adesso, dopo quasi
quindici anni, perché risulta un’entità flessibile, assai elastica e talvolta
perfino astratta, comunque mai corrispondente a quel che si dice prima.
Perciò, rassegnato alla mia
illimitata attesa, salutai e me ne stavo andando, quando Carlinho, un po’
imbarazzato mi chiamò da una parte.
Carlinho ha i lobi delle orecchie
più grandi e carnosi che io abbia mai visto e ho girato il mondo.
È un ragazzo intelligente ma
lentissimo, anche nel parlare, i suoi lavori sono molto ben fatti, ma il tempo
che ci vuole è almeno il doppio di quello che ha dichiarato all’inizio.
È simpatico in quella maniera
involontaria, specialmente quando tenta di stare serio, perché è proprio allora
che gli scappa da ridere:
- Senta, non se la prenda a male,
glielo dico solo per aiutarLa... Le volevo dire... che Lei ha uno strappo
enorme nei pantaloni, dietro. Giù dal sedere, si vedono anche le mutande, ma
poi scende per tutta la lunghezza della coscia.
TRANSITO
Anche se grossa la macchina è solo
una cosa, ma specialmente qui in Brasile è una cosa sopravvalutata, forse
perché non tutti possono comprarsela e tanti di quelli che ne acquistano una
poi devono continuare a pagarla per anni.
Il traffico cittadino di Porto
Alegre è claustrofobico, a tratti tragicomico, almeno visto da fuori.
La nostra è una quasi metropoli di
nemmeno due milioni di abitanti, favele incluse, ma senza impegni di precisione
numerica.
Trattasi di sviluppo urbano ed
extraurbano cresciuto senza controllo, con alcune città dormitorio attaccate e
relative migliaia di persone che le visitano di notte e poi la mattina presto
ritornano verso il lavoro.
Il flusso dei mezzi di locomozione
di questa capitale di stato del sud del Brasile, pur seguendo alla lettera la
teoria del caos, ha una sua logica, un po’ come quello di Napoli, senz’altro
migliore di quello di Rio de Janeiro, tutto il contrario di quello di Zurigo.
I semafori sono numerosi, in
alcune parti della città sembrano troppo vicini l’uno all’altro. Chi ti
sorpassa a tutta velocità è destinato a ritrovarsi al tuo fianco al semaforo
seguente e poi a quello dopo e così via.
Le industrie automobilistiche sono
arrivate a vendere le macchine in 99 comodissime rate mensili, non che poi
vengano pagate, in seguito, ma intanto si muove il mercato.
Per andare dalla zona sud alla
zona nord della città, ci si metteva, prima della costruzione della terza
circonvallazione, più tempo che ad andare nella città più vicina, Canoas.
Le cose ora sarebbero migliorate,
ma le macchine sono aumentate e anche gli autobus, i camion, i taxi e le
navette... insomma, pur avendo lavorato affannosamente per migliorare, siamo
allo stesso punto di prima.
Si suona raramente il clacson,
rispetto all’Italia, ma la tendenza è in crescendo.
Si suona più per salutare gli
amici che per altro, magari per attirare l’attenzione di qualche bellezza
sculettante.
Chi è in ritardo cerca di mettere
sotto pressione gli altri automobilisti, incollandosi dietro ai posteriori, a
volte di macchine che perdono i pezzi, di vecchietti che chiacchierano, che non
guardano mai nello specchietto, per nessun motivo e transitano tranquillamente
nella corsia che dovrebbe essere quella del sorpasso, a velocità non misurabili
da un contachilometri moderno.
I taxisti si fermano per prendere
o lasciare i passeggeri in mezzo alla strada e lo stesso fanno i vari tipi di
autobus.
Nessuno usa la freccia per
segnalare qualcosa come una svolta o una fermata; se e quando lo fanno è dopo o
durante. Però quando la urtano inavvertitamente col braccio, se la dimenticano
poi accesa per tutto il viaggio.
Ci sono i carrettini dei
raccoglitori di carta, tirati da cavalli magrissimi, o piuttosto dei mezzi
muli, i cui conduttori non rispettano alcuna regola, di nessun tipo o codice, e
formano interminabili code nelle strettoie. Se a bordo sono in due, ecco che si
organizzano: uno guida e l’altro manda affanculo i motorizzati dietro.
I numerosissimi pedoni s’infilano
in mezzo che è una bellezza, le automobili
- per evitarli - aumentano la velocità, ma se qualcuno ingenuamente si
ferma, per lasciarli passare, viene circondato e dimenticato in mezzo alla
folla.
Al semaforo, in questo clima di
guerra per ogni metro in più, non c’è molto tempo per passare, quelli che
sfrecciano già col rosso dall’altra parte, alla fine del verde,
s’impadroniscono dell’esiguo tempo utile.
Se le automobili sono troppe, gli
autobus occupano molto più spazio e sono lenti e tanti che a volte se ne vedono
quattro o cinque, gli uni attaccati agli altri, come un treno.
D’estate, l’aria condizionata
dell’automobile eviterebbe, oltre al caldo insopportabile, i contatti con i
venditori e con chi chiede elemosina, isolerebbe piacevolmente dal resto e
sarebbe quindi una cosa meravigliosa, ma non tutti possono permettersela.
Ad allietare la scena di transito
urbano, poi, ci sono i lavori in corso, i camion raccoglitori della spazzatura,
gli spazzini a piedi, i blocchi stradali, le macchine ferme in mezzo alla
strada per un guasto, gli incidenti a catena e i motociclisti che passano a
tutta velocità tra le macchine ferme, tra le varie corsie. Chi fa un
cambiamento di fila non ha tempo di vederli arrivare, ne muoiono tutti i
giorni, ma non se ne preoccupano.
Al semaforo ci sono quelli che
chiedono una monetina, quelli che lavano i vetri specialmente di chi non vuole,
poi i venditori di giornali, tergicristalli di ricambio e altri articoli per la
macchina, succhi d’arancia, frutta, rose e fiori e qualsiasi altra cosa.
A volte gli elemosinanti o i
venditori sono anche in sedia a rotelle, se ne stanno tranquillamente in mezzo
e ritardano ogni già problematico movimento.
Sempre al semaforo, quelli che
stanno in prima fila sono gli unici che non guardano se cambia colore e una
volta arrivato il verde, partono solo quando gli suonano da dietro, riducendo
ancora il tempo utile per il passaggio che è già cortissimo.
Una moda diffusa ed efficace è non
considerare mai il punto di vista degli altri, ma questo vale anche e
soprattutto fuori dal traffico, nella vita quotidiana.
La libertà del cittadino non
finisce dove inizia quella degli altri, ma nel migliore dei casi, dove iniziano
le sue proteste.
Quando l’autista scende dal suo
mezzo di trasporto, magicamente comincia a ragionare come un pedone e a mandare
a quel paese gli autisti.
Intanto il pedone è arrivato alla
sua automobile e ha già cambiato mentalità, la sua ottica è diventata quella
del guidatore e non sopporta tutti quei pedoni tra i piedi.
Si chiede perché mai esistono e
perché si ostinano a camminare in mezzo alle automobili ostacolandone la già
difficile, ma pur legittima marcia.
Oltre a chi sperimenta
giornalmente i due lati della lotta, senza permettergli mai di comunicare tra
di loro, ci sono quelli che invece non hanno soldi per comprare una macchina o
anche solo una moto e allora odiano incondizionatamente ed ostacolano, quando
possono, tutti quelli che ne possiedono.
CORRIERE
Il guaio era che tutte le volte
che andavo in Italia, ingenuamente lo dicevo in giro e mi coprivano di ordini e
faccende da sbrigare.
Purtroppo, quando mi prendo un
impegno, per una specie di aberrazione mentale, lo porto fino in fondo.
Un allievo doveva mandare un sacco
di fagioli neri ad un suo parente che abitava a centocinquanta chilometri da
Lucca e dodicimilacentocinquanta da Porto Alegre?
Io tentavo di dissuaderlo, gli
dicevo che ormai quei fagioli si trovavano anche là, che in Italia c’erano già
tanti brasiliani, ma non c’era niente da fare. Voleva mandarglieli lui e
originali di qua e dovevo portarglieli io.
Una signora amica di amici aveva
dei parenti a 65 chilometri da Lucca, pochissimi, secondo lei e voleva
mandargli un pacco di dolcetti fatti in casa? Toccava a me e a nessun altro.
Va da sé che chi riceveva regali
voleva contraccambiare, specialmente se avvisavo per telefono che sarei passato
di là, con un pacchettone-pensierino dei parenti brasiliani. Anche se ce n’era
poco, trovavano il tempo necessario per improvvisare qualcosa di ingombrante,
pesante e tradizionale e, al mio arrivo, di mettermelo in mano, accompagnando
tutto con un sorriso e qualche frase di incoraggiamento.
Le cose da trasportare erano quasi
sempre sia per l’andata che per il ritorno.
Ho cominciato a improvvisare,
arrivavo all’indirizzo della persona e le lasciavo il pacco in mano, prima che
potesse razionalizzare scappavo via, almeno mi risparmiavo una parte
dell’incombenza.
Però l’impulso dall’altra parte
era irrefrenabile, nella maggior parte dei casi mi rintracciavano, e mi
consegnavano, poche ore prima del mio ritorno in Brasile, tutto quello che
avrei voluto evitare di dover trasportare.
A volte tentavo di spiegare che
non avevo ancora completato, dopo anni, il mio trasloco, che potevo farlo solo
quando andavo là e avrei potuto - se solo me lo avessero lasciato fare -
approfittare dei miei chili di bagaglio permessi dalle compagnie aeree, di cose
che mi sarebbero potute servire a casa, cose che non potevo trovare in Brasile
e anche trovandole avrei dovuto spendere dei soldi.
Le mie spiegazioni non servivano a
niente, ognuno pensava che la propria esigenza fosse più importante e che non
ci fossero varie altre persone a chiedermi lo stesso favore obbligatorio.
Se glielo dicevo, loro non ci
credevano, l’entusiasmo che avevano nel farlo, nel mandare anche cose
insignificanti, ma che riempivano le mie valigie e pesavano sulla mia
stanchezza durante le tre tappe aeree e i relativi spostamenti del viaggio,
finivano per contagiarmi.
A volte persone che non conoscevo,
amici di conoscenti, o conoscenti di quasi sconosciuti, volevano che io gli
comprassi quella tal cosa, oppure quell’altra, o tutt’e due: profumi o
gioielli, cose che in Brasile non si trovano, o costano assai di più.
Non ho mai trasportato droga, se
anche l’ho fatto, non l’ho mai saputo. C’è voluto del tempo, ma finalmente ho
terminato il mio trasloco. Già oltre i trent’anni, grazie agli insegnamenti
brasiliani, sono diventato un discreto bugiardo e quando mi succede di andare
in Italia, non lo dico a nessuno e, se anche me lo chiedono, nego a oltranza.
IL LABIRINTO DELLA MENTE
“Il sole è alto
nel cielo eppure è freddo, l’aria è umida, da lontano si sentono motociclette
da cross, sulla collina di fronte, il rumore va e viene, seguendo il girare
delle folate di vento.
Siamo a
Curitiba, stato del Paraná. È sabato mattina.
Una voce di
megafono, che supera a stento il rumore da trattore del camioncino scassato,
elenca un’interminabile quanto incomprensibile serie di detersivi e prodotti
per la casa.
Moreno consuma
la colazione già fuori dalla porta, gli piace andare a fare un giro in
giardino, insieme ai cani, anche se è freddo, colla tazza del caffè bollente in
mano e i biscotti in tasca, anche se poi quando se li mette in bocca, a volte,
sono un po’ pelosi.
Quella miriade
di nuvolette bianche, sullo sfondo di un cielo di un azzurro perfetto, hanno
tanta bellezza addosso che a guardarle intensamente pare che puliscano i
polmoni dallo schifo di tutte le sigarette fumate.
La visibilità è
buona, il giorno prima ha piovuto e poi dopo il vento forte ha fatto la sua
parte.
In venti minuti,
attraverso strade piene di automezzi lanciati a tutta velocità tra un semaforo
e l’altro, Moreno arriva in centro, poi altri venti minuti per trovare posto
per la macchina.
Dalla campagna
ai grattacieli, dai contadini alla psichiatria dell’ambulatorio del dottor Rui
Castro Diniz, detto anche Rui CD, al ventesimo piano di un palazzo moderno,
altissimo e stretto.
Il consultorio,
composto di due stanze e due bagni, è diviso in: zona attesa, vano piccolo con
divano e poltrona, una finestra con tenda scura, riviste, musica rilassante e
zona terapia, uno spazio più grande e luminoso, tre poltrone e scrivania con
sedia, cinque quadri belli ma freddi, con poca emozione.
Le due parti
sono separate da una porta e una parete insonorizzate, tutto arredato con gusto
e misura, varie piante in idrocoltura.”
“L’ambulatorio
del dottor Rui CD era piccolo ma comodo, accogliente pur risultando anche un
po’ freddino, molto ben illuminato.
Il distacco era
dato anche dai colori pastello delle pareti, celestino-grigiochiaro-beige, dai
mobili e dai soprammobili, dai quadri che combinavano, ma senza darlo a vedere
troppo, di pittori diversi ma di simile ispirazione, insomma da una serie di
cose che inducevano alla calma riflessione.
L’impressione
che dava Rui CD era quella specie di maniera di vedere lucida, gentile,
cerimoniosa ma assai poco emotiva: era forse quello il cosiddetto sguardo
dell’entomologo?
Quegli insetti
erano esseri umani, ma pur sempre inferiori e lo ammettevano da soli, con il
semplice gesto di riconoscere di averne bisogno."
Per esempio
Moreno Bartelloni (MB) ci andava una volta alla settimana, sempre allo stesso
orario.
Prima di entrare
si sentiva agitato, il suo nervosismo perdurava finché si trovava in sala
d’aspetto, una volta dentro, poi, gli passava e si sentiva stranamente a suo
agio, protetto.
Quando varcava
la soglia della seconda stanza, quella insonorizzata, si poneva in
un’automatica distanza dal mondo là fuori e dai suoi problemi, vedeva le stesse
cose ma, d’improvviso, con trasparente chiarezza e gli facevano meno paura,
certo meno soggezione.
A basso volume
c’era musica di tipo internazionale, radio con rare voci di annunciatori, che
dicevano - a blocchi di tre - quali erano i pezzi ascoltati in precedenza.
Prima di lui, di
solito, c'era un uomo grande e grosso che aspettava nella saletta, quando lui
entrava.
Il cuore è un muscolo che si deve imparare ad usare e si
tenta tutta la vita di addomesticarlo, diceva il dottore, ma quello spesso
è un ribelle, purtroppo.
Il ritmo della vita non sono i secondi scanditi
dall’orologio, ma i battiti del nostro cuore, spiegava ad ogni buona occasione.
Quell’uomo
grande e serio, nella saletta d’aspetto, non lo guardava mai negli occhi,
appena si apriva la porta entrava coi suoi passi da elefante, il dottore lo
faceva passare e richiudeva.
Per quei pochi
secondi si sentiva che la musica là dentro era un’altra, poi più nessuna voce,
nessun rumore.
Quella
all’interno era musica per ambienti a basso volume, calda e fredda allo stesso
tempo, rigorosamente strumentale, al massimo qualche specie di canto gregoriano
moderno, più spesso ritmi soffici e soffusi, chitarra classica, musica che
poteva invitare alla riflessione, ma anche al sonno, dipendendo dai farmaci.
Approssimativamente
un minuto dopo, l’omone usciva con una ricetta in mano, la testa brizzolata del
dottore faceva capolino sorridendo dalla porta, spuntava un braccio e una mano
che lo invitavano ad entrare.
Moreno si
accomodava su una comodissima poltrona delle tre identiche, i piedi su un cubo
marroncino foderato di pelle, uguale in tutto ad altri due.
Il dottore
cominciava con calma e gradevole tono di voce la sua sequenza di intelligenti
stereotipi, progettati per far sentire a proprio agio la gente.
Tempo
atmosferico, calcio, di nuovo tempo, cinema e aeromodellismo, nel caso di MB,
l’hobby che avevano in comune era il consueto finale della prima fase.
Durava cinque
minuti, più o meno, poi entrava delicatamente nel mondo del pensiero moderno,
antico e più spesso anche intermedio.
Senza far
domande, come se si stesse parlando del più o del meno, ma c’era sempre di
mezzo qualche frase di Bergson, qualche volta di Kierkegaard, meno spesso di
Kant, naturalmente senza mai citare gli autori.
Visto che in
italiano era il più debole dei due, il dottor Rui CD voleva che fosse chiaro
che era solo in quella materia e che accettava il suo ruolo d’inferiore solo
per poco tempo, magari solo perché stava pagando e quell’altro era da lui
invitato, in quel gioco delle parti, ad assumere un ruolo di superiore, anche
se per meno di un’ora.
Allora MB si
accorgeva che si poteva passare alla prossima fase, che però di solito veniva
interrotta sul nascere dall’arrivo dell’altro professionista, omonimo ma assai
più anziano, Rui Bentivoglio Sa, Rui BS.
Dopo i saluti di
prassi, per circa una decina di minuti i due colleghi facevano finta che MB non
ci fosse, parlavano di psicologia e di psichiatria, ma il professore non sapeva
distinguerle.
Insomma di
solito il più giovane faceva domande tecniche al più vecchio, che gli
rispondeva e già che c’era lo prendeva anche un po’ in giro.
Spesso Rui CD
aveva bisogno di cambiare orario, sul confine degli otto minuti spiegava perché
si voleva, si poteva e si doveva farlo e anche se gli altri due non facevano
obiezioni, lui rigirava più volte la sua spirale di motivi validi, da vari
punti di vista, usando strutture di frasi differenti ma che coincidevano nel
contenuto.
MB aveva notato
che spesso i due professionisti guardavano l’orologio distrattamente, forse per
abitudine: sia il finto-antico appeso sopra la scrivania, o quello da tavolo
che era anche un accendisigari, sia il rispettivo da polso.
Poi iniziava la
lezione d’italiano vera e propria, di solito conversazione, un testo di
attualità oppure anche una roba meno recente, ma dentro c’era anche un po’ di
grammatica, che però altre volte si faceva più compiutamente attraverso regole
teoriche ed esercizi pratici.
Il più anziano
indugiava sulle sue risposte facendo abilmente innervosire gli altri due,
quando il professore lo incalzava la sua calma diventava anche maggiore.
MB non si
seccava per la scarsa fretta del canuto, ma per l’impazienza del brizzolato,
che era assai stressato, ma di solito lo dissimulava bene, solo in questo caso
si vedeva che non riusciva assolutamente ad aspettare, perché di solito erano
gli altri che dovevano aspettare lui e non c’era abituato.
Teneva sempre
nascosti i gomiti, perché lì si poteva vedere la psoriasi.
Quando uscivano
dalla lezione, spesso BS faceva finta di salutare un paziente immaginario in
sala di aspetto e CD ci cascava sempre, accorrendo premurosamente ed
untuosamente a vedere chi era e perché fosse lì.
Capitava che a
volte i due colleghi omonimi ed amici si coalizzassero contro il professore,
con il loro comportamento studiato e mellifluo gli facevano venire dei dubbi
anche su cose di cui era sicuro.
Come quella
volta del proverbio l’abito non fa il
monaco, che in italiano lui si ricordava che giammai lo facesse, ma in
portoghese, per quanto strano potesse sembrare, lo faceva e immancabilmente.
Quella volta
riuscirono ad annodargli perbene la mente e poi, alla fin fine, il concetto in
questione non cambiava affatto.
“Gente molto
intelligente e simpatica, quella, mi sono fatto tante risate con loro, anche se
spesso mi prendevano in giro, riuscivano sempre anche a sorprendermi e questa è
una cosa rara.
D’accordo, non
sempre positivamente, però.”
Le lezioni si
susseguirono per mesi finché Moreno, alla fine, riuscì a separarli con la scusa
che il loro dislivello di conoscenza dell’italiano era troppo, il che era anche
vero, Rui CD sapeva molto di più di Rui BS, perché aveva cominciato assai prima
a studiarlo.
Presi a piccole
dosi erano migliori, quei due, certo ci voleva sempre una pazienza certosina, ma quella era la base del suo
lavoro, più importante della stessa conoscenza della lingua o della didattica
per insegnarla.
Gli allievi non
si potevano scegliere, di regola era tutta gente piuttosto stressata, non erano
casi affatto rari in una grande città, quelli che facevano italiano, ma che
avrebbero avuto forse più bisogno di qualche altro tipo di materia e di
professionisti.
Ironicamente gli
capitavano spesso proprio quel tipo di professionisti che avrebbero avuto un
estremo bisogno dello stesso tipo di professionisti, ma che sebbene fosse
proprio una fondamentale regola di quella professione, non riuscivano ad
accettarla e meno ancora a metterla in pratica.
Come può
pretendere di essere credibile chi fa il contrario di quello che dice? In quale
maniera potrebbe riuscire a insegnare agli altri a non ingannare sé stessi?
IL MIGLIOR VINO
Ecco. In una delle ultime cene
dell’Associazione italiana di Porto Alegre a cui ho avuto il piacere di
partecipare, mi sono trovato, come sempre accanto a gente che non avevo mai
conosciuto. Eravamo seduti su panche e distribuiti a caso ai lunghissimi
tavoli, forse proprio per stimolare le nuove conoscenze. Arriva una signora e
mi si siede accanto, tra le sue prime frasi, che nessuno pretendeva dovessero
essere un esempio di intelligenza, c’è stata questa:
“Credevo che il vino migliore
fosse americano, invece no. Mi sono dovuta ricredere, è australiano.”
Per quanto ci abbia provato, non
sono riuscito a commentare, mi sono sentito imbarazzato per lei, mi ha
disorientato. Per fortuna c’erano gli altri che hanno cominciato a conversare
con la signora in questione e con una certa larghezza di vedute, che io posso
anche avere, nascosta dentro di me, ma non ci riesco a innescarla quando sono
preso di sorpresa.
Forse non si sono nemmeno accorti
che me ne ero andato a cercare un altro posto. Non sono un patriota, anzi me ne
frego della patria, e non perché si dovesse dire per forza che i migliori vini
sono francesi o italiani, tutti i gusti son gusti, ma proprio per questa
sensazionalista voglia di stupire, di dire una cosa sorprendente che non mi può
garbare.
CANI
Il rapporto di mamma con il
secondo Blacky e poi con Tommy era piuttosto diverso dall’usuale, in tempi
diversi ma adiacenti hanno dormito con la testa sul cuscino, nel letto
matrimoniale accanto a lei, ma non usavano lenzuoli e coperte, il loro pelo gli
bastava. Però quando c’era il temporale Tommy era terrorizzato e saltava
addosso a mamma e la sgraffiava, involontariamente la immobilizzava. Dalla cui
situazione venne fuori la polemica frase:
“Ci voleva anche il cane bischero!”
Una frase che, al momento senza
farci troppo caso, ho adottato recentemente anch’io per Franco, il mio
macchiatino, pur valente responsabile della sicurezza della casa e del
giardino, abbaia anche ai vicini di casa pur non essendocene effettivamente
bisogno. Forse per attirare l’attenzione o anche per proteggere le sue
proprietà in maniera preventiva, quando ha un osso comincia a fargli la guardia
e a ringhiare a tutti, per giorni, notti incluse, anche e specialmente se gli
altri se ne fregano di lui e del suo osso.
Figurarsi che in Brasile di
avocados (qua si chiamano abacates) ce ne ho diversi alberi in giardino e
specialmente quando c’è vento ne cadono giù di non completamente maturi, che la
gente per portarli al punto giusto li incarta con fogli di giornale e in
qualche giorno sono pronti.
I miei cani non solo se li
mangiavano, ma se li litigavano addirittura. Franco, bastardino bianco a
macchie nere e marroni, se ne porta uno nella cuccia, non completamente maturo,
ne mangia la parte più molle e matura, poi gli fa la guardia per giorni,
aspettando che maturi, ringhiando a chiunque si avvicini. Ultimamente lo porta
fuori e lo mette anche al sole, per farlo maturare prima.
Agata, era una bastardina beige
più anziana e sapeva però come fare per fregarlo. Quando lui era addormentato o
distratto, arrivava come un lampo abbaiando a tutta forza e prendendolo di
sorpresa gli portava via l’avocado restante.
E poi perché i cani si devono
sempre chiamare con nomi inglesi? Magari perché sono più corti, o forse perché
si vedono troppi film americani? Non mi garba tutta questa assurda moda, anzi
non mi piacciono le mode, in generale.
I miei cani hanno avuto tutti nomi
italiani e corti. Alfio è stato il primo, un pastore tedesco che gli mancava la
parola, tanto era intelligente. Altra moda senza senso, molto meglio che non
parlino, almeno loro, che a parlare ci pensa la gente e di gente che parla ce
n’è già anche troppa. Quello che apprezzo nei cani è proprio il silenzio, il
loro sguardo pieno di entusiasmo bambino, quel loro respiro forte, ma che
infonde tranquillità, mi rassicurano e mi tranquillizzano, è bello dormire
insieme a loro davanti alla televisione senza volume e una fioca abat-jour
accesa.
Il mio primo cane brasiliano, con
la casa ancora in costruzione, è stato Alfio, un pastore tedesco a pelo medio.
Appena preso da un negozio specializzato si è ammalato di parvo-virosi. Il
veterinario, che era una donna e precisamente una mia allieva di lezioni
private, ha chiamato la proprietaria di quel negozio dicendo che secondo lei
non era tanto specializzato, la quale ha interloquito dicendo che me ne avrebbe
dato un altro e io ho detto di sì.
Ma
esattamente quando ho acconsentito, Alfio che non era ancora stato battezzato
ed era sdraiato di fronte a me, si è alzato e mi ha guardato negli occhi, poi
si è messo seduto a fissarmi.
Io allora ho detto di no e dopo
una settimana di flebo, grazie alle quali è guarito e ha preso l'abitudine di
mangiare sdraiato, Alfio è tornato a casa.
I
lavori erano ancora all'inizio e noi dormivamo ancora nell'appartamento in
centro. Alfio è rimasto con i muratori che dormivano in garage, perché
abitavano lontano e poi così potevano fare il churrasco e ubriacarsi tutte le
sere, meno che nel fine settimana che andavano a bere e a casa e ci facevano
anche il relativo churrasco, probabilmente.
La veterinaria aveva raccomandato
di non dargli la carne, prendeva ancora delle pasticche ed era convalescente.
Poi i muratori confessarono, tempo dopo, che gliela davano invece, perché il
cucciolotto era troppo simpatico e gli saltava addosso per prendergliela,
quando facevano le loro grigliate quotidiane. Io sospetto che quando finirono i
lavori loro avevano già speso lì tutti i soldi che gli avevo dato. A parte il
churrasco che si facevano tutti i santi giorni e la carne è una cosa cara, in
più si ubriacavano sempre, giocavano al gioco del Bicho che è una specie di
lotteria popolare, che fanno in tutto il Brasile e chi vende i numeri è un
abusivo tra i tanti, ma le estrazioni appaiono alla tv.
I muratori erano tre, ma per i
lavori più duri, come la gittata, che loro non c’avevano nemmeno le paioline o
tantomeno la betoniera, allora intervenivano vari colleghi amici e la sera poi
la cachaça e la birra correvano a fiumi.
Alfio
passava più tempo con loro che con noi, novelli sposi, per attirare la loro
attenzione si sdraiava dove stavano lavorando e loro con immensa pazienza
andavano a lavorare altrove. Un classico era il mucchio di sabbia, dove scavava
il manovale lui si sdraiava; poi cambiava posto e l’altro andava sdraiarsi là.
Per riuscire a far lavorare i lavoratori, facemmo un recinto con i lunghi
pannelli di Eternite, ma da là Alfio
protestava abbaiando tutto il tempo.
Era un cane bello e simpatico, ma
scavezzacollo, come tutti i giovani. Quando i muratori non c'erano già più, si
fece male e la veterinaria ci fece mettere il vecchio secchio di plastica usato
per il cemento attorno alla testa di Alfio, per non leccarsi la ferita.
All'inizio lui rimase molto abbacchiato, almeno per i primi cinque-sei minuti,
poi iniziò a correre su e giù per il terreno come se non fosse successo niente
e la notte, visto che il suo pelo era assai assai scuro, quasi tutto nero e con
poco marrone, si vedeva solo un secchio bianco che saletellava e vagava
instancabilmente nell'oscurità.
La compagnia dei cani e dei gatti mi è spesso più
affine e d’aiuto di quella umana, forse perché il cane non usa le parole,
magari perché il suo pensiero è più essenziale e non si perde nei meandri del
ragionamento.
Il cane mantiene la sua serietà anche quando è buffo.
La felicità dei cani, mi sembra, sia soprattutto nel
sentire e riconoscere la natura, tutto quello che esiste, attraverso gli odori.
La gioia che noi proviamo nel
contemplare uno stupendo paesaggio, magari un tramonto, più raramente un’opera d’arte, oppure nell’ascoltare una canzone
che in qualche modo amiamo, i cani la percepiscono con l’olfatto. Se un cane potesse formulare la sua personale e animalesca
idea di bellezza e di piacere conseguente, lo farebbe principalmente considerando
quello che gli passa attraverso
l’umido naso.
BUON APPETITO!
In Brasile non si usa dire buon appetito, forse perché lo si
ritiene superfluo e implicito, quello c’è sempre.
Il churrasco è la specialità di qua e il fine settimana a Porto Alegre
basta respirare per farne una scorpacciata. Qui intorno tutti, se non almeno un
90%, arrostiscono la carne nel forno a legna e carbone che una casa, per essere
una casa, deve avere per forza.
La carne qua nel sud del Brasile è
la base di ogni refezione, pochi perdono l’occasione per margiarne a pranzo e a
cena.
A nord la chiamano Carne do Sol , carne del sole, perché è
seccata sotto i forti raggi locali, lo charque
è una carne secca e salata tipica di questo stato brasiliano, una volta tanto
importante perfino per la loro economia, per il quale si fece addirittura una
guerra, che fu perduta, sì, ma che ancora oggi si festeggia ogni anno a
settembre, perché nonostante la grande disparità dei mezzi si resistette
impavidamente contro il nemico Paulista per un bel po'.
La classe di Relvado ne era fiera,
come tutti qua, di quella specialità e mi invitarono a cena, dopo la lezione,
in un ristorante specializzato in quel Riso
alla Carrettiera (Arroz Carreteiro) in cui la carne secca in questione era
base del sugo e secondo loro una leccornia fenomenale, per ovvi motivi, che
dovevo assolutamente assaporare. Ho avuto grosse difficoltà a mangiarlo, ma
penso di essere riuscito a dissimulare, insomma loro hanno fatto finta di non
accorgersene.
Quando m’invitavano a cena in Italia
andavo tranquillo, assai difficilmente si mangiava male e se accettavo sapevo
che anche la compagnia era buona. Qua invece cerco d’inventare una scusa
plausibile, perché mi sono spesso trovato in situazioni imbarazzanti e non
sapendo fingere mi sono vergognato anche di me stesso, dopo.
Il fatto è che noi italiani siamo
abituati troppo male, se andiamo a mangiare da qualsiasi parte del mondo,
resteremo quasi sempre delusi e con la fame.
Per esempio se m’invitano in un
ristorante cinese, per non rifiutare, e per fare una cosa differente dal
solito, ci vado, ma poi ne esco affamato.
Se voglio veramente fare una
mangiata come si deve, al massimo accetto un ristorante francese, ma devo stare
attento anche lì alle cose che non mi piacciono come lumache e cacciagione sul
limite del marcio.
Una volta sono stato invitato,
come tutti i miei allievi della classe di italiano dell’ottavo livello, a cena
a casa di Gary che cucinava piuttosto bene, per questo mi fidai. Gary
Ordakowskji Brandt, è di origine russa e a suo dire della famiglia stessa dello
zar, da parte di madre e di padre irlandese, fuggiti in Francia e poi in
Brasile quando lui aveva solo dieci anni.
Eravamo sette e la cena era in
pratica un piatto unico di pasta con sugo di pesce, per il quale era stato
scelto un taglierino integrale, direi poco appropriato e poi il peperoncino era
andato oltre misura.
Questa storia di antipasto, primo,
secondo e contorno è tipicamente italiana e al mondo ce l'abbiamo solo noi, se
non erro. Altrove il piatto unico regna, se non impera, accompagnato da riso,
insalata e altre cose, anche se si tratta di pasta. Per noi è un sacrilegio, ma
è così.
Sapendo come so di essere fin
troppo sincero, mi ero preparato una critica benevola, avrei mentito sulla
bontà del piatto in questione, dato che qua si fa così e poi loro non hanno
certo il gusto raffinato di chi è viziato come noi peninsulari. Per loro, se
anche lo pensassero, dire totali o parziali bugie in assoluto è routine, sono
tutti ottimi simulatori e dissimulatori, in sintesi potenziali manipolatori
naturali.
I rapporti tra le persone sono
molto più soavi che da noi e la gente qua tenta sempre di trovare il positivo
anche dove non c’è, mentre in Italia ci si lamenta anche per abitudine, quando
non solo è superfluo, ma contro-produttivo.
La compagnia era buona, il vino
anche, ben presto mi dimenticai di ogni remora, bevvi assai e mi immedesimai in
quell'atmosfera di sentirsi sé stessi, come faccio quasi sempre, anche quando
-come professore - non posso o meglio: non potrei.
Il vino rosso gelato non era
appropriato, come secondo me non lo è mai, diciamocela tutta, nemmeno la pasta
integrale. Né così tanto peperoncino con quel tipo di sugo di pesce, ma il
risultato non era proprio tremendo, insomma si lasciava mangiare e aiutandomi
con gli accompagnamenti di riso, insalata, crostini, crocchette e altre cose
servite tutte insieme e se vogliamo fuori luogo, ma provvidenziali, sono
riuscito a far finta. Sennonché preso alla sprovvista mi sono dimenticato del
mio buon senso, che ce l'ho anch’io, ma non sempre lo uso e avevo trincato
tanto, diciamo troppo.
Forse ero anche piuttosto
paonazzo, quando alla fine e a sorpresa mi chiesero se anche un italiano
pignolo e fissato come me, aveva potuto assaporare appieno quella meraviglia di
cena.
Suggerendo già nella domanda
provocatoria, che era proprio il momento giusto per fare il brasiliano e
mentire, insomma simulare e dissimulare rotondamente come fanno loro,
dichiarare che era stata una cosa gustosissima, da nessuno metterci dei difetti come dicono loro, che mi
congratulavo e ringraziavo eccetera eccetera.
Invece fu il vino che prese il
comando e quella domanda come provocazione, come stimolo appropriato per dire
la verità, nient’altro che la verità, pur senza giurarlo, non ce n’era bisogno.
Tante volte nella mia vita avrei
voluto tornare indietro, quella fu una, in cui mi vergognai della mia esagerata
presa diretta senza filtri.
Per fortuna loro sono assai
elastici, risero e si divertirono per la mia totale mancanza di tatto ed
educazione. Per come bonariamente non reagirono, direi che da me se lo
aspettavano.
PALI E FRASCHE
Con Marli difficilmente avrebbe
potuto funzionare eppure, o forse proprio per questo, all'inizio mi aveva
catturato e pensavo che sarebbe durata. O forse no, ero solo infatuato e poi
lei cominciò a fare la prepotente e questo segnò la fine del nostro rapporto.
Dopo due mesi voleva sposarmi e diceva che ero troppo lento a decidermi.
Due cose buone mi sono rimaste,
con lei ho iniziato a scrivere i racconti sulla spiaggia di Matadeiro, voglio
dire a farlo in maniera disciplinata e allo stesso tempo entusiasta.
Un'altra cosa buona è stata
l'abitudine regolare a lavarmi i denti prima di dormire che è durata per anni e
ora l'ho già perduta.
A proposito dei miei racconti, chi
mi ha convinto e portato materialmente a pubblicarli è stato Gary, che mi ha
pure presentato Ubiratão che mi ha condotto per mano fino al libro cartaceo.
Certo poi la distribuzione l'ho
dovuta fare io di persona, con due lanci nel Museo del Lavoro di Porto Alegre,
di cui il secondo completamente fallimentare. Quello che conta è che poi, rotto
il ghiaccio, ne ho pubblicati oltre una decina, quasi sempre sborsando dei
soldi, senza avere mai un editore serio o disposto a far conoscere veramente
l'opera in questione.
Di quel primo libro ne ho ancora
186 copie che non so proprio come sbolognerò, ma buttarle via non posso.
Qualcuno l’ho venduto a scuola quando insegnavo per il consolato, pochi altri
nelle librerie di Porto Alegre. Sommati a quelli donati, comunque ottocento se
ne sono andati, e a qualcuno sono perfino piaciuti.
Ubiratão è morto e con Gary, mio
ex allievo di italiano, ogni tanto facciamo qualche videoconferenza. È un
pittore, ma i suoi quadri sono quasi al confine della scultura, è un
personaggio simpatico, ma differente dagli sterotipi conosciuti.
Mio padre diceva che nessuno è
normale e io aggiungo che lui ne era la dimostrazione vivente. Io stesso ne ho
ereditato alcune magagne, non tutte maledette, certe cose utili, altre
deleterie.
I brasiliani mi piacciono di più,
perché sembrano bambini che giocano a fare gli adulti, un po’ come me. C’è da
notare anche che ho abitato proprio nei tre paesi che hanno vinto più mondiali
di calcio di tutti, tredici su venti. Forse significa qualcosa, ma cosa?
In
Brasile c'è tanta o troppa marijuana che qui chiamano macogna (maconha). Droga
cosiddetta pesante quasi mai, due volte ho provato la cocaina, ma forse non era
tanto buona, insomma mi ha fatto l’effetto di due espressi napoletani.
Il
salto di palo in frasca a me piace, non solo scrivendo, so che potrebbe
confondere l'eventuale interlocutore, però scongiura la noia e provoca dei
piccoli sobbalzi al cuore, senza i quali, sopita ogni emozione, non solo l'omo,
ma anche la donna, aspettano solo la morte.
NONA
PARTE
COSTRUIRE
IN BRASILE
Mi avete chiesto se i lavori qui
in casa sono finiti o come stiano procedendo. Se veramente lo volete sapere, il
discorso è abbastanza complesso. Ecco una possibile risposta, forse troppo
lunga, ma se avrete un po’ di pazienza, ne riceverete in cambio un'idea
completa e magari vi divertirete anche, alle mie spalle.
Del tutto
per caso - o forse è stato il solito destino burlone - mi sono imbattuto in
un muratore brasiliano
che conoscevo già da tempo, uomo insomma che aveva fatto alcuni lavoretti a
casa mia, anche cose medie o più grosse, di muratura e carpenteria,
falegnameria eccetera.
Se hai
bisogno di qualcuno che ti faccia un po’ di muratura, qualcosa d’idraulica,
modifiche e riparazioni all’impianto elettrico, taglio di alberi, di rami
invadenti eccetera, qua nella zona sud di Porto Alegre c’è Carlinho,
professionista un po’ lento ma veramente capace in tutto quello che fa, se e
quando lo facesse. L’unico difetto è che se sei un tipo ansioso lui ti porterà
all’infarto, a qualche tipo di ictus e allora può diventare meno conveniente
anche per lui, perché non lo pagherai come promesso.
Il primo
lavoro che mi fece, lo dovetti rifare tutto di sana pianta, ma non era colpa
sua. Ci aveva messo un poliziotto in pensione, alle sue dipendenze, che era
sparito lasciandomi le pietre in mezzo alla stradina per arrivare al garage e
poi aveva fatto, con il solito pesante ritardo e schifosamente il lavoro in
questione. Erano diversi anni fa, stava ancora imparando il mestiere.
Non lo
avevo più cercato anche perché le ultime volte mi aveva promesso di venire poi
non si era presentato, almeno tre o quattro volte.
Non è
capace di dire di no, avevo pensato, è un bravo ragazzo. Non ero lontano dalla
verità, ma il discorso era un po’ più complicato.
Quando
sono arrivato ad abitare qua lui viveva nella casa di fronte al mio cancello di
entrata e la strada è stretta, il cancello peggio, la pendenza è forte e
bilaterale, entrare e uscire è già difficile, ma se qualcuno posteggiava di
fronte al cancello di Carlinho, diventava praticamente impossibile.
Se non era
lui era un suo fratello, ce ne aveva tre, ma ora uno è morto, non voglio dire
per fortuna. Insomma lì davanti c’era sempre qualcuno che m’impediva di entrare
e di uscire. Qualcuno che se sollecitato poteva spostare la macchina con la
necessaria calma.
Magari
l’errore fondamentale era mio, che avevo un cancello troppo stretto e che
tecnicamente partivo sempre in orario, ma sul filo del rasoio e in probabile
predicato per un prossimo ritardo.
Oppure la
colpa era della strada, eccessivamente sterrata e in pendenza eccessiva.
Figurarsi che quando scendevo dalla macchina, per chiudere il cancello, notavo
che una ruota della macchina rimaneva per aria, senza toccare terra. Terra si
fa per dire, giacché - per arginare l’erosione - la gente ci buttava dalle
pietre al calcinaccio, rifiuti vegetali o animali, tutto e il contrario di
tutto. Io stesso avevo fatto diversi esperimenti interessanti, non solo per il
bene della scienza, quasi tutti inutili o addirittura dannosi all’economia
della strada, alla mia entrata e uscita, stimolo o provocazione alle altrui
bestemmie, che per fortuna qui non fanno parte della cultura e ci si limita
alle parolacce ripetute, insomma ci si accontenta di ritornare a più riprese
sulle stesse.
La
puntualità in Brasile è considerata una cosa da stranieri, un orario è appena
indicativo per stabilire il relativo ritardo necessario e puntuale,
immancabile.
Bugiardi
qua sono tutti, ma esistono vari livelli e classificazioni. Carlinho stesso non
annunciava mai una cosa che poi avrebbe effettivamente fatto, poteva esserci un
vago fondo di verità, ammettiamolo, ma mai esattamente come lui aveva detto,
con la scadenza che aveva preannunciato, con la totale efficacia che aveva spergiurato
che ci sarebbe stata, senza alcun dubbio, ma che alla fine non c’era e non gli
assomigliava nemmeno da lontano. C’è da dire che qua le altre piccole ditte di
costruzione sono molto peggio, quindi bisogna accontentarsi, anche se ci si
trova approssimativamente vicini alla più larga e confusa approssimazione, non
si può certo chiamare una grande impresa, dopo sennò come si fa a pagarla?
Nel calcio
succede una cosa diversa, ma in certo senso simile: una squadra di una
qualsiasi altra parte del mondo spera di fare bella figura, di avanzare più
possibile, di classificarsi bene. La squadra del Brasile parte per un mondiale
dichiarando che è sulla rotta per la vittoria finale, in ultima istanza l’hexa,
che sarebbe il sesto titolo. Ma lo dice dal 2002, dopo aver vinto il penta,
cioè il quinto. Cioè essere ottimisti è una bella cosa e pessimisti una pessima
cosa, ma in entrambi i casi, meglio sarebbe non esagerare. Per loro arrivare
secondi è molto peggio di arrivare ultimi.
Mi ricordo
un tecnico di una squadra di serie B dello stato di San Paulo, il San Caetano,
che arrivata in A grazie a lui e per la prima volta nella sua storia, per due
campionati consecutivi arrivò seconda. Lo mandarono via senza lesinare in
offese.
Carlinho
soffre di convulsioni, prende medicine non so da quanto tempo, dice che con
queste pasticche non le avrà più, ma un giorno ha perso i sensi ed è caduto da
sopra una massicciata che stava facendo, della sua casa, ha battuto la testa e
lo hanno ritrovato solo molto tempo dopo, non si sa come sia sopravvissuto,
diciamo che ha avuto culo, ma forse ne avrebbe avuto di più morendo, dipende
dai punti di vista e dai livelli di ottimismo.
Con i suoi
disturbi non avrebbe nemmeno potuto bere, ma fino a poco tempo fa era ubriaco
tutte le sere dopo il lavoro, ora forse ha capito che non ci può più scherzare.
È una
persona intelligente, alla sua maniera, forse non ha studiato, anzi di sicuro,
ma altrettanto di sicuro fa lavorare il cervello. O almeno è in grado di farlo,
solo che non lo fa sempre e a volte preferisce addirittura evitarlo.
L’altro
giorno per esempio ha lavorato duramente per togliere le tegole dal mio tetto
ed erano solo in due a farlo, un lavoro massacrante. Una volta scoperchiatolo
dovevano aggiustare il sottostante telaio di legno per poi metterci le lastre
di Eternite, e fissarle con il trapano e le viti autofilettanti. Qui si chiama
Brasilite, che ora fabbricano senza più amianto. Pare che fossero cancerogene,
ma Carlinho dice che è solo perché essendo un materiale indistruttibile alla
fine non c’era ricambio e l’industria della costruzione non si arricchiva
abbastanza.
Carlinho
diceva pure che non sarebbe piovuto, di non preoccuparmi. Ora, quando mi dice
così, io mi preoccupo di più, di colpo il mio livello di preoccupazione sale,
impossibile cercare di controllarlo.
Quando il
tetto era scoperto, non c’era tempo per fare una sistemazione del telaio per
poi avvitarci le nuove lastre all’incirca di un metro per due, la pioggia
secondo le previsioni era imminente.
Un
capitolo a parte meritano le previsioni del tempo brasiliane, d’accordo che qua
il clima subtropicale è particolarmente ostico, perché il caldo equatoriale
sopra di noi si scontra con il freddo antartico, grazie ai venti della
Patagonia, o per colpa loro. Fatto sta che non indovinano nemmeno quasi mai se
e quando pioverà, ma hanno la petulanza di prevedere, nero su bianco, quanti
millimetri di acqua cadranno, giorno per giorno, ora per ora. Alla gente di qua
piace guardare su internet e vedere tutta questa fottuta tecnologia, non ci
pensano proprio che poi non ha niente a che fare con la realtà vera.
Mancava
anche poco all’oscurità insomma e Carlinho con l’aiuto del fratello Ireno e di
due altri manovali sopraggiunti, hanno tirato su tutte le lastre di Brasilite,
e le hanno disposte su tutto il tetto, senza fissarle, tappando con dei teli di
nylon le parti scoperte. I pannelli erano troppo pesanti e il vento non li
avrebbe scoperchiati, o almeno così speravamo.
I nostri
armadi erano pieni di vestiti e poi c’erano i letti, i mobili e gli armadi
stessi, fatti di una specie di truciolato, non possono assolutamente bagnarsi,
sennò si sfanno. Il truciolato è l’unica opzione, perché il legno è soggetto al
Cupim, che è una specie di termite, ma molto più veloce e tremendo di quello che
sono i tarli in Europa.
Le
previsioni stavolta erano di qualche rovescio, roba leggera, rigorosamente
senza vento, specificavano anche, come di solito, i millimetri esatti, pochi
comunque e ben distribuiti durante la notte. Manco a farlo apposta si è rovesciato
il mondo sul mio povero tetto, i teli hanno fatto solo da filtro, l’acqua è
entrata a catinelle in casa, cioè le catinelle le avevo messe io da sotto, ma
non sono bastate, allora ho messo attorno tutti i panni vecchi che c’erano in
giro, ma anche quelli sono stati un palliativo, perché sono seguiti due giorni
di pioggia e vento ininterrotti.
Sotto il
ruscello più forte e i relativi affluenti avevo costruito anche una geniale
piscina di nylon e legno, quando improvvisamente ha smesso di piovere. Ero riuscito
a salvare i mobili e i letti, comunque.
Non è che le previsioni del tempo
non ci azzeccano mai, secondo me bisogna saperle interpretare, per esempio se
dicono che pioverà poco allora pioverà tanto, o viceversa. Se dicono niente
vento, allora ci sarà una tempesta, se la previsione è una pioggia che durerà
poco allora non smetterà più.
Questo clima subtropicale è
piuttosto ingannevole e burlone, poi nella vita bisogna essere mezzi filosofi,
una volta fuori fare quello che volete, ma qui è indispensabile sia capire, che
accettare di non poter capire.
Oggi c'è un temporale e i cani
entrati in casa per paura dei tuoni non si sentono abbastanza rassicurati e mi
guardano come se io fossi Dio, e allora secondo loro volendo potrei farla
finita schioccando le dita, con questo bombardamento che è uno stress fine a sé
stesso. Mi vedono tranquillo e sicuro, forse secondo Agata e Franco mi sto
divertendo un po' alla faccia loro, anche se poi invece si tratta solo di
musetti impauriti.
Cambiano posto, se mi alzo mi vengono
dietro, forse la porta del terrazzo semiaperta per loro è il luogo meno
indicato. Ero venuto qui per scrivere e per respirare meglio, ma non ci
possiamo rimanere.
La notte
porta consiglio, è vero, ma funziona meglio se riesci a dormire. Se non dormi
per due notti il consiglio è più confuso e improbabile ancora.
Ho pensato
che i colleghi di Carlinho sono tutti peggio di lui, almeno quelli di cui io
abbia notizia: prendono tutti i lavori che gli chiedono di fare e li
distribuiscono alla rinfusa nel tempo, facendo in maniera che tutti i clienti
rimangano equamente incazzati, eppure impotenti.
Il metodo è quello collaudato e
consacrato: arriva con del materiale, fa qualche telefonata, poi dicendo
che torna dopo poco, scappa. Lo rivedi nei quattro o cinque giorni successivi,
ma comincia a piovere e non si può lavorare. Intanto casa tua è nel caos e
nella sporcizia.
Il fatto è
che lui sta sempre sotto pressione, anche se quella pressione ormai non la
sente più. Figurarsi che non vuole rimanere a casa, perché c’ha troppi
lavoretti arretrati da fare, me lo ha confessato lui, preferisce avere troppi
lavoretti arretrati da fare fuori, gli ho detto io, e lui ha sorriso. C’era un
fondo di verità nella mia frase, forse, ma ha preferito non pensarci troppo.
Ho notato
che la colpa non è mai sua e che se ingenuamente gli dai corda, lui comincia a
lamentarsi dei torti subiti dal mondo in generale, ma principalmente dai suoi
fratelli, smette di lavorare a tempo indeterminato, finché tu non scappi con
qualche scusa e non torni più.
Tonico, il
vicino di casa alla nostra destra, è anche nostro amico e aveva un armazem (magazzino – alimentari) qui a
pochi metri, che ha chiuso da non molto tempo per eccesso di rapine, con la
crisi degli ultimi anni gli portavano via soprattutto le cose da mangiare.
Purtroppo Tonico è anche amico di Carlinho, che a pranzo automaticamente va là
da lui e torna ore dopo, credo anche mezzo ciucco, ma è difficile notare la
differenza.
I manovali
appena li paghi spariscono, quindi ne ho conosciuti in grande quantità. La
qualità professionale abbastanza livellata, è bassa o nulla, in più mi pisciano
da tutte le parti, ma all’erba o alla nuda terra preferiscono le aree
cementate. Alcuni sono molto simpatici, assolutamente tutti bevicchiano, si
presentano vari livelli e classificazioni.
Secondo
me, il suo manovale migliore era Murilo, uno giovane, di colore, alto giovane e
forte. L’altro giorno tranquillamente montava e scendeva, su e giù, con un
secchio pieno di cemento la scala fino sul tetto. La casa è di due piani, che
se ci provavo io morivo dalla paura di cadere, proprio cadendo dalla scala,
virtualmente ma anche materialmente schiacciato da quel peso. Lui lo ha fatto
per ore, avanti e indietro, con calma. Un secchio di cemento, acqua e sabbia,
poi uno di mattoni pieni, alternando, senza fermarsi. Mi faceva paura solo a
guardarlo, sono scappato dentro.
Oltre alla
sua innegabile forza fisica, lo sprezzo del pericolo è notevole, che se
qualcuno qui casca da sei metri o più di altezza, la sicurezza sul lavoro nero
non esiste e non è pagata, se non con la prigione, in questi casi non so cosa
succederebbe e non ci voglio nemmeno pensare. Là dentro ho considerato che
Murilo è il migliore anche perché quando Carlinho comincia a lamentarsi del
mondo lui non gli dà ascolto, quindi il muratore se ne stanca e il lavoro rende
di più.
Nella casa
di fronte al mio cancello, di proprietà di Carlinho, ora abita una coppia di
colore, lei lavora come una schiava in giro a pulire le case altrui e lui sta
tutto il giorno a bighellonare, ascoltando musica orribile ad alto volume, dice
che c’ha il cancro, ma non muore mai.
La tettoia
di fianco alla casetta sta per crollare ed è pesantissima, che se passa
qualcuno sotto: gatto, cane o essere umano, ci rimarrà ugualmente schiacciato.
Glielo hanno più volte detto a Carlinho, ma lui ha fatto orecchie da mercante,
anzi peggio: da muratore brasiliano.
Sopra c’è
un albero preistorico enorme che ha dato già grossi problemi con i fili
d’elettricità della via, i suoi rami sembrano rugose collottole di Brontosauri
e arrivano sopra il mio terreno, perdono dei baccelloni che continuamente trovo
per terra e spazzo senza riuscire giammai a liberarmene. Dicono tutti che è
pericoloso, che può cadere, se non l’albero i suoi rami pesantissimi lo hanno
già fatto, ma lui non ci crede, non gli pare probabile, forse non conosce
neppure la parola.
Il cupim è
una specie di tarlo che come ho già detto rode il legno. A casa di Carlinho,
gli inquilini, per non rimanere sempre sotto la polvere che gli animaletti
lasciano cadere dal soffitto, lo hanno foderato con grandi teli di nylon. La
casa non ha neanche i vetri alle finestre, non so quanto pagano di affitto,
magari non glielo pagano nemmeno.
Alla fine
ho concluso che il profilo di Carlinho forse non era il più adatto alle mie
esigenze, sia dal punto di vista puramente filosofico che vieppiù dal semplice
e normale bisogno di un muratore abbastanza poliedrico, ma un po’ più
razionale, per le riparazioni della casa in questione, la mia. Prima credevo
che lui non si facesse pressare da niente e da nessuno, ma non era un calcolo,
nemmeno una cosa lontanamente ragionata, era solo una roba fisiologica. Allora
gli ho chiesto, magari per tentare di comprendere una ben determinata
situazione, in cui però mi ero già trovato altre volte e non solo con lui:
“Ma se tu
dicessi ai tuoi clienti che in quel momento hai troppo lavoro, che non puoi
prenderne uno in più… pensi che perderesti i tuoi clienti? O che magari
rimarresti inattivo?”
Non mi ha
subito risposto direttamente, nemmeno dopo con calma e neppure indirettamente,
a dir la verità. A seguito di una spirale di sue lente frasi, ho capito che a
casa sua ha troppa roba arretrata da fare e che questo è il motore delle sue
scelte, o forse solo il freno. La pressione della moglie è l’unica che teme, le
altre non le considera nemmeno esistenti. In più la prassi è quella, tutti
fanno così, non si conosce un altro tipo di pratica lavorativa.
Da questo
e da altri fatti contingenti, in seguito ho capito che noi, tutti, a vari livelli
e classificazioni, abitiamo la nostra vita portati in giro da venti montani e
correnti marine, spinti o frenati da motivi vari e differenti, spesso poco
importanti per una qualsiasi efficace economia, ma che ci trascinano od
ostacolano in misure irregolari e discontinue, per portarci a un traguardo
senza farci capire quando, come, né perché. O se quello sia da considerarsi
effettivamente un traguardo.
La mia
tattica con Carlinho è di pagarlo con il contagocce, così ho pensato che sia
obbligato a tornare a finire i lavori. Poi lui invece sparisce lo stesso e mi
chiede i soldi per telefono.
DECIMA PARTE
LETTERATURA
DALLA PARTE DEL MANICO
"Ho
cominciato a scrivere seriamente da qualche tempo, anche se ogni tanto mi
scappa da ridere. Scrivere
è un po' come confessarsi, solo che i lettori non saranno necessariamente dei
sacerdoti. I peccati non vengono dichiarati apertamente, ma come nelle
parabole, nascosti e camuffati dentro le storie. La penitenza è quella di dover
correggere gli errori, dare al testo un’apparenza piacevole e scorrevole,
insomma dover leggere e rileggere più volte quello che hai scritto,
confrontarcisi non solo a livello di grammatica e sintassi, ma anche e
soprattutto con quello che dici, il rapporto che dovrebbe avere con la realtà.”
“Sì?”
“Non
lo so. Scrivere è come una psicanalisi in cui il terapeuta è anche il paziente,
per questo ci vuole calma e saper mitigare l'impazienza di vedere pubblicata la
nostra creazione, il nostro parto. La creatura verrà fuori sempre con un vizio
o l'altro, allora si cerca di educarla, ma noi stessi non siamo nemmeno
lontanamente perfetti, qualche magagna sarà necessaria ed ereditaria, farà
parte dello stile.
Scrivere è come parlare per chi
accetta che spesso non verrà udito o capito, leggere è come ascoltare perché
anche non comprendendo appieno ci si troverà immedesimati in una riflessione,
che ci porterà a ricordare qualcosa che altrimenti non si sarebbe mai
raccontato nemmeno a sé stessi.
Scrivere è come viaggiare nello
spazio e nel tempo, pur senza muoversi, ma le ore passano veramente e quando si
ritorna dentro il corpo, si ha fame, sete e voglia di fare la pipì.
Scrivere è un su e giù incessante
di lima, confessa Oscar Wilde di aver tolto con tutto il lavoro del mattino una
virgola e con quello del pomeriggio di avercela rimessa.
L'errore si nasconderà all'autore
finché, esposto al pur esiguo pubblico, lui stesso lo vedrà e si chiederà come
e perché non l'avesse visto prima, non saprà rispondersi, ma lo correggerà, se
non verrà distratto da un pensiero improvviso e concatenato, una cosa solo
scritta o di conseguenza, qualche altra inezia lì vicino.
Se la parola è un pezzo della
nostra espressione, un mattoncino romantico che con la modernità ha perso gran
parte del suo valore, insieme al significato della verità, la bugia e la
banalità imperano e probabilmente non lasceranno mai più spazio alla
sensibilità, che ormai fa solo paura.”
“Spiegati meglio.”
“Scrivere può servire a non
sbarocciare, però può fare anche l’effetto contrario. In genere fa bene, direi,
se sei un certo tipo di persona, perché ti porta a scorgere cose che con il
solo pensiero vengono evitate. Insomma è un esercizio per chi vuole sapere la
verità, ma non bisogna fissarcisi troppo, esagerare è un meccanismo fin troppo
umano e passare dall’altra parte è un volo.”
“A quale tipo di lettore ti
rivolgi?”
“Il lettore non pare il tipo di
vita intelligente più comune, dai più vicini ai più lontani pianeti della via
Lattea, e - per quanto se ne sa - anche oltre. Sia la sua vita, che la sua
intelligenza sono state messe in dubbio, associando la lettura a qualcosa di
inanimato, anacronistico, obsoleto e perciò noioso. Ci sono anche i lettori di
giornali e riviste, ma coloro che leggono libri sono una fetta esigua, di
questi, coloro che lo fanno per il proprio piacere sono meno ancora. Di questa
percentuale di sedicenti talpe occhialute e polverose, quelle che si chiedono
del perché qualcuno si prende la briga di scrivere un libro, sono pochissime,
ma a livello mondiale possiamo dire che senza dubbio esistono, anche se si
nascondono, senza volerlo e senza vergognarsene, nella montagna di coloro di
cui prima.”
“Non ho capito.”
“Lo sappiamo che la gente evita la
verità, il ragionamento logico e l’autocritica, io non ci riesco, che ci posso
fare? Conseguenza indiretta: abbiamo tanti pessimi scrittori, tanto il lettore
non ci fa caso.
Quello che
ho realizzato, in questi anni di pubblicazioni e di pause, è che non ci si può
fare granché, il mondo della letteratura non è molto diverso dal mondo che c’è
intorno. Ultimamente ho testato un po’ il mercato brasiliano per accorgermi che
i sistemi sono gli stessi che ci sono in Italia, con lo svantaggio che la gente
qua legge anche meno.”
“Dici?"
"Io
direi."
"Non
sono d'accordo."
"Nemmeno
io, perlomeno non vorrei crederci.
Guarda:
sono sempre stato a contatto diretto con la realtà, pur sognando a occhi aperti
e immaginando parecchio, questo comporta un dispendio di energie mentali non
indifferente, sia per evadere che per accettare la vita di tutti i giorni e la
relativa routine, è dimostrato che ci si deve sforzare assai, solo per
accantonare tutto quello che ci viene proposto e non ci interessa.
Il
vantaggio di saperlo per me è che scrivendo, almeno dentro di me, vedo ed
evidenzio la differenza tra quello che è la mia immaginazione e quello che
invece accade realmente.”
“Bene.”
“Grazie.
Scrivere è una cosa ormai passata di moda, se per qualcuno questo
rappresentasse un motivo per smettere, per me invece è uno sprone ancora più
forte a continuare. È il manifesto giornaliero di un mondo senza fretta, fatto
di legno e di pietra, di stormir di fronde e foglie al vento, insomma di
romanticismo ancora più sentito e forte, ora che tutto tende al moderno e al
banale stereotipato, il passato viene ricordato dai più come una cosa da
dimenticare.”
“Ecco.”
“E poi Lucca è una piccola città
di provincia snob come tante, in Italia, ma è considerata un microcosmo assai
limitante, da chi la conosce e ha parametri di confronto, esattamente così come
centinaia di altre comunità urbane, soprattutto per chi di là non se ne esce un
po’ in giro per il resto del mondo.”
"Dipende."
“Sì, insomma, ambienti diversi
proprio perché noi non li conosciamo, ma che indirettamente hanno fatto in modo
di formare la tua mentalità e di farti diventare uno scrittore.”
“In effetti.”
“Poco fa hai accennato agli
scrittori e hai detto che sono pessimi, perché?”
“Ah, questa è la domanda!”
“E
la risposta?”
“La relativa risposta è la nota
proprietà transitiva e circolare dei meccanismi della vita cioè: se i lettori
sono pessimi lo saranno anche gli scrittori, per come funzionano le cose… e gli
editori sono solo una conseguenza. Cioè se la base, i lettori, fossero capaci e
critici in maniera costruttiva, tutto si adeguerebbe. Nell'arte in genere è
così, o nella vita stessa: vedi che se i cittadini fossero buoni cittadini,
anche i politici, l’elite stessa insomma, sarebbero forzati e loro malgrado
dovrebbero diventare migliori.”
“Tutto cioè dipende dalla base,
secondo la tua teoria?”
“No,
magari dovrebbe, ma è tutto più confuso, purtroppo non si sa chi dovrebbe
iniziare a rendere il mondo migliore, si pensa che dovrebbero sempre essere gli
altri a fare il primo passo, invece se ognuno facesse la sua parte sarebbe
quasi immediato il miglioramento.”
“Niente di più improbabile?”
“Infatti, basterebbe che ognuno
sapesse chi è… e dove si trova. È troppo difficile.”
“Un'equazione spazio-tempo?”
“Ecco: in poche parole io non
credo affatto nell’efficacia dei movimenti collettivi, sono inevitabilmente
sprovveduti e manipolati, purtroppo è così. Se e quando cambiasse qualcosa in
meglio, allora è per caso. Certo non perché prima si fosse pensato o auspicato
di arrivare a quel risultato.”
“Non è un po’ pessimistico?”
“Sì, ma è anche la verità, almeno
in questo caso. La realtà è molto più complicata e imprevedibile di un
ragionamento razionale. Specie se parliamo di un futuro, di una prospettiva.”
“E
l’italiano in genere è così? Qui stiamo parlando di italiani?”
“Sì, cioè no, io parlavo in
generale, ma se alludi a me e ai miei tipi di ragionamenti ti dirò che
l’italiano è in genere testardo, ipocrita, melodrammatico, polemico ed
esageratamente ironico.”
“Tutte virtù e neanche un
difetto?”
“Nemmeno uno, ci mancherebbe… e
dimenticavo le ramificate manie di persecuzione.”
“A partire da te e dal tuo
focolare domestico?”
“Figurati!
Il mio ambiente, la mia famiglia
non facevano certo eccezione, il toscano, specie quello delle alture è
piuttosto permaloso.
Il primo risultato di questa epoca
fu il diventare un bugiardo, questo è abbastanza comune, solo che con il
passare degli anni rimase parte di me, anzi si articolò e si integrò alle
attività di altre diverse e successive epoche. E comunque un bugiardo che
sapeva mentire malissimo agli altri, ma già piuttosto bene a sé stesso. Magari era
meglio iniziare a scrivere.”
“Ecco, ma, esattamente, quando è
che iniziasti?”
“Non sono
stato molto precoce. Direi quando il mio professore d’italiano delle scuole
medie stroncò un mio tema in classe, che parlava della violenza nello sport:
ero scarsissimo sull’attualità e cercare di raziocinare su notizie imprecise
non mi era riuscito.
Il professor
Sacco che non solo per questo fu il primo insegnante che mi piacque, innescò in
me un meccanismo di rivalsa, di sfida, o scosse solamente il mio cervello pigro
o magari il cuore bloccato dalla mia stessa eccessiva sensibilità, o chi lo sa
cosa… forse perché seppe spiegarmi esattamente perché il mio tema in classe
faceva schifo.
Quello
seguente, infatti, che invece era sui miei progetti futuri, visto che non ne
avevo nessuno e che scrissi totalmente di fantasia, fu un successone e me lo
fece leggere ad alta voce alla classe.
Quindi
diventai in poco tempo bravo a scrivere, nelle altre materie ero abbastanza
scarso, non mi interessavano. In un secondo momento cominciai ad apprezzare e a
essere capace in inglese, ma era una cosa collegata, in qualche maniera.”
“E che cosa
scrivesti, allora, per cominciare?”
“Senza dargli
eccessiva importanza, avevo scritto un libro di pesca, un manuale. Mi piaceva
pescare e avevo preso di qua e di là notizie, aggiunte alla mia personale
esperienza, ritagliato foto e disegnato scene di pesca in acqua dolce.
Successivamente, inoltre, sempre disegnando i gol e le azioni degne di nota,
scopiazzando dai giornali sportivi, ritagliandone le foto, avevo fatto un libro
sui mondiali di calcio del 1974.”
“Ma il vero
passo avanti fu quando scrivesti qualcosa di fantasia, non è vero?”
“Sì, poesie.
Senza rima, e anche senza ritmo, ma si può dire che la poesia moderna non ha
più bisogno di questi schemi e già allora questa libertà mi affascinò.
Per ritrarre
uno stato d’animo o una situazione bastavano poche parole, si poteva scrivere
in pochi minuti, poi ci volevano giorni per correggere e per renderla più
fluida, va bene, ma quello che contava era che il primo sbozzo si faceva in
poco tempo. Dopo si collegava la fantasia con la tecnica e peggiorava ancora,
ma c’era un entusiasmo che porta avanti, che fa correre il novello poeta verso
altre poesie e poi...”
“Quando
scrivesti la prima poesia?”
“La mia prima
poesia non so a quando risale.
Certo in
precedenza un mio amico, aveva scritto un poema volgare ma efficace e comico,
che poi recitava spesso a memoria, specie quando era il momento meno propizio.
E poi scopiazzavo qua e là, traducevo e davo per miei testi di canzoni di Bob
Dylan, Lou Reed e altri. Comunque scrivere poesie era una cosa che mi
intristiva anche di più di quello che già ero, e lo ero assai. Allora, a un
certo punto mi resi conto, più o meno inconsciamente, che il processo da
iniziare era esattamente quello contrario, ma avevo già una trentina d’anni.
Anche qui uno choc fu necessario per cambiare direzione, quello che mi scosse
il cervello e il cuore, fu quando un altro mio amico, mi chiese se avevo per
caso copiato il titolo di una mia poesia, mia autentica stavolta, da quello di una canzone uscita a
quell’epoca: Il mare d’inverno.”
“Allora
abbandonasti le poesie?”
“Sì, da
militare avevo anche iniziato qualcosa che assomigliava ai miei primi passi di
prosa, con una certa convinzione, che non era poi molta, ma avevo così tanto
tempo a disposizione che lo facevo anche per distrarmi.”
“Ma non era
difficile scrivere in mezzo a tanta altra gente?”
“Ah sì, il
fatto è che da militare facevo il magazziniere, diventai quasi subito il più
anziano del magazzino, il sergente Ciccone mi faceva fare quello che volevo,
perché sapevo riempire documenti amministrativi che lui non aveva voglia di
stare a perderci tempo dietro, così facevo a mia volta lavorare gli altri, le
cosiddette reclute.
Allora mi trasferii,
branda e tutto, nel magazzino degli zaini, che veniva aperto solo quando
tornava un militare già congedato, o da una lunga licenza e voleva riprendersi
le sue cose chiuse là dentro, comunque molto raramente, arrivava qualcuno. Non
dovevo nemmeno presentarmi per fare l’adunata, per non parlare poi delle fughe, che erano licenze false, fatte da
noi stessi per andarcene a casa nelle epoche giuste, senza che nessuno se ne
accorgesse.”
“Hai fatto il
militare a diciott’anni?”
“No, feci
alcuni rinvii, perché stavo studiando. Si fa per dire. Nel senso che
formalmente andavo a scuola. Ma quando partii ero già al secondo lavoro.”
“Quali furono
i tuoi due primi lavori?”
“Prima feci
il manovale, per quasi un anno, poi il barista in una pasticceria, un lavoro che
mi piaceva, perché c’era da mangiare parecchio e bene, infatti lo ripresi al
mio ritorno dal militare.”
“Sei uno a
cui piace parecchio mangiare?”
“Sono sempre
stato molto goloso e poi mangio alla svelta, ma questo non fa bene alla salute.
Sono sovrappeso da qualche anno. Per fortuna faccio anche parecchio movimento.”
“Sport?”
“Calcio,
tennis, pallacanestro, nuoto, corsa, ne ho fatti di tutti i tipi. Il calcio più
di tutti.”
“Ma di quali
anni stiamo parlando ora... che anni erano?”
“Nel 1978
smisi di studiare, diciamo che smisi di andare a scuola, per studiare non
studiavo nemmeno prima. Poi iniziai a lavorare, feci il manovale per un anno
circa, poi in pasticceria, un anno dopo, nell’80 partii militare, ad agosto.
Nell’81 ripresi il lavoro in pasticceria.”
“Come erano i
rapporti coi tuoi genitori e con i tuoi fratelli, in quegli anni?”
“L’adolescenza
fu difficile, i foruncoli, i primi duri rifiuti dalle ragazze, la provvisoria
mancanza d’interessi nella vita, la città piccola e ipocrita, il mio carattere in
formazione ma anche troppo al rallentatore… poi i rapporti con i fratelli e i
genitori, considerata anche quella tendenza a drammatizzare citata prima, erano
già pessimi, ma andarono peggiorando fino verso i trent’anni.”
“Che cosa fu
che fece migliorare le cose?”
“Il fatto di
essermi staccato da loro, dalla famiglia, ero andato a vivere, prima a Lucca,
poi a Berlino, poi ero ritornato da loro, nel giugno del 1989, l’anno in cui
cadde il Muro, a novembre.
Poi non ci
resistevo più, a casa, e me ne resi conto.
Ecco, avevo
già un’idea più o meno formata della vita, del valore dei soldi, del lavoro…
insomma, quando ero partito militare ero un bambinone viziato e stupido… dieci
anni dopo non ero certo un filosofo, ma iniziavo a capire che una certa
disciplina nella vita è necessaria, non si può vivere ammucchiando le cose a
caso in un contenitore, il corpo, per poterne approfittare, in seguito, ci
vuole un certo ordine… questo processo uno può iniziare a farlo, se ci riesce,
solo quando la protezione dei genitori viene a mancare, secondo me.
I genitori
perfetti non esistono, anche il mondo attorno non aiuta, ma in Italia forse
abbiamo troppe manie e si passano ai figli facilmente, anche perché tardano ad
andarsene via dalla famiglia, più che altrove.
Quindi con il
servizio militare ho iniziato a rendermi conto, prima di tutto, di chi ero io e
che cosa avevo fatto fino a quel momento… da lì partii per una serie di notti
insonni, per una successiva e necessaria accettazione della realtà e in seguito
per le esperienze a seguire.”
“Interessante.
Ma, tornando alla letteratura, come erano questi primi romanzi?”
“Erano
versioni maccheroniche e mischiate di film e storie già masticate, pieni di
parolacce e di oscenità per colpire il
pubblico, anche se non c’era nessun pubblico, attraverso un sensazionalismo che
all’epoca ancora non esisteva, almeno come termine. Erano comici quando
volevano essere seri e tragici quando volevano essere divertenti. Certo che
poesie e romanzi furono solo un rozzo, ripetitivo e sanguigno esercizio di
formazione, tanto per cominciare dalla maniera più sbagliata, andando per
esclusione, come ho fatto spesso, in generale, nella mia vita, per indecisione
e per conseguente flessibilità, o anche perché, in fondo, m’interessa tutto o
quasi, perciò mi è difficile sapere quanto, finché non ho provato a entrarci
dentro e non ci ho sbattuto perbene la faccia.”
“Che cosa era
per te lo scrivere, a quel tempo? Ne avevi coscienza o lo facevi solo per
farlo? Che ne so: magari per darsi un atteggiamento interessante con le
ragazze?”
“Certo era
una cosa che mi affascinava, in primo luogo, simbolicamente, forse pensavo
anche alle ragazze, ma non mi pare che riscuotessi molto successo con loro,
anche perché mi vergognavo a far leggere quello che scrivevo, specialmente alle
ragazze… in un secondo momento iniziai a usarlo come una buona carta da giocare
in quel tipo di competizione, ma non ho ancora capito se ha mai funzionato con
qualcuna di loro. Forse no.
Penso che la
maggior parte lo interpretò come una specie di pazzia e se ne fuggì a cercare
qualcun altro, anche perché erano cose brusche, rudi, possiamo anche dire rozze
e aggiungerei pure brutte, almeno a quei tempi.
Certo che era
una cosa pratica, perché iniziai a rendermi conto, un po’ alla volta, che
potevo farlo ovunque, bastava una penna e un foglio.
Scrivevo
spesso dopo aver bevuto, allora mi venivano le idee più bizzarre, solo
recentemente mi sono reso conto che le idee vengono lo stesso e senza bere
l’organizzazione del lavoro è migliore.”
“Scrivevi a
mano o a macchina?”
“All’inizio
solo a mano, comprai la mia prima macchina da scrivere a Berlino, al Floh
Markt, il Mercatino delle Pulci, e tornai verso il mio monolocale in affitto
della Tempelherren strasse, fantasticando sul fatto quasi compiuto che la letteratura
italiana, allora in decadenza, stava finalmente per conoscere un nuovo talento.
La macchina
era già un simbolo, la vedevo nei film, gli scrittori ce l’avevano tutti,
l’atto di mitragliare le lettere - che
per me si realizzò solo diversi anni dopo
– era un romantico scorrere di parole e d’immagini, per me che avevo una
fantasia parallela e spesso ben separata dalla realtà.
Non si può
dire che non scrissi proprio niente con quella scassata portatile, che aveva
quel tremendo difetto che quando doveva battere una A entrava invece una B, e
la O invece era un grosso punto nero perfettamente rotondo, che dopo la C
faceva uno spazio automatico e indesiderato, che perdeva il margine a ogni riga
e più altre numerose cosette di minor conto.”
“Che successe
allora?”
“Niente, fu
una di quelle cose che pare che non siano servite a niente, ma fu un piccolo
passo avanti, un poco di sbieco, ma verso qualcosa che intravedevo da lontano e
non capivo ancora bene com’era. Nacque là sopra, per esempio l’idea del racconto
del pianoforte, riformulato e riscritto recentemente, ma che inizialmente era
una chitarra.”
“Quale?”
“La storia
ambientata in Brasile di uno, che più o meno ero io, che va a una festa
all’aperto, si ubriaca e comincia a suonare il pianoforte, senza saperlo
suonare, ma il risultato piace a tutti gli altri, che anche erano ubriachi...
Non so se l’hai mai letto. Il titolo di questo stesso racconto, è cambiato
diverse volte, tanto che non mi ricordo quale sia quello attuale e ultimo, ma
l’idea fu scritta per la prima volta, con quel disgraziato ferrovecchio mezzo
rotto. La storia a quel tempo era completamente differente, ma aveva a che fare
col valore simbolico di quello stesso strumento musicale.
Dopo aver
tentato invano, per un po’, di usarla così com’era, la macchina da scrivere,
poi di aggiustarla per alcuni giorni di lotta furiosa e relative feroci
bestemmie, quel simbolico marchingegno, diventò ben presto un autentico ammasso
di pezzi smontati e sempre più guasti, inutilizzabili.
Lo fotografai
allora alcune volte, nelle varie fasi di smontaggio, nella stenderia di
centinaia di pezzi disposti prima ordinatamente
e poi sempre più disordinatamente - per mancanza di spazio e di
necessaria calma - su fogli di giornale, sul piccolo tavolo bianco da campeggio.
Però quelle
di rimontaggio, di fasi, non ebbero mai luogo, il prossimo passo fu il primo e
mesto verso il bidone della spazzatura.
Stava
terminando rapidamente un’era appena cominciata, ma dentro di me c’erano nuovi
dubbi e fresche certezze, delle quali, naturalmente non mi rendevo ancora
conto, ma che avrebbero fruttato presto ulteriori tentativi frustrati,
leggermente modificati e poi altri ancora, di conseguenza.
La
testardaggine è uno dei miei migliori difetti e certo una delle peggiori virtù
che ho.”
“Cioè, mi
pare di capire, la macchina da scrivere diventò sempre più importante, da quel
momento, o no?”
“Beh… sì,
tornato in Italia, usai per un buon tempo la macchina da scrivere di mio padre,
non ricordo se era in prestito o regalata, ma pare che esista ancora nel suo
studio, anche se lui è morto da anni.
Chissà se ora
gli piacerebbe quello faccio ora, a quel tempo no.
Però si
sforzava di cercare di capire cosa significava, e forse non è stato per caso
che io abbia pubblicato i miei primi libri solo dopo la sua morte: temevo
troppo il suo giudizio, il suo pessimismo come stile di vita.”
“Quando è che
invece si passò al computer?”
“Nel 1991,
con il computer di mio fratello, mi ero appena lasciato da una delle mie
ragazze più durevoli, Mariana, avevo abbastanza tempo di giorno, di notte avevo
una birreria, il Caffè Voltaire, insieme a un socio.
Se non
avessero inventato i computer, probabilmente non avrei continuato a scrivere,
ero arruffone e discontinuo, in più facevo una vita assai sregolata. Con la macchina
da scrivere, dovevo lottare per dei giorni con la stessa pagina, prima di
poterla vedere scritta, senza troppe modifiche, pasticci e cancellature, come
volevo io. Non sapevo nemmeno come la volevo, a pensarci bene.
Poi, quando
teoricamente era pronta, dopo essermi azzuffato fino a diventare esausto, con
grammatica, sintassi e stile, la guardavo per qualche istante e la dovevo
scrivere di nuovo, perché in quel momento l’avevo finalmente vista bene, così
come non la potevo immaginare prima e allora sorgevano subito ulteriori
miglioramenti da fare. Il processo si ripeteva
anche con la seguente stesura, e la seguente che magari poteva sembrare
definitiva, ma non lo era. Fino a darmi quella impressione quasi tangibile di
essere una storia infinita.
E si trattava
solo di una pagina.
Il computer è
una meraviglia, perché permette di correggere, per un numero infinito di volte,
i nostri errori e le cretinate che diciamo, per carità, si stampa solo quando
va tutto bene. Oppure quando ci siamo veramente stufati.
A questo
punto però è bene ricordarsi del passato con la macchina da scrivere, perché
così si diventa più pazienti, più tolleranti con se stessi... e pure con i
computer, bisogna esserlo, come con i casi della vita tutta, ogni giorno.
Certo che
prima dell’avvento dei computer gli scrittori avevano delle volontà
incrollabili, dubito che scrivessero le frasi perfette al primo, al secondo...
o anche al terzo tentativo.
Il computer,
quando funziona, è una meraviglia della natura, anche se si tratta di quella cibernetica.
Quando invece comincia a non voler collaborare, la sua indole è forse fin
troppo burlona e allora si rimpiange, non solo la obsoleta macchina da
scrivere, ma anche la biro, la stilografica fino all’antica penna d’oca, che,
anche se meno rapida e più grossolana, non risentiva di umidità e di
elettricità dell’aria, mancanza di energia, fulmini caduti a castigare il
sedicente autore e a metterne in crisi la confusa memoria.
Lo scrittore
difficilmente poteva perdere le pagine scritte, anche in caso di temporale,
perché le infilava dentro un robusto mobile di legno e la sua memoria era solo
dentro il capiente cervello e conseguente ermetica capocciona intorno. Solo se
batteva una botta di fulmine sulla sua testa gli si mischiavano i propositi
letterari, allora moriva, non potevano nemmeno tirarli fuori di là dentro e
dargli una rinfrescatina di sintassi.
È un fatto dimostrato quanto
misterioso, il successo dei manoscritti postumi.
Magari gli
uomini sono inguaribili romantici, se lo scrittore è morto in povertà la sua
opera avrà ancora più valore, perché tutti s’immagineranno lo stereotipo in
carne e ossa del poveraccio che metteva su carta il suo dramma, giorno per
giorno.
Uno
scrittore, per idiota che sia, non dovrebbe mai buttare via niente, perché dopo
la sua morte saranno soffiate via immancabilmente le polveri stanche dai fogli
ingialliti e pubblicata e ammirata la sua opera, specialmente se incompiuta,
meglio ancora se incomprensibile.
Certo che, a
quel punto, a lui non gliene fregherà più niente, magari l’immortalità è una
cosa che interessa più ai vivi, magari i morti sono indaffarati con altre cose,
ma non si sa quali. Forse si riposano, finalmente, già che da vivi non si
ammettono facilmente pause.”
“Bene,
passiamo ad altro: nella tua vita l’emigrare, il viaggiare, lo spostarsi in
generale, insomma ha avuto una grande importanza, perché e in che modo?”
“Non sono mai
stato un emigrante comune, se è questo che vuoi sapere, me ne sono andato
dall’Italia per noia, per cercare di vivere e d’imparare qualcosa di nuovo.
Viaggiare è
stata una passione che mio padre mi ha trasmesso, quasi a manate, da piccolo ha
cominciato a portarci in giro, anche per forza, io mi ribellavo e non volevo
andarci, ma lui sapeva che era solo per contrariarlo e mi obbligava, poi, ogni
volta, mi piaceva tantissimo, ma non volevo dargli soddisfazione.”
“Nei tuoi
racconti parli spesso di spazio e tempo, perché?”
“Beh, lo
spazio è importante, come il tempo, sono sempre legati e relativi l’uno
all’altro, viaggiando e vivendo in un posto che non è il nostro, dove siamo
nati e cresciuti, si ampliano gli orizzonti, si trascende il limite di spazio e
il tempo diviene anche più malleabile.”
“Spiegati
meglio, per favore.”
“È semplice, se uno resta sempre
sul posto, non si rende conto né che il tempo passa, né che altrove è
differente, cioè non sa come è il mondo, in sostanza non conosce l’esistenza.
La nostra città, il buco dove siamo nati, ci anestetizza e ci fa sembrare tutto
normale, indolore, incolore, senza stimoli.”
“Che importanza ha questo nella
vita di una persona?”
“Tutto o niente, nel senso che
trascendendo i propri limiti si impara di più, questo non significa che la
nostra vita diventi più facile, ma certo più interessante. La maggior parte
vive nell’altra maniera, non significa che non possa essere soddisfatta, ma che
s’inganna di più, rispetto al piano generale.”
“E guardando al tuo esempio
personale di vita? Cosa è cambiato, viaggiando e vivendo fuori dall’Italia?”
“Prima di tutto ho capito che
quella realtà non era l’unica, se lo fosse stato io mi sarei rassegnato, forse,
a non scrivere, il che può anche non essere necessariamente una tragedia, ma
certo a vivere trascinando i giorni in una maniera insoddisfatta.”
“Invece, vivendo in Germania e in
Brasile, viaggiando per una trentina di altri paesi?”
“Ho scoperto che potevo
interferire sul mio destino, che potevo cambiare le carte in tavola, che potevo
conoscere persone che vivevano meno stancamente e che credevano fermamente che tutto il mondo è paese è un proverbio
idiota.”
“Che tipo di scrittore pensi di
essere, hai qualche modello, o vai per esclusione?”
“Modelli ne
ho vari, forse una decina, ma non c’è nessuno di loro che sopravanza gli altri,
sono solo differenti.”
“Qualche
nome?”
“Che ne so,
magari: Allen, Cechov, Kerouac, Bukowski, Benni, Sepulveda, Castaneda,
Camilleri, De Crescenzo, Jerome K. Jerome… e anche altri che ora non mi vengono
in mente.”
“Che cosa
hanno in comune, tutti questi?”
“Non lo so,
forse che hanno tutti inventato dei generi nuovi, è gente, che, aldifuori dei
contenuti, mi pare assai gradevole da leggere… e poi anche i contenuti sono di
valore, certo, e anche molto diversi tra di loro.”
“Ti ripeto la
parte iniziale della domanda di prima, alla quale non hai risposto: che tipo di
scrittore pensi di essere?”
“Il genere
non te lo so dire, ma non mi reputo uno scrittore impegnato, i miei dovrebbero
essere dei libri da leggere facilmente, alla portata di tutti, almeno da tutti
gli italiani. Perché i miei allievi brasiliani dicono che sono difficili, ma
loro stanno studiando ancora l’italiano e poi, molti di loro, non sono abituati
a leggere dei libri, anche in portoghese, o comunque non questo genere di
libro, fatto per il piacere dello scrittore e non per studiare. Il brasiliano
legge più perché è necessario, non per il proprio piacere, anzi, forse questo è
più o meno vero dovunque.
Come
scrittore sono un alternativo, perché scrivo per il mio piacere e quando non
sono in forma, invece, quello che scrivo mi fa schifo e perciò lascio perdere.
Per me
scrivere è come viaggiare nello spazio e nel tempo, se nessuno
m’interrompe posso starci per dieci ore
senza mangiare o bere.
Il fatto è
che non mi pare di scrivere, ma di vivere la storia, perché tutto quello che
scrivo, in un certo senso, fa sempre parte del cammino della mia storia, anche
se dopo mi perdo per strade laterali.
Ultimamente
ho scoperto che come scrittore amo esattamente
scrivere quello che mi da’ piacere, ma quando inizio qualcosa, non so
mai dove sto andando ad avventurarmi.
Scrivere è la
maniera di pensare a tante cose che non affronterei mai, se non le mettessi giù
sulle pagine.
Resta da
vedere se questa è una cosa positiva o no. Per molti certo non lo sarebbe.
I pensieri
della gente non prendono stradine secondarie, circolano solo per i viali principali
e le autostrade, si sentono più sicuri.
Certo le
altre strade, quelle piccole e dimenticate sono più pericolose, sono i
bassifondi, le strade sterrate, mal illuminate e non si sa nemmeno dove vanno,
non c’è nessuna indicazione. Il punto è: è bene arrischiarsi? Sì e no, dipende
dal tipo di persona che siamo o che vorremmo essere, ma in genere non si
sceglie, si fa tutto istintivamente.
La maggior
parte della gente fa di tutto per chiudere ogni sbocco alla propria
sensibilità, ne ha paura. Invece altra gente sceglie sistematicamente la via
meno battuta, va dietro a quello che il cuore gli dice, affronta i buchi e i
pericoli, ma allarga costantemente i propri limiti, anche se sta rischiando.”
“Quali sono i
tuoi limiti?”
“Nello
scrivere, o nella vita?”
“In tutti e
due.”
“Nella vita
mi ribello e non accetto di fare cose che non mi piacciono, nello scrivere in
fondo è lo stesso, il tema lo decido io, oppure non c’è nessun tema; non riesco
a far niente che non mi piaccia, non lo so, non ci ho mai provato, in maniera
continua. Solo nel lavoro, certo, anche se una cosa ti piace, se la devi fare
per forza, smette automaticamente di piacerti.
Non sono di
quelli che non saprebbero vivere senza il lavoro, datemi da campare, non dico i
soldi, ma vitto e alloggio e io il lavoro lo dimentico con gioia.”
“Solo
questo?”
“No, ci sono
tante altre cose, come per esempio, un limite potrebbe essere che ogni mio
racconto si può definire incompleto, sia perché se lo rileggo lo cambio ancora
e di nuovo, all’infinito; sia perché, quando ne sto finendo uno, quello mi sta
già annoiando, perché sono contemporaneamente impegnato nell’iniziarne o
svilupparne altri.
Preferisco
pensare che un giorno farò un finale migliore per ognuno di quelli scritti nel
passato recente o lontano. Da tempo, ormai, ho creato, per questo e per altri
oggetti o situazioni, reali o virtuali che siano, un aggettivo sostantivato
bilaterale, in antitesi con sé stesso: il provvisorio-definitivo.
Il fatto è
che il finale, in sé, spesso mi pare forzato, vorrei che la storia continuasse,
perché la vita non finisce, ma a quella porzione lì non posso più dargli
attenzione.
Che ci posso
fare?”
“Non è che il
tuo lavoro di professore d’italiano ti distrae?”
“Il mio
lavoro mi distraeva, certo, mi toglieva il tempo e m’impediva di sprofondarmi
totalmente nelle storie, ma mi dava anche ispirazioni e modelli nuovi, e poi
non so se vorrei veramente vivere solo scrivendo, perché il rapporto con le
persone ne verrebbe molto limitato.”
“E come è il
tuo rapporto con le persone?”
“Confuso,
sofferto ma vissuto minuto per minuto, cerco di dare soddisfazione a tutti, in
maniera differente, ma senza togliermi la mia necessaria parte. Tento anche di
non cercare di cambiare la gente che frequento, di non separare i loro difetti
dai pregi, ma non sempre ci riesco. Troppe cose, la gente non pensa nemmeno
alla metà di tutto quello che vorrei fare.
Non mi curo
molto di quello che pensano di me, cerco di essere sempre me stesso, ho bisogno
di compagnia ma anche di solitudine. Cerco di alternare secondo il mio ritmo.”
“Cosa pensi
che loro, quelli che ti conoscono, pensino di te?”
“Credo che
pensino che sono mezzo matto, ma mi pare che mi considerino una persona
simpatica, o interessante, penso di essere amato, a volte anche più di quello
che vorrei.”
“In che
senso? La gente ha spesso il problema contrario, si sente poco amata.”
“Lo so, ma
quello che mi succede è che si attaccano a me, a volte anche quando non mi
piacciono, allora devo interrompere ed è doloroso. Oppure anche quando persone
che mi piacciono insistono per passare tempo insieme a me, oltre la mia
volontà, anche in questo caso divento sgradevole, ma li devo ridimensionare.
Comunque succede anche il contrario, che le persone con cui vorrei passare più
tempo ne abbiano meno per me. Questo è un fenomeno che con il passar degli anni
sta diminuendo.”
“Perché pensi
che questo succeda?”
“Diciamo che
fin da bambino ho sempre cercato compagnia e sono sempre o quasi rimasto deluso
dai risultati, sia perché la gente non mi accettava come sono, sia perché
avevano altre cose da fare, sia perché io non accettavo loro. Insomma è sempre
stato un rapporto sofferto, nel bene e nel male. Ma non sono mai stato falso.
Da qualche
anno a questa parte invece ritorno alla mia originaria voglia di stare da solo,
oppure in compagnia di Maria Dina, ma non cerco nessun altro.”
“Forse perché
lei ti basta.”
“Infatti,
credo che sia così. Anche perché lei rispetta il fatto che io abbia bisogno di
porzioni di solitudine giornaliere, in genere, quasi tutti, soffrono a stare da
soli, anche solo per una parte della giornata. Io no, ne ho addirittura
bisogno.”
“Sì, ma
perché si attaccano a te?”
“Non si
attaccano più, credo di averli scoraggiati. Ma era proprio perché gli pareva
che gli sfuggissi prima, perché non condividevo quel loro voler stare insieme a
me, almeno non del tutto. E poi perché sono una persona forse anche troppo
spontanea, nel bene e nel male”
“D’accordo,
credo di aver capito. Ritorniamo al discorso di prima: dal punto di vista di
lettore cosa ti piace di leggere?”
“Come lettore
preferisco quelle cose che quando le leggo mi trasferisco, di località e di
fuso orario, insomma mi dimentico proprio che sto leggendo, non mi piacciono
quelli che complicano e infiorettano troppo, rallentano il ritmo, o sono
autocompiaciuti.
Personalmente
mi considero uno di quelli che non amano le cerimonie, di nessun tipo, sia
nella vita che nella letteratura.
Non leggo
libri tecnici, saggi, manuali, ci deve sempre essere una storia, per me; ogni
tanto, raramente, leggo biografie.
Lo stile per
me è importantissimo, non riesco proprio a leggere niente di chi non amo
stilisticamente, ma ci sono scrittori che mi piacciono e molto, come stile, ma
che non m’interessano a livello di contenuti.
Gli scrittori
che mi catturano sono quelli che mostrano la vita come è, nuda e cruda, che sia
raffinata e pacifica, oppure rude e violenta, va sempre bene… molta gente
preferisce le bugie, certo, sembrano più comode.”
“Il tuo compromesso con la verità
è una cosa abbastanza elastica, pare evidente dai tuoi racconti, come è che lo
vivi e come dovrebbe interpretarlo il tuo lettore?”
“Bella
domanda.
Esiste sempre
un dualismo, di tipo verità-fantasia, mi piace che il mio lettore si ponga la
questione, quando legge, se quello che sta attraversando è vero, oppure no, ma
non è l'eventuale risposta che è importante. Secondo me, invece, è bene che si
rifletta su un fatto: che le due cose non sono tanto separate come sembrano,
che non possiamo avere certezza di tante cose, che dobbiamo saper separare e
mischiare le due componenti, a seconda dell’uso che ne facciamo.
Vorrei che la
gente imparasse un poco ad astrarsi, secondo me essere troppo attaccati alla
realtà è una malattia, che come risultato ci fa sfuggire di mano il nostro
baricentro nello spazio e nel tempo, cioè, in parole povere, più ci
ossessioniamo per capire la realtà, meno la capiamo, perché non sappiamo più
usare la nostra fantasia, la nostra creatività.”
“Qual è,
allora, la tua esperienza a riguardo?”
“La mia
esperienza è stato un progressivo adattarmi alla realtà e un contemporaneo
separarne la fantasia, ne ho avuto bisogno per infilarmi nel mondo del lavoro.
Solo dopo ho capito che invece dovevo integrarle e non separarle, realtà e
fantasia ora vivono in me, alternandosi e completandosi, prima invece facevano
a pugni. Ogni tipo di additivo sia alcolico che chimico, allontana dai punti
fermi, infatti sono cose in genere usate per sfuggire alla realtà.
Ora infatti
bevo raramente e fumo ancor meno.
Credo che non
si possa e non si debba nemmeno tentare di sfuggire alla realtà, ma avere delle
belle valvole di scarico, quotidiane, se noi sappiamo usare bene questo
dispositivo, quello che ci permette di astrarci. Un buon libro è sufficiente,
per evadere dalla routine di tutti i giorni, che è alienante perché ci fa
sforzare in maniera poco costruttiva tornando ossessivamente su situazioni già
vissute, già ripetutamente sviscerate, di stereotipi che ritornano e ritornano,
senza stimoli, questo succede molto nel mondo del lavoro, in generale.”
“A proposito
di evasione, cosa pensi della meditazione e delle culture orientali?”
“Ne penso
tutto il bene possibile, per imparare ad astrarci dobbiamo prima apprendere a
svuotare la nostra mente, se riusciamo a non pensare a niente siamo sulla buona
strada, la natura ci aiuta, per esempio, nella sua contemplazione in un bosco,
ci fa riposare gli occhi e la mente, non abbiamo bisogno di pensare a niente.
Le culture
orientali possono servire a questo, senza esagerare, la meditazione è una buona
cosa, il ritrovare la nostra calma dopo qualche ora di grande attività, pensare
al corretto uso della respirazione e applicarlo con continuità.”
“La tua
educazione è stata di stampo occidentale, ma i tuoi genitori non erano molto
convenzionali, specialmente tuo padre, come ha influito la sua maniera di
essere sulla tua personalità in formazione?”
“Beh, durante
la mia infanzia, dovevo più o meno spesso simulare e dissimulare e mio padre -
che era psichiatra - lo scopriva sempre e comunque.
Come quella
volta in cui disegnai un dinosauro giallo con sei gambe e il dottor-genitore mi
disse che quello me lo era inventato.
Era solo una
bonaria constatazione, ma io ero troppo sensibile e suscettibile e in più non
capivo come diavolo avesse fatto a scoprirlo.
Mio padre
diceva che quando ero in un luogo, fingevo sempre di essere in un altro. Per
esempio se ero su una barca facevo finta di essere su un aeroplano, se ero su
un aeroplano fingevo di essere in un sottomarino, se ero in un sottomarino
allora m’immaginavo di stare in un’astronave e così via, sempre per nuove e
incredibili avventure, ben immaginate e ricche di particolari.”
“E allora?”
“E allora
sotto il controllo costante di uno psichiatra abitualmente di malumore, ho
passato l’infanzia, solo che poi non è finita, si è sovrapposta alle altre
epoche, perdura malamente cammuffata fino al giorno d’oggi.
D'altra parte
mio padre mi ha insegnato anche ad aprire la mente, indirettamente, viaggiando
o leggendo, insomma pensando a cose poco convenzionali.
Infilarsi
nelle righe di un racconto in costruzione, è facile e spontaneo, per me. Quelli
che metto giù sono tanti personaggi che hanno le loro cose da dire, che per me
sono notevoli e valgono la pena di essere scritte, ma non sono io che le dico,
sono loro. Non sono tutte idee mie, io le butto giù cercando alla meglio di
farlo seguendo la grammatica e la sintassi, cercando di dargli un’idea di
movimento.
E il
movimento è parte essenziale nel mio modo di scrivere, si direbbe che i miei
racconti sono copioni per una serie di film, fatti a episodi, divisi in tanti
spezzoni più o meno brevi e separati, tutti parte di uno stesso grande disegno
a fantasia, tipo un tragicomico e apocalittico trittico di Bosch.”
“Qual è la
funzione principale dell’arte, secondo te, nel mondo moderno?”
“Penso che
l’arte - per chi ne fa uso e per chi la produce - sia una maniera per
sbriciolare la routine, per mischiarne gli ingredienti, per frantumare la
rotazione di giorni identici che si ripetono.
Per spezzare
il frangersi sempre uguale a sé stesso di un onda sulla riva, ci vuole una
tempesta e l’arte è un uragano dei sensi, è quasi come una droga o un eccesso
alcolico, ma è più sano e costruttivo, o almeno può esserlo.
La realtà è
stretta, nel senso che ai suoi confini l’uomo impazzisce per non saperle
trovare una ragione.
Però è anche
troppo larga, perché facilmente ci si sperde, là dentro, senza saper decidere
nel mare di opzioni e si finisce nel fare come gli altri, per non essere
considerati diversi, per non rischiare.
Ed è
esattamente cosa dovremmo fare, secondo me, rischiare se non molto almeno un
poco, per provare a migliorare la nostra routine, delle cui piccole porzioni,
le giornate, sono fatte le nostre vite.”
“L’arte
perciò nasce dal desiderio d’evasione?”
“No, forse
l’arte nasce dal riprodurre e celebrare le bellezze della natura e del mondo,
ma può essere anche un veicolo per evadere tutti i giorni, con continuità e
soddisfazione.
L’evasione è
necessaria per uscire da quel ruolo che ci siamo costruiti addosso, magari
senza volerlo, ma un poco anche coscientemente, per vedere dal fuori quel
personaggio di cui noi non siamo certo gli unici responsabili, per permeare e
comprendere questo mondo che ci piace, sì, perché non ne conosciamo un altro,
ma che se lo potessimo rifare, forse, lo rifaremmo in una maniera un po’ differente.
Lo scrittore
che fa con il cuore in mano il suo viaggio virtuale, ma concreto,
ridistribuisce il suo mondo, come gli piace, non importa se sia riconosciuto
dal successo o no.”
“L’artista
per produrre è obbligato a soffrire? Non potrebbe farlo, invece, per il suo
piacere?”
“Non lo so,
per me è così, ma spesso l’artista si libera del fardello che ha sulle spalle e
soffre mentre lo fa.
Ho già
attraversato e superato questa fase, se non lo avessi fatto avrei smesso di
scrivere, perché il risultato di quei dolorosi parti d’incudini non mi piaceva,
né prima, né durante e soprattutto nemmeno dopo, nel rileggerlo.”
“Allora tu
non le partorisci più quelle incudini?”
“Sì, le
partorisco ancora, ma prima le faccio a pezzi, le mastico e le sminuzzo, quando
escono sono meno dolorose, sia per me che mi diverto a vivere situazioni
interessanti, sia per il lettore, spero. Chi legge i miei racconti si diverte,
non è moltissima gente, ma quella che è lo fa per il proprio piacere.”
“Tutti
possono essere artisti?”
“Tutti
possono praticare un tipo di arte e ricavarne soddisfazione, forse non tutti
possono essere riconosciuti, come artisti da un grande pubblico. Io ne sono
l’esempio vivente. Mi sento artista, ne sento un bisogno e un giovamento
quotidiano, ma non ricevo un riconoscimento pubblico della mia cosiddetta arte,
o almeno solo da una cerchia ristretta di persone, allievi e amici, o amici di
amici e amici di allievi.”
“Trasferirti
in Brasile è stato importante per la tua carriera?”
“Premesso che
io non ho ancora nessuna carriera, ma solo alcune opere pubblicate, la mia fuga
in Brasile è stata decisiva in questa direzione, perché mi ha fatto scoprire un
nuovo angolo da cui vedere le cose, un punto di vista più reale, meno parziale.
Diciamo che fino a che sono stato in Europa ero solo un bamboccione e sono
diventato uomo, se mai lo sono diventato, solo qua. Nel senso che accetto le
mie responsabilità e le separo quotidianamente dal sentirsi in colpa per
qualcosa o per qualcuno, di prima, dell’altra parte dell’Oceano Atlantico.”
“Allora
diresti che per uno come te, anche se il mondo va in direzioni diverse, se non
opposte, vale la pena di essere scrittore?”
“Direi che
da’ un ventaglio di opzioni in più. Perché m’infilo dove voglio e quando lo
desidero, a vari livelli di realtà che insceno parola per parola, frase per
frase. Soprattutto nel momento in cui scrivo, mi sento bene, come se riuscissi
a trascendere le normali sensazioni umane.
Se la gente
pensa senza riuscire a controllare i propri pensieri, anche io non faccio certo
eccezione. Per quanto ci si provi è difficile controllare i propri pensieri e
impedirgli di andare in certe direzioni che a volte vogliamo evitare. Quelli è
proprio lì che se ne andranno, ancora e ancora. Invece quando scrivo è come se
riuscissi a scegliere in maniera continua, a cosa pensare e come. Quando
ritorno sulla terra, poi, tutto mi pare meno volgare, perché ne capisco meglio
i meccanismi e mi pare d’interferire meglio e di più nel cammino del mio
destino.”
“Hai detto mi pare, con questo vuoi dire che è
un’illusione?”
“Sì e no, ma
è importante che io abbia questa sensazione, perché mi rende tutto più a
portata di mano, dialogo meglio con me stesso e questo è il punto di partenza
fondamentale, ma anche di arrivo… prima di tutto cerco di essere sincero con me
stesso, ho faticato a impararlo, ma credo che sia piuttosto importante.”
“A proposito
di essere sinceri con sé stessi, pensi che ti manchi qualcosa per aver
successo? Cioè, credi che gli scrittori di bestsellers abbiano qualcosa più di
te?”
“Non
tecnicamente, cioè non a livello di capacità letteraria, ma piuttosto di
opportunità concrete e poi penso che mi manchi anche quel cercare il successo.
Non lo faccio, non lo so fare, anche perché implicherebbe un cambiamento di
stile e di personalità. Oltretutto credo che se perdessi la credibilità con me
stesso, anzi ne sono convinto, certo smetterei anche di scrivere… e poi se
m’imponessero tempi e temi non saprei come fare, perché non l’ho mai fatto,
credo che sia improbabile, per uno come me.”
“E se,
nonostante tutto questo, tu avessi successo ugualmente, cosa cambierebbe, nella
tua vita e nel tuo modo di scrivere?”
“Non lo so,
sono già abbastanza impegnato con la realtà di oggi, per chiedermi cosa
succederà domani, se una determinata e remota condizione si realizzerà.”
“Non ci hai
mai pensato?”
“Sì, tante
volte, ma di passaggio, non in maniera tale da potermi chiedere veramente cosa
farei. Io vivo il presente in maniera intensa, a volte anche troppo, non sono
capace di pianificare il futuro, anche perché non m’interessa.”
“Il futuro
non t’interessa?”
“No, non
m’interessa pianificare il futuro, sennò finisco per perdere la
dimensione del presente, che è quella essenziale. Molta gente lo fa, ma mi pare
che poi non riesca per niente a vivere il presente.”
“Prova a
pensarci adesso, allora, che cosa accadrebbe se ti arrivasse addosso il grande
successo?”
“Beh, la
prima cosa che mi viene in mente è che smetterei di lavorare come professore,
poi, subito dopo, che diventerei ancora più timido e solitario, certo che un
po’ lo sono già.”
“E quello che
tu stesso definisci il tuo confuso
rapporto con le persone?”
“Cambierebbe
e molto, sicuramente fuggirei e mi rinchiuderei, cercherei di evitare le
interviste.”
“Non andresti
nemmeno al Maurizio Costanzo Show?”
“Ma perché,
non l’hanno finalmente soppresso?”
“Sì, ma era
solo per fare un esempio, per vedere se ti saresti venduto un po’, per la
popolarità…”
“Noooo, non
ci sarei andato nemmeno prima, in caccia di successo, figurati dopo, se ce
l’avessi già.”
“E per quanto
riguarda la tua maniera di scrivere, cosa succederebbe?”
“Penso che si
rivoluzionerebbe, magari non in maniera positiva, anche perché gli editori
cominciano a martellarti per importi quello che vogliono loro.”
“Allora credi
che il successo sia una cosa negativa?”
“No, se è il
riconoscimento che quello che stai facendo, è una bella cosa, soprattutto se
porta dei meccanismi che tu possa usare per ampliare la tua libertà, solo che
probabilmente la mia vita diventerebbe più difficile.”
“Ma, mi dici
una cosa? Tu non parli mai di soldi, non vivi anche te sul nostro pianeta? Non
hai bisogno di soldi?”
“Certo, ma
non tanto da vendermi l’anima…”
“E che cosa
significa vendersi l’anima, per te?”
“Significa
fare le cose solo per raggiungere un risultato, costi quel che costi, passare
sopra tutti e non curarsi di chi si calpesta… o cambiare il proprio stile in
funzione dei lettori e di un successo? No, no, secondo me la propria identità è
altrettanto importante, sennò il riconoscimento del pubblico è truccato,
conformarsi al mercato dal punto di vista artistico è la cosa più infame e
trita, lo fanno quasi tutti, mi illudo ancora di credere che io, invece, no.”
“Che cosa ti
fa illudere di essere diverso dagli altri?”
“Il fatto che
la vita che faccio mi piace, per questo non sono disperatamente alla ricerca di
editori, e poi essere famosi va bene per gli altri, per fortuna non tutti, io
non ho idoli e figurati se voglio diventarne uno, no, non mi garba, mi
piacerebbe poter vivere con la scrittura, ma non so nemmeno se ne sarei capace.
Stravolgerebbe il mio mondo.”
“Vabbè hai
ragione, il successo bisogna volerlo, tu non sai nemmeno se lo vuoi... Ma
saltiamo di palo in frasca, parlami del romantico processo creativo.”
“Il non
sempre romantico processo creativo può avvenire in varie maniere e momenti e si
possono usare anche dei procedimenti standard, atti a stimolare la fantasia per
poi creare, conoscendo noi stessi, ma difficilmente si può... senza avere delle
idee personali, dell’esperienza di vita, del passato interessante da decomporre
e ricomporre.
Sebbene molti
scrittori di successo ne facciano a meno, e si limitano a scopiazzare qua e là,
come facevo io da adolescente e anche oltre, si dedicano a sviluppare e a
ramificare una serie di stereotipi efficaci, preferibilmente, a prova di
marketing.”
“Allora pensi
che molti scrittori famosi siano un bluff?”
“Non
esattamente, penso che scrivere sotto pressione da’ risultati peggiori, se sei
un autore di bestsellers non puoi fare a meno di lanciare un nuovo libro finché
il ferro è caldo. Non è difficile perché quando uno è affermato, insomma se sei
già un idolo, puoi scrivere un po’ quello che vuoi, secondo la mia esperienza
di lettore ogni grande scrittore è andato sempre a peggiorare, a livello di
qualità, aumentando la quantità.”
“Quanti libri
pensi di aver letto?”
“Approssimativamente
un migliaio, forse di più, difficile dirlo.”
“Più scrivi e
meno leggi?”
“Sì. Almeno
attualmente funziona così.”
“Ho capito,
tornando al processo creativo?”
“Beh, l’idea
originale può nascere in qualsiasi momento, di solito di fronte a qualche
avvenimento reale o suggeritore di detta ispirazione, ma spesso avviene
scrivendo, cioè mettendo giù quello che la mente manda fino alle dita, passando
dal cuore, magari, sulla base di input
avuti e accumulati anche in altri momenti… che poi sarebbe l’esperienza di vita
dello scrittore stesso. Che è fondamentale.
Scrivere su
ciò che si conosce è consigliabile, con la formidabile eccezione del grande
Emilio Salgari, che non era mai stato nei mari del sud, ma li descrisse così
bene, forse perché visse dentro di sé tutto ciò che buttò sulle pagine, con
forte e autentica emozione.
È difficile scrivere su quello che
non si conosce, certo che vari scrittori di bestsellers lo hanno fatto e
continueranno a farlo, approfittando della dabbenaggine del loro lettore-tipo,
e poi ci sono gli scrittori di fantascienza che fanno un capitolo a parte.
Il lettore
dall’altro lato deve o dovrebbe appartenere a delle categorie e perciò si
potrebbe partire cercando di capire perché legge, quel determinato
lettore-tipo.
Se lo
scrittore è anche lettore, assai difficilmente non esserlo, si può cercare di
capire prima di tutto, perché legge, la sua lettura avrà a che fare con la sua
scrittura. Anche se, in alcuni casi, potrebbero non somigliarsi nemmeno. Capire
a che categoria di lettori e di scrittori si appartiene, facilita le cose. Io
per esempio non l’ho mai capito, forse perché non sono catalogabile in nessuna
delle due risme in questione e ho difficoltà, sia a trovare qualcosa che mi piaccia
da leggere, sia a scrivere qualcosa che sia limitato a un solo tipo di genere
alla volta.
Anche in
questo caso, allora, si dovrebbe fare al contrario di me, ma spesso i contrari
sono più di uno, e poi queste non sono cose che si scelgono o s’insegnano…”
“E
l’ispirazione cos’è? Esiste veramente o è un’invenzione della vostra fertile
mente di artisti? Alcuni dicono che è solo un mito da sfatare…”
“Ti dirò che
per anni ho creduto che fosse una specie di magia indipendente da tutto e da
tutti, eppure erano anni in cui per scrivere dovevo bere, o farmi una canna,
cioè il mio pensiero era molto poco razionale.
Ora la vedo
così: se ho dormito bene, se non ho pensieri cattivi per la testa, se non ci
sono rumori molesti, se ho mangiato e sto respirando bene, se non sono stanco,
io sono sempre ispirato.
Cioè,
potenzialmente posso scrivere sempre, certo che a volte escono cose migliori,
in alcuni determinati momenti, ma non dipende da una qualche ispirazione, solo
da concatenate associazioni di idee, che vengono fuori dal morale più o meno
buono, dal tipo di vita che si fa, dal sentirsi più o meno realizzati nella
propria routine.
Per me
l'ispirazione è la volontà di far uscire quello che ho dentro, che è sempre una
roba di grande volume, per me la volontà di scrivere è una cosa dipendente dai
molti fattori esterni, più che da quelli interni.”
“Ottimo,
credo che possiamo chiudere qui, con quest’ultima domanda, che magari non ti
piacerà, visto il tipo poco comune di personaggio che sei, ma te la faccio lo
stesso: che consigli daresti a chi inizia a scrivere?”
“Sì… è vero
che la domanda non mi piace, provo a rispondere lo stesso, ma al contrario,
dirò che cosa non bisogna fare. Allora: se non v’importa troppo del successo è
abbastanza facile, fate come me. Se lo volete intensamente, ma non volete
vendervi, almeno dal punto di vista artistico, e se credete che vale la pena di
leggere le vostre pagine, cercate di arrufianarvi più possibile con persone
importanti del ramo, è ancora la maniera migliore, anche se siamo nel terzo
millennio. Uno scrittore senza appoggi non ottiene nemmeno che vengano letti i
suoi manoscritti, non che quelli degli altri li leggano, no, li fanno leggere,
ma solo in parte, da qualcuno, addetto, malpagato e ancora meno ascoltato. Se
volete il successo e non v’importa di meritarvelo non avete bisogno di nessun
consiglio.”
“D’accordo,
ma per quanto riguarda la tecnica di scrittura?”
“Ah, la
tecnica, ci sono anche dei bellissimi e inutili corsi, peccato che nessuno
possa insegnare a scrivere, perché la tecnica è una cosa inseparabile dal
contenuto, lo stile e le idee sono un tutt’uno, ma le idee non si possono
insegnare e lo stile si può solo copiare o simulare, senza inventarne uno, ed è
evidente che non si può insegnare a inventarlo.
Ci si può
sentire scrittori prima di diventarlo, allora si insiste su schemi di
ripetizioni, esercizi di formazione, finché quello che scriviamo non ci
soddisfa, questo è importante perché la prima persona del pubblico siamo noi,
passato questo primo esame, allora possiamo far leggere qualcosa agli altri.
Se poi gli
altri ci bocciano non possiamo desistere, ma se ci elogiano, dobbiamo fare un
filtro e cercare di capire fino a che punto possiamo crederci.
Il nostro
riferimento principale saremmo sempre noi, ma tutto il resto non è separato. È
una bufera di particolari sempre in movimento, spesso di carattere
disturbatorio, la cosa migliore è imparare a filtrarla, questa tempesta, perché
ignorarla ci farebbe diventare insensibili a quella percentuale che ci può
interessare.
Mi spiego:
tutto quello che gli altri ne pensano è importante, ma non ci deve deviare
troppo da quello che siamo noi, dobbiamo più che altro conciliare queste cose,
ma la nostra fonte di idee non può seccare per pareri distruttivi, è opportuno
solo convogliare meglio quelle che sono le acque dell’ispirazione...”
"Più in
particolare?"
"Prima lo scrivo a mano, poi
lo leggo al programma suddetto e così via. Questa tecnica la sto usando da un
po' di tempo, per fare prima a scrivere, per non stancarmi troppo gli occhi e
per riuscire finalmente a scrivere alla stessa maniera in cui parlo, che mi
pare una cosa interessante.
Io detto i testi - scritti a mano
- a questo programmino di riconoscimento vocale on-line. Che cosa fa il
programma in questione? Semplicemente scrive quello che io dico a voce alta, o
almeno ci prova. Spesso si sbaglia, forse anche perché io tossisco e gemo, più
qualche mezzo rutto o pronuncia scassata malamente per la distrazione e la
velocità.
Il programma non scrive le
parolacce, ci mette dei puntini-puntini, alcuni altri programmi di questo tipo
ci mettono asterischi vari.
Dopo io ricopio in Word quello che
viene scritto sul testo on-line e poi faccio la correzione.
Questo sistema è venuto fuori
quando tre lettere abbastanza usate, la G, la H e la A com l’accento, del mio
computer portatile, non funzionavano più e ho scoperto che qua era molto
difficile ripararle, perché la tastiera nuova andava fatta venire da San Paulo
che sono 1200 km di distanza da Porto Alegre. Difficoltà che si calcola non
solo in soldi, ma anche in attesa impaziente.
Il sistema più razionale per fare
le correzioni dovrebbe essere: che prima di pubblicare qualsiasi cosa, anche
solo sul mio blog, dovrei sistemarlo in maniera da dare al racconto un aspetto
definitivo o quasi.
Bene, anzi male, io le correzioni
le faccio principalmente dopo aver pubblicato, perché questo fatto di essere
esposto al pubblico tacitamente mi impone tale disciplina, e non raramente
anche il racconto cambia parecchio, perché mi vengono in mente altre cose
eccetera.
Questo modo di postare un pezzo
alla volta, di circa una pagina, è un sistema per favorire la lettura di chi si
spaventa a vedere una roba troppo lunga, ma anche per obbligarmi a dare a
questi spezzatini di racconti un aspetto se non definitivo almeno quasi.
Perché non ci riesco a farlo
prima?
Non lo so nemmeno io, però so di
essere un tipo fors’anche disciplinato, rispetto a tanti altri, ma in una certa
maniera piuttosto indisciplinata, cioè m’impegno solamente quando ho le spalle
al muro, a fare qualcosa di regolare ed efficace, insomma quasi.
Magari è
una scusa per poter scrivere all’aria aperta, confesso, è molto più bello
lasciar la mente libera fuori, piuttosto, anche la qualità delle immagini se ne
giova.
Non so se
sia la fantasia che fa venire voglia di scrivere o se è lo stesso scrivere che
poi alimenta, favorisce o provoca la fantasia, la creatività, cioè quello che
manca alla maggior parte della gente e forse spaventa anche chi preferisce una
routine rassicurante, fatta di cose tutte uguali, tutti i giorni, tutta la
vita.
Ormai si sa: c’è un’industria che sfrutta l’arte, o la
presunta arte, la maccheronica e sedicente arte, insomma loro la trasformano in
denaro soprattutto quando non vale niente. Una mafia che invece di sparare e di
minacciare, non è che non lo faccia, ma ha altri sistemi, finge di essere dalla
tua parte e ti pugnala con piccoli aghi di indifferenza, incompetenza,
arroganza e via discorrendo. Quello che fanno non è illegale, per quanto
orribile, uccidere la letteratura non è un reato. Quella è già un ricordo ormai
sbiadito. Questi e-mail sono solo gli ultimi di tanti altri, i più attuali. Non
mi preoccuperò di nascondere nomi e numeri di telefono, quello che fanno è alla
luce del sole, anche se è un sole malato. In corsivo, come questo, i miei
commenti.
Salve,
ci
dispiace, per adesso non siamo interessati alla proposta.
Sperando
in futuro di collaborare con Lei, La ringraziamo.
Cordiali
saluti
Edizioni
Chillemi
Gentile
Moreno Bartelloni,
abbiamo
letto e valutato il materiale che ci ha inviato relativo a L’OCA DEL GIUOCO.
L’intreccio
è molto originale. La commistione tra storia remota e meno remota,
storia-leggenda (citati perfino Vlad Dracula e Agatha Christie) e cronaca, è
ottimamente equilibrata.
Le
descrizioni – dei personaggi e dei luoghi – sono coinvolgenti e originali
(curiosi i tic “complementari” di Marianna e Alcide).
La sua
scrittura è più che corretta, incisiva, vivacizzata spesso da dialoghi
essenziali e verosimili (il rischio è sempre dietro l’angolo).
In
definitiva, per noi il suo testo è pubblicabile.
Mi corre
l’obbligo, superato questo livello nel nostro rapporto, di comunicarle altro.
Da
quest’anno Fefè Editore ha creato un nuovo marchio per la narrativa, che non
tratterà più direttamente come Fefè ma come IL PELO NELL’UOVO (marchio comunque sempre “by Fefè
Editore").
I libri
pubblicati in IL PELO
NELL’UOVO godono degli stessi servizi dei libri di Fefè Editore, ma
richiedono una collaborazione economica da parte dell’Autore.
I servizi
solitamente previsti per i libri di IL PELO NELL’UOVO sono: • contratto di edizione della durata
di 18 mesi con pagamento finale dei diritti d’autore • editing del testo •
copertina personalizzata • promozione nazionale con Messaggerie • distribuzione
nazionale con Messaggerie • presenza su tutti i siti di e.commerce, da Amazon e
dal sito di IL PELO
NELL’UOVO in giù • presenza nelle librerie che ordineranno il libro
• possibilità di ordinare il libro nelle librerie che hanno contatti con
Messaggerie (la quasi totalità) • ufficio stampa • partecipazione a fiere
eventi presentazioni, compatibilmente con l’emergenza sanitaria • un’agenzia
che ci rappresenta per la vendita di diritti all’estero.
Tutti
questi servizi prevedono un coinvolgimento economico anche da parte sua.
Tanto più
necessario nel momento di crisi (generale e dell’editoria) che stiamo
attraversando.
Un aiuto
che potrà essere: • sotto forma di copie preacquistate • con pagamento diretto
rateizzato • l’una e l’altra soluzione nella combinazione da lei preferita.
Per un
libro di “medie dimensioni” (fino a circa 230 pagine nel formato 12x20) e senza
inserimento di note, immagini, tabelle o simili (come parrebbe il suo), la
cifra si aggira intorno ai 1400 €.
Se in
linea di massima si trova d’accordo sulla proposta che le ho accennato,
possiamo iniziare da subito una collaborazione.
Potrei
quindi inviarle ulteriori dettagli editoriali, in particolare su tempi e modi.
La prego
di darmi un cenno di riscontro comunque.
Grazie per
l’attenzione, un saluto cordiale.
Naturalmente non gli ho dato
riscontro, né prima né dopo, questa gente non ha idea di cosa sia bello o
brutto, vuole solo i soldi, e neanche tanti, pochi da ogni autore. Per quanto
sia impossibile da capire, ma gli assurdi sono anche tanti altri, in Italia ci sono
più scrittori che lettori. O forse è il mondo che va così, non lo so.
Gentile dott.
Bartelloni,
le
comunichiamo la nostra posizione riguardo alla sua opera, L’Oca del
Giuoco.
Due nostri referee hanno condotto
una lettura preliminare sul suo dattiloscritto, ritenendolo
interessante sia dal punto di vista stilistico che da quello del contenuto e,
dunque, degno di nota per un’eventuale pubblicazione.
Le
riportiamo un estratto del loro giudizio:
«Poliziesco
di campagna, capriola stilistica, egloga attualizzata seppur nostalgica, e,
agli occhi di un lettore di un anno fa, distopia apocalittica in salsa
umoristica. O forse un pastiche di tutto questo, con la nobile
quanto ironicamente leggera speranza di portare in superficie certi meccanismi
triti del nostro “brave new world”, tutto post e niente contenuto. Che
poi è anche il procedimento principe del postmodernismo, il quale sfrutta le
forme atrofizzate di vari generi letterari per smascherare i valori sublimati
di una società in degrado. A questo punto non ci sorprende che il caso
fantasmagorico di un corpo smembrato, di cui una parte rinvenuta riporta al
centro del dibattito il tesoro dei Templari, si riveli nel finale l’ultimissima
trovata del mondo televisivo, in connivenza con chi di dovere, per intrattenere
lo spettatore (e il lettore, di riflesso).
Una
passeggiata affannata nella pittoresca provincia di Lucca, tra pergamene
vergate a mano e mappe tatuate, zampe caprine e commesse di alimentari
sovrappeso che si improvvisano storiche, torture esilaranti e un tasso elevato
di sano buon senso, ovviamente dispensato nelle circostanze più improbabili. Il
tutto nell’attualissimo presente, con tanto di mascherine e il perenne oblio
che ne accompagna l’uso.
L’autore
cavalca questa ordinarietà allucinata, da cui neanche il villaggio più sperduto
sembra potersi ritrarre, con garbo e consapevolezza, ammiccando al lettore che
intravede nei personaggi il suo vicino di casa, i programmi giornalieri e le
acrobazie della stampa. Nella lingua variopinta e dialettale dei dialoghi, il
romanzo dimostra la sua vera natura di ritratto sociologico, e le conclusioni
che se ne possono trarre sono commoventi fino al riso. Consigliato a chi pur
dilettandosi della riflessione metaletteraria – culminante nel finale, ma che
fa capolino qui e lì in tutto il romanzo – continua a cercare una storia e dei
protagonisti vividamente individuali, vicini a noi e reali secondo la superiore
verità della letteratura».
Mi è pure
piaciuta questa valutazione, forse simile a quello che ne avrei pensato io
stesso, anche se si usano parole che non avevo mai visto, come egloga o
distopia. Per loro forse che uno debba andare a prendersi il dizionario è una
virtù e da questo già si capisce che sono io al posto sbagliato, per me invece
se si capisce tutto, senza inutili sfoggi di cultura, è inspiegabilmente
meglio.
Dalla
valutazione complessiva emerge dunque che dal punto di vista contenutistico la
sua opera è di rilievo, ragion per cui saremmo disponibili ad avviare per lei
il nostro servizio di Rappresentanza editoriale presso un (buon)
editore. Sin d’ora la informiamo che sottoporremmo il suo testo,
direttamente e/o tramite scout, a una serie di editori di nicchia, medi e
grandi.
Nello
specifico evidenziamo che abbiamo contatti stabili, direttamente e/o tramite
scout, con diverse fra le maggiori case editrici nazionali (Einaudi,
Feltrinelli, Giunti, il Mulino, Laterza, Mondadori, Rizzoli, Sellerio); come
anche con editori medi e specializzati nei vari settori editoriali (Adelphi,
Aracne, Armando, Bollati Boringhieri, Bruno Mondadori, Carocci, Castelvecchi,
Chiarelettere, Città del sole, Coccolebooks, Csa, D’Ettoris, Dehoniane,
Dissensi, Editoriale Progetto 2000, Edizioni e/o, Falco, Falzea, Franco Angeli,
Guanda, Guida, Hoepli, il Ciliegio, Infinito, Il Saggiatore, Il Seme Bianco,
Kimerik, la Rondine, La Vita Felice, Loescher, Longanesi, minimum fax, Newton
& Compton, Pearson, Raffaello Cortina, Robin, Rubbettino, Solfanelli,
Tabula Fati, Teomedia, Todaro ecc.).
Tuttavia,
ci teniamo a precisare che è nostra prassi procedere con tale servizio solo
quando ci troviamo con un testo sicuramente valido qualitativamente, ma anche
provvisto della giusta veste tecnico-editoriale.
Per questa
ragione vorremmo invitarla a correggere la sua opera che, dal punto di vista
formale, presenta numerose problematiche di carattere grammaticale.
Le riportiamo alcuni esempi: tra tali errori,
segnaliamo quelli ortografici come l’omissione dell’accento,
l’omissione dell’apostrofo tra articolo indeterminativo e sostantivo femminile;
quelli morfologici relativi alla concordanza tra nome e aggettivo;
quelli sintattici relativi all’errata concordanza dei verbi, all’uso
errato della punteggiatura tecnica e all’incoerenza nell’uso della maiuscola.
Specifichiamo che questi sono solo alcuni esempi di un
numero di errori ben maggiore.
Non
dubitiamo che lei sappia bene come si scrivano i termini citati e che si tratta
solo di meri errori di distrazione ma, oggettivamente, ci sono.
Questi errori naturalmente non
ci sono, anche perché il programma di scrittura stesso me li segnala, quando
anche me ne dimenticassi e io sono piuttosto pignolo in queste cose.
Per la
correzione degli stessi può provvedere autonomamente o tramite qualche
professionista di sua fiducia o, in alternativa, può scegliere di affidare la
sua opera alla nostra agenzia. L’importante è che chiunque svolga il lavoro di
editing lo esegua con professionalità (in tal senso, quindi, le sconsigliamo di
affidarsi a persone improvvisate).
Se dovesse
affidarlo a noi, oltre alla correzione degli errori grammaticali e
tecnico-editoriali, riceverà anche alcune proposte di miglioramento stilistico
e, se necessario, contenutistico. Si tratterebbe ovviamente di suggerimenti non
invasivi, opportunamente segnalati con un colore diverso, per darle così la
possibilità di accettarli o meno.
Capirà che
non possiamo inviare agli editori un testo che presenta così tante erroneità.
Per
conoscere i pareri di autori che hanno precedentemente collaborato con noi, può
consultare il seguente link: www.bottegaeditoriale.it/bottega/p4sx.asp.
In attesa
delle sue determinazioni, le porgiamo i più cordiali saluti, invitandola, per
qualsiasi delucidazione, a contattarci telefonicamente al seguente recapito: 392 9251770.
Cordialmente,
p. Bottega
editoriale,
Ilaria
Iacopino
Dopo aver risposto tante volte
a lettere del genere e cercato di interloquire invano, mi sono trattenuto da
mandargli degli insulti volgari eppure privi di errori, volutamente pensati in
quella maniera. Sono andato a vedere i prezzi, qui si fa un trattamento
separato per ogni cosa, di solito invece si paga il pacco completo. Insomma
vengono fuori dei bei soldoni e vorrei vedere poi come lo fanno questo lavoro,
perché uno pagherebbe anche volentieri, se non sapesse che poi non applicano
per niente alla lettera quello che dicono, solo i prezzi e i pagamenti non
devono sgarrare.
Buongiorno!
Molto interessante il suo testo.
Ibiskos
Servizi editoriali si occupa di tutta la parte redazionale, eseguendo un
attentissimo editing professionale sul testo, impaginando e studiando la
copertina. Una volta approvato dall’autore il nostro lavoro, gli consegniamo il
file pronto per la stampa.
Collaboriamo
con una casa editrice di Firenze che acquisisce il file, lo stampa e lo
promuove e distribuisce. L’autore comunque può avvalersi di qualsiasi altro
editore per la stampa.
Se
desidera approfondire la nostra proposta ed avere un preventivo, siamo a sua
disposizione.
In attesa
la salutiamo cordialmente e le auguriamo un ottimo 2021.
Per
Ibiskos: Antonietta Risolo
Gentilissimo
Grazie per averci contattato. Sicuramente il suo è un bel libro, dal tono
piacevolmente ironico e a tratti surreale. In poche parole, merita di
essere pubblicato. Tuttavia, la programmazione editoriale di Oligo è già
delineata per il prossimo anno e non ce la sentiamo quindi
di inserirla a catalogo, anche viste le ben note difficoltà del momento.
Tuttavia, la nostra casa editrice dispone di un altro marchio
editoriale: Il Rio Edizioni, distribuito da fasbook e seguito dal
medesimo ufficio stampa di Oligo. La invitiamo quindi a visitare il nostro
sito www.ilrio.it e a vagliare i nostri
canali social per
prendere in considerazione questa eventualità.
In ogni caso, visto il momento terrificante e le prospettive di
vendita basse, siamo costretti a comunicarle già che, in caso le
interessasse pubblicare con noi, saremo costretti a chiederle un
acquisto copie per dare il là al progetto editoriale.
La cosa migliore sarebbe vedersi di persona. In tal caso,
potremmo fissarle un appuntamento presso uno dei nostri uffici a Mantova o
a Verona. Altrimenti, potremmo organizzare un appuntamento telefonico. Intanto,
può scriverci a casaeditrice@ilrio.it
Grazie per l'attenzione
La Redazione
Si premette un immancabile gentile o gentilissimo quale
io purtroppo non sono, perlomeno non più, da quando ho capito che più originale
e interessante sono e meno vendo, non è solo colpa degli editori, il sistema
mafioso è parte di un ingranaggio globalizzato, figurarsi che la distribuzione
si frega già il 66 % degli utili di un libro.
L’autore esordiente è stimolato a scrivere, non importa
come, gli si danno dei corsi inutili per diventare un fantasma che non ha
personalità, ma della tecnica standardizzata, un vestito senza un corpo dentro,
come se esistesse un modo per scrivere universale, che non c’è e direi per
fortuna, ma chi si discosta è controcorrente e l’indifferenza totale è il suo
premio.
Non è solo il mondo della letteratura, ormai marginale
e secondario, la gente non cerca più certe cose, ma stereotipi ai quali sia già
abituata, non ha tempo di cercarsi qualcosa di originale che all’inizio non
capisca nemmeno. Il mondo attorno è diventato un circolo in cui tutto si è
appiattito, dal cinema, al calcio, alla politica, non ci sono sorprese. Dove
sono finiti i comici? Solo alcuni e qualche saltuaria volta, fanno ridere veramente.
Il peggio si annuncia continuamente alla TV, succederà inevitabilmente e
sistematicamente. Oggi è un giorno leggermente peggio di ieri e
impercettibilmente meglio di domani.
Ma il peggio qual è?
La noia, il ripetersi di giorni sempre uguali, fatti di
persone e prodotti prefabbricati in cui la sorpresa, il divertimento, il
piacere sono standardizzati e clonati. La banalità e l’arroganza fanno da
condimento, la prepotenza quando necessaria, l’indifferenza è uno sfondo a
tutto, senza dimenticare l’insensibilità verso gli altri, anche eccessiva nei
propri confronti.
UNDICESIMA
PARTE
PORTO ALEGRE
– LUCCA
ANDATA E
RITORNO
Maria Dina ha un faccia simpatica,
è intelligente, sensibile e ha sogni semplici e realizzabili. Finalmente una
persona di sesso femminile che non finge di esserne un'altra.
Quando parla, le sue frasi sono
confuse, non solo nella forma, ma anche nel contenuto, per via del suo
entusiasmo, della sua gran voglia di condividere ciò che ha dentro, della sua
ansia di metterlo fuori.
Però ha le idee chiare, su se
stessa, su di me e sul mondo che ci circonda.
È completamente differente da
tutte le donne che ho conosciuto prima.
Di schianto mi ha fatto capire che
certe donne erano troppo costruite, troppo poco pratiche, per mettersi in una
vita reale insieme a me.
E se lo avessero fatto, poi,
sarebbe stato anche peggio.
Quando l’ho conosciuta, Maria Dina
aveva la metà dei miei anni e il doppio del mio buonsenso.
Ho pensato subito che in
relativamente poco tempo, quelle stesse percentuali sarebbero diventate sempre
meno nette, insomma, per una strana ma logica coincidenza, avevamo tutti e due
intenzione di mischiarle.
NATALE
Vila Nova è stata fondata tanto
tempo fa da italiani, una volta era un villaggio, poi è diventata un quartiere
di Porto Alegre.
Le strade qui hanno cognomi di
emigranti della nostra terra, in alcuni casi misti, la via principale si chiama
Vicente Monteggia, la nostra strada è la João Locatelli da Silva.
Se si abita su questa collina di
Porto Alegre, di periferia un po’ più esterna e campagnola, ci sono ancora quei
venditori ambulanti col megafono, che si fanno annunciare da frasi registrate e
vendono le cose più diverse.
Non è facile arrampicarsi per
questa strada ripida, però tra i tanti ci viene a trovare regolarmente il
camioncino del gas, con una canzoncina all’altoparlante che ne elogia la
qualità e la quantità...
Le donne di qua non sono abituate
a discutere di politica, parlano di quello che fanno e tra le poche altre cose
comprano i prodotti per la casa.
Se intervistate, alcune dichiarano
che la Liquigas mette meno gas nelle bombole della Ultragas, altre dicono il
contrario, naturalmente ci sono anche altre marche e perciò le comari non si
trovano d’accordo su quale sia meglio e quale peggio, ma tutte dicono la pura
verità e per esperienza diretta.
Il camioncino della verdura, dal
megafono sul tettino, elenca una interminabile lista di prodotti genuini,
garantiti e naturali; oltre i vetri sporchi, là dentro, ci sono due ragazzoni
dai lineamenti della faccia tagliati con l’accetta, che parlano con l’accento
di qualche parte dell’interno dello stato, dove ci sono le montagne.
C’è il venditore di zucchero
filato, che è nero di pelle e di capelli, simili nel formato ai suoi bianchi
cespuglietti.
Arriva a piedi, è magrissimo e su
una specie di struttura tipo albero di natale porta un’infiorescenza di candide
nuvolette, suona la trombetta per annunciarsi e i cani di tutte le colline
limitrofe abbaiano dal primo squillo all’ultimo.
La domenica mattina c’è
addirittura, l’autobus della colonia,
che è una vecchia corriera che pare alimentata a ruggine e sale a stento la
collina, il suo megafono offre prodotti alimentari casalinghi provenienti dalla
campagna: formaggio, affettati, vino, dolciumi e così via.
Più raramente passa un camioncino
rossoblu che si regge in piedi per miracolo, non so cosa vende, il suo megafono
è tanto scassato e la voce così impastata, che non capisco una parola.
Si vede solo un uomo col cappello
di un colore indefinibile e la barba di due o tre giorni che si confonde con il
sudore rappreso, il tipo snocciola frasi
in un microfono come se fosse una sola interminabile parola, non c’è nessuna
scritta per aiutare chi non capisce, magari non vende prodotti ma qualche
servizio, chissà, uno svuotatore di fogne?
E allora il camioncino perché non
è una cisterna?
A venti minuti dal centro, qui
pare aperta campagna, la zona sud è l’unica dove c’è ancora spazio per
costruire, dagli altri lati Porto Alegre è circondata.
Spero di no, ma temo che fra pochi
anni non ci sarà più così tanto verde, non lontano da qui hanno già costruito
un ipermercato e un altro lo stanno terminando, ancora più vicino, il primo con
un enorme shopping center attaccato in costruzione.
A Vila Nova la gente non bada
troppo alle apparenze, per Natale le strade rimangono esattamente uguali al
resto dell’anno, ognuno continua a fare la sua vita, senza fingere di essere
diventato buono, senza dover fare l’albero di natale in giardino, forse perché
già il giardino sarebbe improprio chiamarlo così, se la maggior parte delle
case non ha nemmeno la recinzione.
Maria Dina da settimane sta
cercando di mettere il sale sulla coda del venditore di candeggina, che offre
cinque litri per un Real, equivalente a 35 centesimi di euro circa.
Il fatto è che le pareti della
nostra casa sono quelle rugose e rustiche di chi non ha avuto voglia, tempo e
soldi di fare l’intonaco vero e proprio.
Se mettiamo questo fatto insieme
all’altro che il nostro è un clima subtropicale, i ragni e gli insetti in genere
sono prolifici, insistenti e invadenti, le ragnatele su superfici porose ed
irregolari non sono solo difficili da pulire, ma ci si attaccano anche meglio,
i buchi servono da nascondiglio, insomma sono un invito alla delinquenza.
Maria Dina allora ha deciso di
pulire i muri in occasione della visita di mio fratello Leonardo, gliel’ho
detto che a lui non gliene frega niente, ma non c’è stato nulla da fare.
C’è da dire anche che pure il
soffitto del piano terra è di quello stesso genere irregolare, poroso, dipinto
di bianco e punteggiato di tele di ragno e insetti mummificati.
Niente di meglio di queste
candeggine forti, non profumate, anzi meglio se puzzolenti, in quella loro
tipica maniera, credo, ancora internazionale, per snidare e sconfiggere prolifiche
famiglie di ragni a gambe lunghe, dal nucleo piccolo come un pallino da caccia
e dalle otto articolazioni dinoccolate, finissime e lunghe fino a tre quattro
centimetri.
Queste caricature di aracnidi,
quando raggiungono numero e densità per metro quadrato ragguardevoli, come nel
nostro caso, fanno ridere assai meno, perché te li ritrovi addosso, intorno e
dentro tutto ciò che si azzarda a volersene stare tra i muri in questione,
insomma, quelli che noi pensavamo che rappresentassero la nostra casa.
Si aggiunga che il venditore di
candeggina è inafferrabile, passa solo per la strada principale e non nella
nostra, che è sterrata e senza uscita, si sente la voce del megafono e non si
capisce mai in che fottuto punto della collina si trovi.
Allora Maria Dina cerca
convulsamente le chiavi di casa, i soldi e tenta di vestirsi decentemente in
pochi secondi, ma riuscita alla meglio a precipitarsi fuori, corsa giù a
rompicollo per la discesa, passano i minuti e a volte le mezz’ore, ritorna
senza niente in mano e respirando affannosamente.
La candeggina l’abbiamo poi dovuta
comprare all’ipermercato Big.
TECNOLOGIA
La tecnologia è una cosa
incredibile, nel bene e nel male. Ho avuto il piacere poco convenzionale di
fare il turista in Toscana con un navigatore del cellulare registrato in
Brasile, una voce femminile artificiale pronunciava i nomi delle vie in
portoghese, tutti distorti e non si capiva niente, però ci facevamo delle
discrete risate. Aggiungiamo che questi GPS spesso sbagliano strada e ti fanno
fare dei fottutissimi giripeschi.
Entrati nella regione Lazio la
segnaletica è scarsa e confusa, per trovare il Lago di Vico, vicino al nostro
Hotel di Bagnaia, ci abbiamo messo un sacco di tempo e abbiamo visto anche dei
bei posti, ma che non sapremmo ritrovare più.
Tornati da noi al Quercione siamo
spesso stati interpellati da gente che si era persa, perché il GPS non
considera la strada grande e usata da tutti, fa prendere una scorciatoia tra i
campi che non allunga, è vero, ma ci si trova in una strettoia, che se arriva
una macchina dall’altra parte, qualcuno deve tornare indietro per centinaia di
metri a marcia indietro, per chi si sbaglia c’è un apposito fosso da una parte
e uno dall’altra, non è raro che si debba chiamare un carro attrezzi.
AMICHE DI FERMATA DELL’AUTOBUS
Gli uomini s’indebitano quanto
possono e anche di più, spesso vivono in catapecchie, ma hanno i cellulari
all’ultimo grido e l’automobile che pagano solo quando ci riescono, quindi
sugli autobus ci sono più donne, anziani e bambini. I pensionati non pagano e
gli autisti in ritardo fanno finta di non vederli e vanno a dritto, orientati
così dalle imprese.
Una
donna abituata a stare per ore in giro su automezzi strapieni e talvolta anche
rapinata sui mezzi di trasporto, in congestionamenti urbani che all’ora di
entrata e di uscita dal lavoro sono regolari e giornalieri, sviluppa una
conversazione nervosa, ma confortante, con donne che come lei sono condannate a
fare lavori umili, a stare per ore sugli autobus, o aspettandoli a lungo quando
sono in ritardo.
L’amica di fermata di autobus è
una persona che racconta la sua vita volentieri, tanto per passare il tempo e
divertirsi sulle sue tragedie quotidiane, ride e piange con sconosciute che
però incontra spesso in quei frangenti e poi diventa veramente amica di amiche,
che raramente incontrerà fuori da quelle condizioni di stress giornaliero.
Di che cosa parlano le amiche di
fermata di autobus? Di tutto e di niente, della vita e della morte, delle
offerte speciali del detersivo, come della visita all’ospedale per la malattia
improvvisa della cugina Elizandra.
Consideriamo che Porto Alegre,
come altre città brasiliane, è cresciuta senza uno schema, nessunissimo piano
regolatore. La sua struttura di strade è assai complicata, irregolare e quasi
mai squadrata, colline e dirupi, a volte assai ripidi, ne complicano
ulteriormente il disegno e la viabilità urbana.
Non è raro che per evitare i rami
degli alberi i camion e gli autobus debbano camminare in mezzo alla strada e
bloccare chi arriva dall’altra parte.
Come in tante altre grandi città
brasiliane il transito è una cosa confusa, a partire dal fatto che le strade
sono insufficienti per il numero di macchine, taxi, navette, autobus e camion.
A continuare coll’educazione
stradale quasi inesistente che ha a che fare con l’educazione personale della
gente, o meglio: con la sua mancanza. I brasiliani sono molto più pazienti,
gentili e soavi degli europei, ma in grandi città e agglomeramenti possono
perdere la calma anche loro.
In più in Brasile non ci sono treni,
con una superficie totale superiore a 28 volte quella dell’Italia, maggiore di
quella europea, senza la Russia. I treni sono solo usati commercialmente nello
stato di S.Paulo. A Porto Alegre, come in altre città considerate quasi grandi,
c’è una linea di metropolitana che però porta fuori, verso le città dormitorio.
Negli ultimi anni, messa in atto
la possibilità di vendere automobili nuove pagando in 99 rate, il numero degli
automezzi in giro è triplicato, poi le macchine non le pagano certo tutte, ma l’importante
non è quello, fondamentale è vendere e già prima il transito era caotico e
pericoloso.
Naturalmente a Rio e S.Paulo è
peggio, la gente è abituata a sorbirsi ore in autobus e in metropolitana, senza
posti a sedere e si calcola che tanti passano più ore nel trasporto che al
lavoro, a casa ci dormono e poi ripartono.
Il trasporto urbano in Brasile è
un problema e non ha soluzioni per i più poveri, perché non è certo una
priorità della mafia del cartello, o del cartello delle mafie. Naturalmente sto
parlando delle grandi città come Porto Alegre, per esempio, che non è una
tra le più grandi, non avendo forse nemmeno due milioni e mezzo di
abitanti, ma è la maggiore nell'estremo sud, dello stato del Rio Grande do Sul,
quasi un triangolo tra Oceano Atlantico, Uruguay e Argentina.
Ci sono strade di grande movimento
in cui troppi autobus bloccano i semafori, essendo le fermate troppo prossime
all'incrocio, e altre strade completamente ignorate perché poco convenienti. I
prezzi sono sproporzionati e non c'è una convenzione, tra le due ditte
principali, che permetta di pagare un solo biglietto se si va in unica
direzione, con un tempo limitato, come nelle grandi città di tutto il
mondo.
Non tutti gli autobus hanno l’aria
condizionata, ma chi ce l’ha, per risparmiare, è orientato a farla funzionare
solo quando non è caldo e ci sarebbe veramente bisogno, succede allora che la
gente dice di spegnerla, perché la accendono solo quando è fresco di suo.
Insomma l’assurdo diventa
ordinario e ripetitivo nel mondo, e quindi anche qua in Brasile, ma i modi e le
maniere sono diverse ed è per questo che la gente è così paziente e aperta
d’idee, stanca, calma e stressata allo stesso tempo.
Il trasporto UBER però sta
suggerendo un parziale cambiamento, almeno per la fascia delle meno povere,
perché la passeggera, almeno per le distanze meno lunghe, viene portata a
destinazione in macchina e da sola, per un prezzo che spesso è pari o solo il
doppio del prezzo dell’autobus, poco più di quello della navetta e la viene a
prendere davanti casa, la lascia esattamente dove vuole lei, non deve camminare
proprio. Ovviamente non può usarlo per andare a lavorare e tornare tutti i
giorni, a meno che non sia di classe media, ma anche così diventa un costo
alto.
I tassisti all’inizio hanno ovviamente
malmenato per un po’ di tempo gli autisti UBER, e qualcuno è stato anche
ammazzato, ma ora hanno applicato tariffe più basse per fargli, a loro volta,
un po’ di concorrenza.
Qua in generale gli stipendi
aumentano molto lentamente, piuttosto fisiologicamente quelli dei politici, in
compenso assai velocemente levitano i prezzi di ogni tipo di beni di consumo,
dagli alimenti ai materiali di costruzione, che si calcolano negli ultimi tre
anni raddoppiati se non triplicati. È una tendenza regolare e tradizionale, non
c’è nemmeno bisogno della crisi, anche se quella aiuta, c’è sempre o quasi.
Le questioni di principio sono
conosciute solo dove si può scegliere; in molti paesi del mondo, dove la
sopravvivenza impegna la gente in maniera totale, la base della piramide non ha
tempo e spazio per chiedersi un perché o un percome, le cose semplicemente si
fanno perché si devono fare, il motivo non interessa più, ci se ne dimentica
presto, e senza averlo mai saputo.
Quando
la stessa idea di questione di principio è un concetto astratto, si lotta per
un palmo di terra, per mezz’ora di ricreazione, si perde di vista cioè il senso
di tutto questo, se ce ne ha mai avuto uno, se non la sopravvivenza.
RISTORANTINI
A Riomaggiore, la prima delle
Cinque Terre che si trova arrivando da La Spezia, io e Maria Dina andammo a
mangiare in un ristorante appena sopra il porticciolo che ci avevano indicato,
piccolo affollato e dove si mangiava bene assai.
Il cuoco nei momenti liberi girava
per le due piccole salette, non attaccava discorso, ma se qualcuno voleva
parlare con lui lo faceva, non era un chiacchierone ma aveva la faccia
intelligente e soprattutto di persona autentica, uno che voleva capire la gente
e se stava facendo bene il suo lavoro, che doveva essere anche una passione.
Non mi ricordo esattamente cosa mangiammo, tutta roba di pesce naturalmente, ma
tutto quello che prendemmo era assai gustoso e semplice, a cominciare dal pane
che in un ristorante, prima di mangiare ogni pietanza che seguirà, ci fa subito
capire se siamo capitati bene o male.
Al lago Santo per spirito
romantico andammo al rifugio Marchetti dove avevo più volte alloggiato con i
miei genitori molti anni prima. Proposi a mia moglie di prendere la trota, che
non aveva mai assaggiato e faceva schifo, era quasi marcia, al suo posto scelse
le tagliatelle alla boscaiola, ma si sbagliò a ordinarle, disse pappardelle
alla boscaiola e le portarono pappardelle al cinghiale, che facevano schifo
anche quelle, ma forse un po’ di meno della trota. Il padrone voleva venire a
scusarsi, disse la cameriera, ma io dissi che non c'era bisogno, la prossima
volta saremo andati altrove.
Strano a dirsi però, io mangiai
bene, forse perché ero andato sul classico: ravioli alla salvia, roast beef e
patatine fritte.
Dopo una cinquantina d'anni,
dentro al rifugio Marchetti non era cambiato niente, c'era ancora la foto in
bianco e nero incorniciata della trota gigante pescata in un'altra epoca,
ancora precedente. Addirittura c’erano gli stessi quadri e gli stessi tavoli e
sedie, sembravano addirittura con la stessa disposizione. Certo i Marchetti
erano già vecchietti a quei tempi andati, attualmente morti e sepolti da tempo,
i figli non ne avevano avuto voglia.
Quella era una gestione che pareva
di gente non del posto, venuta dalla valle, forse persino dalla città.
La passione per la ristorazione o
alberghiera che sia è una cosa rara oggigiorno, quando si trova è una fortuna,
io la noto subito, forse la gente è diventata indifferente anche a questa, come
ad altre cose e il mondo attorno certo non aiuta.
ALLA BICOCCA
I miei
avevano un appartamentino alla Doganaccia, in montagna, che ora è diventato di
mio fratello Leonardo.
La famiglia
della funivia e dell’albergo bar ristorante La Bicocca era una di quelle dei
tempi andati, gran lavoratori e brava gente. Il padre doveva avere un’ottantina
d’anni ma lavorava come un giovane, i figli che poi erano adulti e sposati,
anche di più. Avevano investito tutto, soldi e vita sulla loro impresa e
avevano paura che gli affari andassero male, il covid 19 aveva già fatto del
suo meglio e quella storia era ancora lontana da essere risolta.
Zeno, il
figlio maggiore, a prima vista era un tipo serio, ma assai naturale e
simpatico, senza pensarci nemmeno.
Una volta gli
ho chiesto una sfogliatella alla crema, lui ha detto che c’erano alla
cioccolata, alla ricotta, alla marmellata di mele e alla crema, ma sembravano
tutte uguali. Le aveva tirate su con la pinza apposita, una per una, guardate
con attenzione e azzardato varie ipotesi, tra quelle conosciute. Alla fine ha
scosso la testa sconsolato e ha detto: “Direi una bugia.” Allora io gli ho
fatto un gesto con la mano come dire: tiriamo a sorte.
Me ne era
toccata una alla ricotta, ma era buonissima. Ne ho provata poi un’altra ed era
di nuovo alla ricotta. Alla terza me ne è toccata una alla cioccolata, che era
proprio quella che volevo evitare, ma era gustosa e in più ci avevano riso
insieme.
In un'altra
occasione sulla funivia scendevamo insieme e c’era anche il padre, a un certo
punto gli ho chiesto come si faceva per pagare e lui gli aveva spiegato che si
pagava in fondo, a Cutigliano, così se precipitavamo avremmo risparmiato.
Il fratello
minore, che correva anche in macchina nei rally, parlava poco e il padre
scuoteva la testa con qualche imprecazione soffocata, diceva che almeno in
tempo di guerra si sapeva chi era il nemico, ora invece no, si combatteva
contro i mulini a vento come Don Chisciotte, si perdeva sempre e comunque,
c’era da ammattire. Stava parlando del Covid 19.
Una volta,
prima della Pandemia, siamo andati a cena alla Bicocca. Era maggio e non
essendo ancora alta stagione c'era poco movimento. A pranzo c'era una cuoca,
un’assistente-lavapiatti e una cameriera, ma solo nel fine settimana, che
apriva anche la funivia, se non c’era troppo vento.
Nei giorni
feriali erano in due, la sera però Zeno si arrangiava da solo, usando le salse
e la preparazione delle varie pietanze fatta la mattina dalla cuoca. In più
teneva il bar, la reception dell'albergo e sgranocchiava cioccolata davanti
alla TV.
Ordinai
ravioli burro e salvia e Maria Dina prese le tagliatelle alla boscaiola, anche
se per i funghi eravamo fuori stagione. La mia porzione arrivò striminzita e
invece quella di mia moglie era stranamente gigantesca. Di secondo presi le
scaloppine al limone e lei invece la tagliata alla rucola. Anche stavolta le
porzioni erano nettamente sbilanciate dalla parte di Maria Dina, che in
entrambi i piatti mi dette quello che le avanzava, che specialmente in montagna
da una buona forchetta ne diventavo una esagerata.
Tale
comportamento essendo poco professionale m anche una cosa buffa a vedersi ci
siamo divertiti abbastanza e ci siamo chiesti anche se non era stato fatto di
proposito, ma ci siamo risposti che probabilmente il ragazzone aveva fatto del
suo meglio, ma non era certo un cuoco. Avevamo mangiato bene e avevamo riso del
povero - ma ricco - Zeno che faceva tutto lui, conversando rapidamente con noi,
sparendo in cucina a preparare le pietanze e andando su e giù dalla scala per
tornare al bar e alla reception dell’albergo.
TRE LIBRI
“Poi ho mischiato un po’: Andrea
Vitali, Gianrico Carofiglio, Donna Leon (che però non scriveva in italiano),
Luis Fernando Verissimo e qui entravano tutti i brasiliani. Dopo Stieg Larsson,
che ha cominciato a fare apprezzare al pubblico mondiale la letteratura
scandinava. Bulgakov, Piero Chiara, Malvaldi forse il più popolare tra gli
autori toscani e naturalmente Fruttero e Lucentini.
Le cose migliori vengono nascoste
dalla quantità enorme di quelle insignificanti, ripetitive, velleitarie,
rivolte a chi non ama la letteratura, ma solo l’eventuale sensazionalismo.”
“Dici?”
“Se
tu volessi qualcosa di bello, interessante e gradevole, almeno per me è raro,
quando ci riesco è una data da segnare sul calendario.”
“Come sei esagerato!”
“Magari
hai ragione, forse è solo un aspetto personale. Resta il fatto che per me è
difficile trovare qualcosa di buono in libreria, ma se volessi tante cose
stereotipate e ovvie non c’è problema. Cerco una ripetizione della stessa roba
all’infinito? Quanta ne voglio, il mondo è diventato così, migliaia di copie di
una cosa già inutile al primo documento originale, nessuna di quelle che
potrebbero dire qualcosa di proprio e che valga la pena.”
“Sei un falso pessimista, vuoi che
ti convincano che non è esattamente come tu dichiari, ti lamenti perché ti
facciano cambiare idea. Lo so, dici sempre così, poi trovi della roba bella e
ti entusiasmi, ti dimentichi per un po’ di tempo di tutta l’affannosa e
precedente ricerca…”
“Hai ragione. Sì. Infatti, è vero,
qualcosa di bello ogni tanto c’è. Ma mi pare sempre più raro.”
“Sei te che sei cambiato.”
“Forse sì, ma non solo. Guardati
attorno.”
Di solito regalo i libri che
scrivo a chi legge abitualmente e lo faccio per amicizia, ma anche per sentire
la loro opinione. Ultimamente ho notato che invece l’opinione non me la danno
per niente volentieri, anzi mi evitano, non so se i libri non gli piacciono e
si vergognano a dirmelo, oppure gli garbano e non vogliono darmi questa
soddisfazione, ma credo che sia più facile la prima ipotesi.
Alcuni mi pare perfino che si
siano quasi offesi mentre gli porgevo uno dei miei libri, hanno rifiutato con
veemenza, ma non credo che fosse per causa di uno dei miei libri in
particolare, piuttosto a ogni tipo di libro, come se rappresentasse un peso che
non avrebbero voluto sopportare, una specie di minaccia che preferivano
evitare.
Ho donato alcuni miei volumetti al
Circolo del Libro della Coop, dove si prendono gratis in prestito, visto che
non si paga niente, è più facile che qualcuno, magari solo per sbaglio, alla
fine se li legga. La scelta per fortuna è relativamente assai più limitata che
in libreria, o peggio ancora su internet.
Alla Coop ci andiamo più o meno
una volta alla settimana, mentre mia moglie inizia a fare la spesa, io
intraprendo una ricerca di qualche minuto, perché poi la devo aiutare.
Ci lascio i libri che ho già letto
e prendo quelli che m’ispirano, quindi ho maniera di vedere se i miei qualcuno
se li prende e vedo che per la maggior parte del tempo rimangono lì ad
aspettare invano.
Un giorno che ero da solo e di
particolare buonumore mi sono messo a parlare con la gente che si avvicinava
per scegliersi qualcosa da leggere. Chiedevo che cosa gli garbava e se era il
caso gli consigliavo uno dei miei volumetti che c’erano lì, dicendo che cosa
poteva trovarci dentro e che li avevo orgogliosamente scritti io. Con alcuni di
loro mi sono messo anche a scambiarci idee letterarie e con una certa
soddisfazione.
Una signora piuttosto gentile e
alla mano ha detto che lei leggeva volentieri cose diverse, ma anche gialli, le
piaceva Camilleri quindi le ho consigliato il Manuale dell’infallibile segugio,
che poi era più un noir e lei se lo è portato via.
Un uomo forse un po’ più vecchio
di me, mi ha specificato che abitava a Piombino, veniva ogni tanto a Lucca e
ancora più raramente alla Coop. Poi abbiamo parlato dei gialli e dei nostri
gusti a riguardo, mi ha consigliato Anne Holt, che io non conoscevo ancora, io
gli ho parlato del mio Manuale e lui se lo è portato a casa. Però, prima di
andare via, mi ha detto che se lo avessi ritrovato lì, il mio libro, sarebbe
stato perché non gli era piaciuto. Sono stato contento di non rivedere più
quella copia, né quella della signora.
Un terzo signore, che faceva parte
della direzione del Circolo, mi ha chiesto quasi subito della loro iniziativa,
se mi era garbata o no. Dopo avergliene cantato le lodi più sincere, è stato da
me consigliato a leggere L’emigrante alternativo, il mio primo libro, stampato
a mie spese in Brasile, di cui ho raccontato un po’ la bizzarra storia e lui mi
parlato un po’ di sé e dei suoi gusti letterari. Sarà anche per caso ma pure
questa copia non è più riapparsa sugli scaffali pieni.
Qualcuno penserà che sono
bischerate, ma io credo che siano piccole soddisfazioni, alle quali
bisognerebbe fare più attenzione che ai torti subiti, alle normali ingiustizie
dell’esistenza.
MAMMA
“Si arrabbiava tantissimo quando i
nonni fecevano quelle cose che poi ha fatto lei da vecchia signora oltre gli
ottant’anni. Che si sta invecchiando si capisce da tante cose, anche da quello,
quando le cose che ci irritavano da bambini o da giovani, diventano parte del
nostro comportamento. Per esempio io non sopportavo mio padre quando
arrabbiatissimo ci faceva smettere di giocare a pallone, se era in casa, ma ora
non sopporto più i rumori e soprattutto chi non lo capisce e fa di tutto per
disturbare. La mia proverbiale memoria sta cominciando a zoppicare e a volte
non mi ricordo più le cose appena fatte, oppure cose di cui si è parlato spesso
e da tempo.”
“Da quanti anni si è manifestata
la sua malattia?”
“Le prime avvisaglie di senilità
non so più quando le abbiamo notate. Quando è venuta in Brasile la seconda
volta, nel 2010, parte di una manovra per permettere i lavori di casa qui al
Quercione, (che con lei presente sarebbero stati più ostici assai,) cominciava
già a essere poco ragionevole. Non voleva una badante, non voleva che Leonardo
venisse ad abitare con lei, non voleva nessun cambiamento, ma si lamentava
sempre di essere sola. La soluzione, quella di fare due appartamenti separati,
per fare in maniera che mio fratello potesse stabilirsi qui con la sua famiglia
l’abbiamo dovuta prendere contro la sua volontà.
Un brutto ricordo che però è stato
indicativo del suo cervello in stato degenerativo è l’ultima volta che ho
passato un po’ di tempo da solo con lei, nel 2016.
Durante i pasti si litigava sempre
perché lei non accettava che io mangiassi quello che volevo, quello che si
preparava lei era troppo pesante per me, non ce la facevo a digerire, io glielo
spiegavo ma poi lei se lo dimenticava e ricominciava. Si arrabbiava che io non
volessi quelle stesse cose che lei mangiava. A tavola eravamo solo io e lei,
dopo decine di fasi alterne, lei non si ricordava certo perché, ma nessuno
parlava, per nessun motivo. Era estate e cercavo di sfuggire alle sue pazzie,
come potevo scappavo e lei rimaneva da sola davanti alla TV a tutto volume,
guardava quei talk-show maleodoranti del pomeriggio, si arrabbiava anche con
loro e urlava agli ospiti di non parlare tutti insieme.
Ricordo che trovai una Settimana
Enigmistica tutta pasticciata, sembrava capitata in mano a un bambino piccolo.
Una volta lei la completava quasi, facendo anche i rebus e vari tipi di giochi,
e naturalmente le parole crociate più difficili, come quelle di Bartezzaghi.
Ora invece si vedeva che non era riuscita nemmeno lontanamente a riempire
quelle della copertina, che erano le più facili. La calligrafia anche era
spezzata, incerta. Che tristezza, il declino di un cervello di una persona
amata, senza speranze di poterlo fermare.
Poi è andata sempre peggio,
l’alzheimer l’ha consumata e annichilita, e ora dopo anni di declino suo e di
sforzo enorme di tutta la famiglia, ma principalmente nostro che abbiamo
lasciato casa e tutto a Porto Alegre per stabilirci qui, poi la pandemia di
mezzo, mamma è agli sgoccioli. Credo che abbiamo fatto tutto il possibile,
probabilmente più di quello che la maggior parte dei figli avrebbero fatto
nelle nostre condizioni, grazie soprattutto a mia moglie infermiera brasiliana,
che dopo aver perso recentemente in poco tempo i suoi genitori l’ha presa come
se fosse sua madre. Per fortuna Maria Dina ha stabilito con lei un contatto
forte, finché era in testa si divertivano assai insieme, ridevano parecchio,
ora è l’unica che riesce a parlare, anche in maniera minima con lei, riesce
addirittura a farla sorridere.
Sulla diagnosi di alzheimer i vari
dottori sono stati d’accordo, ma alcuni dicevano che era una forma
frontotemporale e altri lo negavano, comunque pare fosse per cause miste, come
spesso accade.”
UNA
COPPIA
Ludovico e Dorina, genitori di
Rinaldo, erano al loro modo due fenomeni di simpatia, ma in maniera assai
diversa. Ludo era sarto e di quelli bravi, c'aveva un banjo e ci suonava le
opere liriche e le intonava anche con il pianoforte. Giocava bene a pallone e
ci aveva un sinistro con il giro che eludeva i portieri e si infilava nel
sette. Ma quelle che più contavano erano la sua apertura mentale e la sua
intelligenza, la sua simpatia, la sua flessibilità certo non comuni. Dorina era
quasi l’opposto: più prepotente e rozza, era capace di frasi sorprendenti di
saggezza campagnola, di modi di dire un po' atavici, ma improvvisi e
inaspettati, spesso anche volgari. Una volta passando in tuta e scarpe da ginnastica
accanto alla Certosa, per una camminata, era lì con delle amiche, lei mi vide
da lontano, e gridò: “Sei venuto a piglià la rihotta?” Lì davanti c’erano i
pastori, che mettono ancora le pecore in Certosa e vendono ricotta e formaggio.
Un'altra volta, dopo che era stata male, la incontrai sulla strada vicino a
casa mia e le dissi che mi sembrava in forma, lei rispose: “Sì, hai ragione.
Vado bene di corpo e tutto.”
Ludo
in vecchiaia avanzata diventò amico di mio padre, cimento non facile per
nessuno e ho saputo recentemente da Rinaldo che negli ultimi tempi lì a casa
sua stavano a ore a parlare.
C'è da capirlo, a Ludo non piaceva
mettere i soldi in banca, non mi garba neanche a me, ma lui li metteva in un
panciotto e quando ne aveva bisogno erano lì attaccati a una gruccetta,
nell'armadio. Quando è morto, e aveva quasi cent'anni, nella confusione che ne
venne fuori, dispiacere e rivoluzione nell'ordine della vita degli altri,
Rinaldo se ne era scordato. Quel panciotto lo mise, insieme alle altre cose, nello
scatolone per poi andare a finire in quegli appositi cassonetti gialli, a quel
tempo dove si mettevano i vestiti usati per i bisognosi. Non sapeva quanti
soldi c'erano, potevano essere tanti o pochi, non si sa. Non molto tempo prima
Dorina disse che le avevano regalato dei funghi, li cucinò per tutti. Rinaldo
ne mangiò pochi, lei per niente. Anziano e debole Ludo ne mangiò assai, si
sentì male, lo portarono all'ospedale, dove ebbe due infarti, ma non morì.
Rinaldo si era sentito solo un po' strano, male ma non malissimo, ne aveva
mangiati pochi, lui disse uno solo. Venne fuori che erano funghi tossici, che
Dorina aveva colto in giardino. Non erano di quelli mortali, ma non facevano
certo bene. Però se lo avesse detto, dove li aveva presi e non avesse inventato
quella strana bugia, forse nessuno li avrebbe mangiati.
ALTRE COPPIE
La mia vita amorosa direi che è
stata intensa, ma con lunghi periodi da solo a grattarmi l’anima. Diciamo che
non ho mai avuto troppa soggezione della solitudine, anche se una volta sentivo
un forte bisogno di compagnia femminile, non escluderei che fosse per il
continuo veder coppie attorno a me.
Mio padre e mia madre, per
esempio, erano due che avevano poco in comune, se non un reciproco rispetto, ma
neanche tanto. Anche l'amore per noi figli si manifestava in maniera assai
differente se non opposta. Indubbiamente si giovavano a vicenda della reciproca
compagnia, ma non erano d'accordo su niente o quasi. Discutevano spesso e la
sera dopo cena litigavano per vedere una cosa o l'altra alla televisione, ma
compiuto questo rito quotidiano lei dormiva sul sofà e lui faceva le parole
crociate.
Quando mio padre andava a
Viareggio per fare uno o quell'altro lavoretto nell'appartamento della
spiaggia, lei spesso rimaneva a casa, ma lui le telefonava cento volte per un
parere o una conferma in questione del suo già manifestato disaccordo.
Quando ci andavano insieme, la
sera andare a prendere il gelato con il cane al guinzaglio era un classico
quasi quotidiano, anche quando andavano all'appartamento di Bibbona.
Là mamma cucinava come a casa e
ricordo a mezzogiorno tutti sudati a pranzo sul terrazzetto e lei più sudata di
tutti, ma si mangiava roba calda per lo più, anche ad agosto, che poi era
quello il periodo in cui tutti andavamo al mare.
ALTERNATIVE
Il gatto non è il migliore amico
dell'uomo, assai meno del cane, ma dall'uomo viene stimato proprio per la sua
indipendenza e poi mangia i topi.
I gatti per esempio ho cominciato
ad apprezzarli già verso i 60 anni, magari perché non li avevo mai avuti
intorno, insomma la vecchiaia ha i suoi lati positivi. Il tempo passa molto più
veloce, ma si hanno più soldi e calma per fare tutto senza dover correre.
Nella vita si ha bisogno di
alternative e spesso si fa di tutto per non farci caso. Bisogna fermarsi per
riflettere e ripartire, non aver paura di ammettere di aver sbagliato e
ritornare anche indietro se e quando diventa necessario. Comunque a 30 anni ti
rendi poco conto, hai più forze, meno soldi, meno entusiasmo, più alternative
potenziali, ma non te ne accorgi ancora come vorresti.
Forse perché si lavora e il lavoro
abbrutisce un po', cioè non ti permette di riflettere e di capire fino a che
punto sei stanco, e fino a che punto non ti piace quella realtà che ti
impedisce di vedere fuori.
La
stanchezza viene dal lavoro, che se tu lavorassi senza stancarti sarebbe
facile, insomma la saggezza viene quando mancano le
forze e si capisce di doverle dosare, se ne abbiamo la possibilità.
Insomma se hai più forze allora
devi lavorare e forse senti anche l'obbligo di farlo, la saggezza viene dopo
quando invece lavori di meno, rifletti di più, insomma è difficile avere tutto
insieme. Questo si vede anche nei giocatori di calcio, ma io di fare
l'allenatore poi non credo che ne avrò voglia mai. Sono sempre stato uno che
non aveva voglia di insistere, ma non so se è un bene o un male.
MORRO DOS VENTOS UIVANTES (CIME
TEMPESTOSE)
Saranno a malapena due o trecento
metri di altezza, sul livello del mare, ma quassù il vento che viene da sud, il
Minuano, ci fa spesso sentire la sua voce e d'inverno fischia anche minaccioso.
Quello
che mi hai detto, con quel tuo silenzio neanche un po' ammiccante, ma pieno di
parole che andavano a rivolgersi altrove e altrimenti, è che anche in un domani
posso contare con la tua assenza.
La tua assenza sempre presente qui
con me, in una casa dove hai vissuto quasi venti anni, mi basta e mi avanza, la
presenza continua diventa un'abitudine, quest'abitudine è un’ignoranza
involontaria e sistematica.
Siamo rimasti in cinque, Agata è
morta a marzo, rimpiazzata da Tamara, detta anche Cocca, dieci giorni più
tardi. Il terreno è molto scosceso, a suo tempo l’ho tagliato a terrazze, come
in Liguria, qui non c'è il mare, ma una bella vista sulla Lagoa dos Patos
(Laguna delle Anatre) che sono poi cinque fiumi che uniti, tanto tenpo fa, non
trovavano la via per il mare e hanno formato questo allargamento, che in alcuni
punti è così ampio che non si vede l'altro lato.
L'anno prossimo saranno trenta che
sono arrivato qua, cioè quasi metà della mia vita. A volte mi chiedo se mi
pento di esserci venuto e mi rispondo che ho fatto un salto di qualità oltre
che di oceano.
Naturalmente
penso a cosa sarebbe successo se fossi rimasto dall'altra parte e, anche se non
lo so, considero che ero incamminato male, capivo assai poco di ciò che avevo
attorno e difficilmente mi sarei tirato fuori dal mio stato di abulia.
Qui mi sono messo molto di più in
gioco e ho rischiato sulla mia pelle, senza l'appoggio dei genitori, che in
Italia anche se rassicurante diventa poi una malattia.
Il Brasile è ancora un posto più
affidabile a livello di rapporti umani, la gente è simpatica e affabile, ti
aiuta anche prima che tu glielo chieda.
DODICESIMA PARTE
LE TERME DI CARACALLA
La storia vera è leggermente
diversa, l’ho romanzata un po’, forse per allontanarmi dal dolore. Non è
servito a niente, però mi è piaciuta così, come poi è venuta fuori, mi ci sono
affezionato, ho provato a riscriverla, ma non mi è riuscito. Forse perché l'ho
tirata giù mentre stava succedendo.
La casa è vecchiotta, ma rimessa a
nuovo da poco, i muri sono larghi quasi un metro, le finestre a vetri doppi e
il riscaldamento funziona bene. Fuori oggi è freddo e siamo in osservazione
frammentaria e distratta dalla finestra della camera di mamma. In alcuni casi
le immagini non ci arrivano nemmeno al cervello, ma lo attraversano
piacevolmente. Sonnecchiamo, leggiamo un po', ci facciamo un caffè, ci facciamo
due caffè, e poi tre, dopo perdiamo il conto.
Ecco che chiama di nuovo, gli
anziani, specie quando sono malati di senilità, ritornano all'infanzia, come i
bambini, la prima parola in caso di bisogno, anche solo immaginario, è quella:
“Mamma... mamma...”
Facciamo a turno ad andare a
vedere, ma io ci vado meno. È strano trovarsi a fare da madre a mia madre, ma
la mamma vera qui è mia moglie Lorena, (per tutti e due,) e non è neanche
italiana, cioè solo di origine, ma di nazionalità venezuelana. A volte mamma
Nora fa le bizze, oppure necessita solo di calore umano, non sa dirci cosa
vuole, le parole e di conseguenza anche le frasi che dice non hanno senso,
almeno per noi. Lorena le chiede cosa le fa male, se poi le fa realmente male
qualcosa o sta solo commentando quello che vede alla televisione senza audio, o
una scena del passato che si è immaginata, o cos'altro noi non riusciamo a
figurarci, ma il suo sguardo spesso è perso nel vuoto, ci guarda ma non sempre
ci vede. Oltretutto passa a occhi chiusi la maggior parte del giorno.
Mia moglie le fa la solita lista
orale delle possibili magagne. Senza risultato. La mette un po' più stesa sul
seggiolone polifunzionale, un po' di acqua gel, sembra stare meglio e si
riaddormenta. Mentre dorme ogni tanto una bella bestemmia, riferita a non so
cosa, di solito un dio boia, due dio cani, tre o quattro dio
maiali. Anche le parolacce fioccano tra le poche frasi comprensibili che
ancora dice, forse non per caso, ma prima della malattia, da quando la conosco,
non ne ha dette mai.
Oggi è abbastanza lucida, forse
troppo, il medico le ha tolto un farmaco, il Destezil, che la rincretiniva
assai, per vedere se senza non si incasina piuttosto il cervello e allora
bisogna ridarglielo. Non il cervello, che purtroppo quello non si può più, solo
il farmaco.
Una malata di alzheimer, specie
del tipo agitato come lei, deve vivere costantemente sotto l'effetto di varie
medicine che curino le ripetute reazioni psicotiche, che si manifestano con le
parolacce verso i programmi televisivi e fin qui avrebbe anche ragione, però
anche rivolte alle persone che sono lì per aiutarla o agli oggetti in generale,
in ogni tipo di situazione in maniera disordinata e discontinua, nel suo caso.
Negli altri casi non lo sappiamo e confesso che non sono nemmeno troppo
curioso, per me questa realtà è già un pozzo senza fondo. Un giorno sembra star
meglio, poi si torna a qualcosa di già visto e passato, poi un peggioramento,
dopo un miglioramento, ma più piccolo, coscienza e incoscienza mischiate, poi
separate, senza spazio né tempo, senza alcun ordine comprensibile, almeno per noi.
I farmaci servono per non farla star male, cioè in quello stato di ansia
esagerata e continua, ma soprattutto senza alcun motivo.
I due cani entrano ed escono
sporcando il pavimento e facendo più rumore possibile, abbiamo fatto fare uno
di quei buchi apposta nella porta, ma era una botta tremenda quando lo
sportello si chiudeva, così dobbiamo sempre tenere accostata la porta di dietro
alla casa. Dobbiamo lavare per terra tre o quattro volte al giorno.
Le mie tre sorelle vivono nel nord
Italia e non possono, non vogliono e non devono (aggiungo io) lasciare famiglia
e lavoro. Noi anche se viviamo a Bruges, e il Belgio è assai più lontano, non abbiamo figli né lavoro fisso, solo due
cani e due gatti, ora lasciati alle cure dei vicini di là. Lorena è infermiera
e viene pagata con i soldi della famiglia per stare qui, forse ci saremmo stati
anche per nulla, ma visto che lei non
lavora più, ha un fisiologico bisogno di soldi. Anche questo è un fottuto
lavoro, però, l'unica differenza è che se non fosse per mia madre non lo
faremmo mai, non così, 24 ore su 24, neanche per tutti i soldi del mondo. Io
insegno italiano agli stranieri in internet, con Skype, ho pochi allievi ma
alcuni da parecchio tempo.
Ci aiutano i vicini, che poi sono
abbastanza lontani, ma rappresentano i terrestri più a portata di mano,
fortunatamente gente simpatica e disponibile, qualche volta si fermano anche
per fare quattro chiacchiere, ma raramente si arriva a cinque. Ci portano i
prodotti dei loro orti, marmellate e conserve, libri usati a valanghe, magari i
gusti letterari non coincidono, pretenderemmo troppo.
L'alzheimer è stato il destino di
mia madre, come di tanti altri ed essendo Lorena l'unica badante da lei
accettata, eccoci qua a disposizione, nella nostra casa di collina quasi montagna,
con computer e internet, un cannocchiale che per fortuna il panorama è
profondo, largo e interessante.
Siamo a Bagni, appena sopra Bagni
di Lucca, nei pressi delle terme, sul ripido versante del monte opposto a noi
ci sono poche case, una delle quali si raggiunge solo con una teleferica.
Abbiamo visto molti film negli ultimi mesi, forse troppi, la maggior parte
polizieschi, magari siamo stati anche influenzati, ma abbiamo deciso di filmare
con il cellulare il su e giù di questa gente che va e viene con la teleferica,
ma che cosa trasporta? Osservandoli con il binocolo non siamo riusciti a
capirlo.
La nostra assistenza a mamma è
giorno e notte, per lavarla, metterla sul seggiolone e riportarla a letto
bisogna essere in due, altre cose di ordinaria amministrazione le fa mia moglie
da sola. Per sistemare e cambiare il catetere viene un'infermiera ogni tanto,
su nostra chiamata. Il sistema sanitario italiano, che per quanto ora
incasinato e male organizzato è ancora dei più completi che ci sono in giro, a
chi ha l'invalidità manderebbe gratis all'occorrenza gli OSS (Operatori Socio
Sanitari) che nel nostro caso sono donne, ma possono essere anche uomini.
L’Italia è la
dodicesima nazione europea in quanto a spesa sanitaria. Il paese ha impegnato
in questo settore il 7,1% del proprio Pil. La Germania è la nazione che spende
più soldi in sanità, ben 217 miliardi di euro. A seguire il Regno Unito, con
191 miliardi, e Francia, 178 miliardi. L’Italia in questa classifica è quarta
con 112 miliardi. In questi anni, gli interventi legislativi sono stati
occasionali, dettati dalla contingenza, dall’urgenza e non certo da una
programmazione coerente con le problematiche che oggi affliggono i sistemi
sanitari di tutto il mondo.
Durante il giorno a mamma più che
altro bisogna darle un sostegno morale, quello che un figlio aiutato da una
nuora possono fornire, le medicine da somministrarle regolarmente poi sono
tante, oppure troppe. Quelle solide si sbriciolano con un pestello, poi si
mischiano nell'acqua gel, che sostituisce l'acqua ed è una specie di gelatina
che le si può dare con una siringa o col cucchiaio, perché mamma non deglutisce
più bene e non gli si possono dare né i liquidi, né i solidi, solo pappette e gelatine, insomma
cose intermedie.
La mattina appena sveglia la prima
scarica di bombe chimiche: una pasticca di Quetiapina che è un antipsicotico;
200 milligrammi di Depakin liquido, uno stabilizzatore di umore; una pasticca
di Bisoprololo per l'insufficienza cardiaca; una di Laxis che è un diuretico;
una di Pantoprazolo un riduttore di acido nello stomaco e dieci gocce di
Trittico, il famoso antidepressivo. Prima di andare a letto le stesse dosi di
Trittico e Depakin, doppia dose di Quetiapina. Il Neuleptil è un antipsicotico che le diamo
solo quando è assai agitata, contro aggressività e ostilità, ma agisce dopo
molto tempo e la rincoglionisce completamente, secondo Lorena le inibisce anche
l'importante capacità di deglutire, senza la quale avrebbe e avrà, presto o
tardi, bisogno di una sonda sia per mangiare che per bere.
Quando è agitata mamma comincia a
preoccuparsi per cosa deve fare da mangiare a pranzo la domenica, (ormai sono
anni che non cucina più, eppure per lei
è sempre domenica e guai se non
si prepara qualcosa di speciale), o per i vestiti da selezionare perché vuole
andare via. Pensa di essere in una specie di ospizio, o in una casa alla
spiaggia, dice che quella non è casa sua e non c'è verso di convincerla. Per
farla stare più tranquilla usiamo anche il Cannabis, che i medici naturalmente
sconsigliano, forse perché non ci guadagnano niente sopra e il sistema
farmaceutico mondiale è tra i più corrotti e vili, combatte una guerra di
concorrenza e di potere quotidiana, il benessere dei malati è la loro ultima
priorità eppure la prima nella pubblicità.
Mamma rimane parte della mattina e
quasi tutto il pomeriggio su un seggiolone polifunzionale a rotelle, che si può
mettere in varie posizioni e inclinazioni, per mettercela sopra una specie di
paranco metallico, entrambi imprestati dal nostro buon sistema sanitario.
Durante questa operazione lei non economizza gli urli. Il resto del tempo è a
letto, perché non si può più muovere autonomamente da qualche mese a questa
parte.
Quando la puliamo, almeno una
volta al giorno, la prende come un grave gesto d'invasione e si arrabbia
parecchio, ci apostrofa con tutte le variazioni possibili della parola puttana:
puttanaccia, puttanosa, puttaniera, puttanesca, puttanante e puttaneggia,
occasionalmente anche al maschile e al plurale, coadiuvati dai meno
frequenti maledetti, troie, budelloni e alcune minacce di morte incluse,
più qualche parola di uso differente da quello che lei intende o inventa parole che anche se non esistono
possono essere capite, come culagna merdò e puzzante. Cerca di
darci calci, sgraffiarci e qualche volta, raramente, degli sputi leggeri che di
saliva purtroppo o per fortuna ne ha poca. Mi chiama babbo, nonno e Rodolfo,
che era suo marito e mio padre. Per Lorena ha tirato fuori nomi nuovi e vecchi
che da tempo non udivo come Mariannina, che era una donnina sua parente lontana
della Garfagnana, che a volte era venuta ad aiutare in famiglia. Se parlando si
menziona qualche nome proprio, specie se ha conosciuto qualcuno così chiamato,
dopo poco lei lo viene a usare per qualche situazione incomprensibile di cui si
captano alcuni vocaboli e a volte si riesce a ricostruire l'intenzione della
sua frase, ma più spesso non ci si riesce e allora, per cambiare discorso gli
si mette in bocca qualcosa da mangiare o da bere.
Quel che c'è di bello, nell'assurda
tragicità della situazione, è che ogni cosa viene dimenticata subito dopo,
anche quando si arrabbia con noi perché invadiamo la sua sfera privata e ci
offende con tutta la forza che ha, (accompagnando anche i titoli poco nobiliari
con gesti della mano, con il dito indice alzato e una faccetta molto poco
amichevole, per esempio,) dopo pochi minuti non ricorda più niente e, tornata
al calduccio delle sue coperte, ci guarda amorevolmente, magari dice che siamo
belli assai e che sta veramente bene.
Siamo sempre più incuriositi dal
movimento di questa casa, di persone sempre diverse, che salgono e scendono con
contenitori di plastica e sacchi capienti. Dal loro camino poi s'innalza sempre
un fumo nero, giorno e notte.
Chiariamo subito che la polizia
non mi garba troppo, ma i trafficanti di droga sono un gradino ancora più
sotto, nel mio indice di gradimento, che con il tempo ha automaticamente
sovrapposto decine di livelli e sfumature.
Nei rari momenti di lucidità mamma
chiede perdono per offese verbali e materiali, ci fa fare qualche risata e lei
stessa ride contenta, specialmente la mattina quando si sveglia e non si
ricorda ancora in che condizioni sta vivendo da un po' di tempo a questa parte.
Dichiara e ripete che il suo sogno è di andare alle Terme di Caracalla, da
tanti anni ha questo obbiettivo che non si è mai potuto realizzare per una
serie di coincidenze, poi è arrivata la malattia, di tante o quasi tutte le
cose si è dimenticata, ma di questa no.
Dopo ripetute domande,
seguite non sempre da risposte, eventualmente poco coerenti, abbiamo inteso
però che lei vorrebbe recarcisi per fare dei bagni terapeutici, ma sono un po'
lontanucci per una che non cammina e non connette più se non raramente o quasi
per caso. Quelle terme da tempo immemore non sono più funzionanti e sono una
specie di località storica da visitare, pagando anche il biglietto.
Ci sorprendiamo a pensare un po'
troppo spesso alla fine della nostra vita, oltre all'impotenza di cui siamo
protagonisti ogni giorno sulla terra, forse senza rendercene conto che in
determinate occasioni, come questa, per esempio. Un'infermiera che riflette
ricorrentemente sulla morte è più che normale, la scura e sensazionalista
falciatrice la frequenta costantemente ogni giorno sul lavoro, ma io non ci
avevo mai pensato troppo, almeno finora. È un argomento interessante, lo
ammetto, non tanto complesso quanto l'esistenza, ma meno semplice di quello che
si pensi.
Che cosa tiene in vita mia madre
ora che non ne ha più alcun piacere, se non il caldo rassicurante del suo
letto, o il sapore di una pappetta centrifugata? Tra poco anche quest'ultimo le
sarà negato oltretutto, si paventa già
l'uso della sonda, dalla quale passerà sotto forma di liquido tutto
quello che ingerirà.
Tra i libri che mi hanno portato i
vicini sto leggendo “Piccoli suicidi tra amici” del finlandese Arto Paasilinna,
che mi piace parecchio, sia perché non prende tanto sul serio la morte, sia
perché in Italia i suicidi all'anno sono ormai intorno ai 4000, quindi si
comincia o si dovrebbe cominciare a considerare di più quest'esercito poco
casuale, un fenomeno da studiare piuttosto, magari pure nelle sue cause e se ci
sono, anche delle responsabilità. Secondo me e lo scrittore finlandese ci sono.
I due protagonisti principali,
casualmente trovatisi a suicidarsi nello stesso fienile, trovano nuovi spunti e
stimoli per vivere e suggeriscono ai suicidi di unirsi. Sia per morire insieme
che eventualmente per ricominciare una vita differente e per quanto possibile
migliore.
Difficilmente ci si suicida per mancanza
di salute, più facilmente mancano lavoro, soldi, compagnia e amore. Insomma un
senso per vivere, un qualcosa con cui e per cui mantenersi occupati. Mi pare
buffo che chi fisicamente ha la salute dalla sua parte si tolga la vita, mentre
mamma che non ha più la forza di stare al mondo, non vuole a nessun costo
lasciarlo.
Intanto quei personaggi sospetti,
continuano a portare su e giù con la teleferica qualcosa, ma non si capisce
cosa. Decidiamo di chiedere consiglio a Massimo, uno dei vicini, un poliziotto.
Se ne viene a casa nostra un pomeriggio, due o tre giorni dopo e ci rimane a
osservare, con il cannocchiale o senza, fino alla sera tardi. Dopo i ripetuti
caffè ci spariamo alcune grappette da polverose bottiglie che sono in casa da
chissà quando, credo almeno da quando era vivo mio padre, quindi sono assai
invecchiate.
Gli facciamo vedere i filmati che
abbiamo registrato con il cellulare, ma dice che non si vede niente di
potenzialmente utile e non possiamo non dargli ragione.
Tra un sorso e l'altro Massimo ci
chiede cosa abbiamo visto e non filmato, cosa ci è sembrato il materiale
trasportato, ma poi gli argomenti degenerano e quando se ne va ci stiamo quasi
addormentando parlando di cinema e teatro.
Forse ci siamo distratti troppo,
oppure è stata semplicemente sfortuna, ma non è stato avvistato nessuno salire
né scendere con la teleferica, nessuno in casa o negli immediati dintorni.
Un giorno poi cediamo alle sue
periodiche insistenze, portiamo mamma alle Terme di Caracalla, il medico ha
detto che basta proteggerla dal freddo ed essendo metà luglio, pensiamo che non
ci siano problemi. Per il catarro le farà anche bene.
Coll'ambulanza facciamo un giretto
per Bagni di Lucca e magicamente
arriviamo alla Roma imperiale. Mamma sorride e sguazza, come una bambina
di 89 anni e si guarda intorno, avrà notato che la struttura attorno è magari
un po' successiva a quella delle autentiche Terme di Caracalla? Non lo
sappiamo, ci sembra di no, è assai contenta, forse troppo e si spegne tra le
nostre braccia, mentre ancora in acqua la stiamo facendo scivolare fuori dal
materassino gonfiabile per riportarla sul bordo della piscina e poi a casa.
Dicevi sempre. “È colpa mia se non
mi riesce morire?” Ora sarai contenta.
Dopo sommarie indagini Massimo ha
agevolmente scoperto che la casa con la teleferica non è di trafficanti di
droga o peggio, ci vivono piuttosto venti indiani di Sri Lanka, sei donne e
quattordici uomini che producono a raffica specialità tipiche da vendere a
Lucca, dove hanno un negozio. Trasportano su e giù le leccornie pronte, le
materie prime e le rimanenze che poi se le mangiano. Il continuo fumo dal
camino è normale con un forno in piena attività. Una fumata nera come quella
del papa morto, non ancora eletto il nuovo, mia madre non c'è più e noi, che
pensavamo che sarebbe stato un sollievo per tutti, in questi giorni ci sentiamo
assai pesanti. Con qualche lacrima di nascosto. Dopo quasi due anni di clausura
torniamo al mondo là fuori sapendo che
probabilmente rimpiangeremo questi lunghi mesi di relativa pace, in cui
ci siamo sentiti utili più di quello che ci eravamo sentiti prima, e che magari
ci sentiremo anche dopo.
TREDICESIMA PARTE
RIFLESSI
E RIFLESSIONI
Sono sempre stato un
bicchiere e una forchetta ragguardevoli, la scelta del lavoro ne veniva di
conseguenza. Nei ristoranti e nei bar io ci ho bazzicato parecchio, non me ne
pento perché se è vero che sono lavori massacranti, sia dal punto di vista
fisico che mentale, ci sono aneddoti e storie varie da memorizzare e poi da
raccontare, oltre che da protagonizzare.
In questa vita c'è
sempre da aggiungere qualche abilità o nozione pratica, dopo non lo so.
Il lavoro di manovale
non mi era garbato, anche perché non c'era niente da mangiare o da bere e sulle
impalcature d'inverno c'era freddo assai.
Tutto iniziò allo
Smeraldo Pasticceria Bar, in qualità di mangiatore di paste e pezzi salati,
bevitore di birre cecoslovacche e barista.
Poi da Berardo,
cameriere e degustatore di trenette al pesto. A Barabba poi cibi gustosi e
vari, vino e birra a volontà, lavapiatti e poi cameriere. Al Caffè Voltaire
come proprietario e bevitore, oltretutto di ogni bevanda fatta per sbaglio od
offerta dai clienti, facevo dei panini caldi, direi piuttosto apprezzati anche
dagli avventori.
Fusilli Home come
cameriere e certe fenomenali pizze nel forno a legna... poi naturalmente primi
e secondi di qualità e in quantità.
A Berlino al
ristorante Monsignore, poi alla Marmora, nel primo come lavapiatti, ma non si
mangiava tanto bene e nel secondo invece sì e iniziai perfino ad apprezzare il
pesce, che prima non mi piaceva, forse solo perché ero passato sotto cuochi non
specializzati, come mia madre, che per il resto cucinava anche bene, ma era una
mezza Garfagnina e con le specialità di mare non era avvezza.
Alla Marmora ho lavorato come barista,
e per due settimane come pizzaiolo, ma le cucine non erano fatte per me, a
cominciare dal caldo e dallo stress. Il pane lo facevo io, secondo me era
piuttosto apprezzabile, filoncini o mazze da baseball, per fortuna i tedeschi
ne mangiano poco se non a colazione.
- Recentemente mi sono ritrovato con Mauro, dopo
decenni e siamo andati a mangiare in pizzeria da Carmelo, con Emanuele e le
rispettive signore, due su tre già con scadenza. Lì mi ha detto che per lui
sono stato il primo amico, in ordine di tempo. Non ci avevo pensato, forse
perché io ce ne avevo già avuti altri, tra cui Raffaello Paloschi del bar
alimentari di S.Marta e mio fratello Umberto.
- Pensi sempre ai vecchi tempi?
- Per forza, la prima metà della mia vita è stata
in Italia, la seconda metà però è stata molto più veloce.
- Levami una curiosità: ma te
vorresti tornare indietro e rimanere in Italia?
- No, a dire il vero non lo so
nemmeno, però questa scelta era stata dettata da tante altre fatte prima.
- Tipo quali?
- Tipo quella di non rimanere in
Germania, per esempio.
- Ma anche quella non fu una fuga?
- Più che fughe le chiamerei
ritirate strategiche.
- Allora perché non affronti il
nemico una buona volta?
- Lo affronto solo quando posso
sconfiggerlo o perlomeno andarci alla pari.
- Ma secondo me quando abbandoni
non te ne rendi conto.
- E invece sì. Lo so e sono già
stanco di saperlo.
- E come fai a esserne sicuro?
- Sulla base di esperienze delle
situazioni in questione e di come mi sento io in relazione a quello sviluppo, a
tutto ciò che si è creato come conseguenza delle mie scelte precedenti.
- Fammi un esempio.
- A Berlino mi rendevo conto che
il tipo di vita che facevo era senza sbocchi, non aveva senso, me ne ero
stancato.
- Allora sei tornato in Italia
dove è successa la stessa cosa?
- Sì, ma allora mi sentivo già più
forte, avevo fatto un salto di qualità, apprezzavo di più tante cose
dell'Italia di cui prima non mi rendevo conto.
- Infatti poi non ha funzionato.
-
No, sono cascato di nuovo in una crisi di contenuti, un vuoto di senso.
- Le donne ti hanno deluso e sei è
scappato via?
- Indirettamente sì, ma prima di
tutto mi rendevo sempre più conto della gabbia del lavoro, di quella della
relazione sentimentale, dell’altra della fottuta società che ci obbliga a
determinate cose e ci proibisce le altre...
- Mi pare che tu idealizzi le
persone e le situazioni. E poi ne vieni deluso immancabilmente.
- È vero. Ma l’alternativa è anche
peggio.
- E quale sarebbe?
- Mentire a me stesso.
- Nooo, e allora come fanno gli
altri?
- Imparano a ingannarsi, a essere
meno sensibili, a chiedersi meno spesso quale sia il senso delle cose.
- Secondo te, allora, io faccio
proprio così?
- Non lo so. Dovresti dirmelo te.
- Forse sì. Potresti aver ragione.
- Ecco, ma non ne sei tanto
cosciente, mi pare.
- E chi se ne frega? Se questo poi
significa stare meglio... Forse è solo questione di osare di più.
- Come sarebbe?
- Beh, con le donne per esempio
non ti è mai successo di capire solo dopo, quando non era più possibile, che in
quel determinato caso avresti potuto osare di più e non lo hai fatto?
- Sì, mi è successo diverse volte.
- E dopo che cosa hai fatto?
- Come cosa ho fatto?
- Cosa hai pensato? Ti sei reso
conto di quello che era successo o meglio: che cosa avrebbe potuto succedere e
non era successo?
- Sì, ma dopo molto tempo, oppure
anche poco tempo dopo, ma ormai era tardi.
- Ma subito dopo non hai trovato
una giustificazione o una consolazione?
- Sì, ora che mi ci fai pensare…
ho detto a me stesso che la belloccia in questione era una stupidotta, o che io
non potevo certo far finta di essere quello che non ero.
- Quindi dicendo o pensando così,
non hai ingannato te stesso?
- Forse, magari quelle cose che mi
sono detto erano vere.
- Magari sì, ma se tu avessi fatto
finta per un po’ avresti avuto una risposta più autentica e definitiva.
- Il senno di poi è una scienza
esatta.
FARMACIA
C’è un signore che incontro ogni
tanto che so che soffre di depressione. L’ultima volta che l’ho incontrato era
in farmacia, una di quelle grandi, dove ci sono anche posti a sedere, perché
c’è sempre da aspettare abbastanza.
Mi ha riconosciuto e si è
accomodato accanto a me su uno di quei piccoli sedili seminati da montagnette
di pieghevoli con la reclame di medicine:
“Io non capisco quelli che non gli
garba venire in farmacia, forse si annoiano ad aspettare. Mah? Invece io ci
vengo volentieri, qui ci s’incontra la gente e si possono fare un po’ di
discorsi a biscaro, come si suol dire.”
Come tanti altri che conosco è un
po’ confuso, ma assai simpatico e tende a dimostrare a sé stesso, di
conseguenza agli altri che sta bene, che va tutto bene, che la vita è bella,
basta saperne approfittare, insomma come fa lui.
Capita che contraddica subito dopo
quello che ha appena detto, ma questo non è affatto un problema, basta che non
si metta a far politica, che tanto c’è già chi lo fa al posto suo, più giovane
e anche più confuso.
So che beve assai e tutte le volte
che lo incontro la distanza tra gli occhi gli si è ridotta. Non so se è una
conseguenza, ma gli sta venendo una specie di strabismo convergente, credo che
prima che gli occhi gli si tocchino, dovrà smettere di bere.
IL BENE E IL MALE
Non si può essere al di sopra del bene e del male, è più
facile ed efficace stare al di sotto. Senza dare mai niente per scontato,
osservare e trarre conclusioni, anche provvisorie e poi metterle in pratica.
Se a qualcosa può servire la
filosofia, è per capire che non c'è nessuno, esseri divini e onnipresenti
inclusi, che si voglia accanire contro di te o che possa risolvere i tuoi
problemi.
Il mare delle leggi delle
probabilità, e la tua eventuale competenza a saperci navigare dentro
stabiliscono, in un ordine che purtroppo - o per fortuna - a noi non è dato di
comprendere, la sequenza di burrasche, venti propizi e bonacce, insomma il bene
e il male, che dovremo… o dovremmo, attraversare e affrontare ogni giorno.
Se un ipotetico marinaio non
sapesse cosa fare, non conoscesse le insidie dell'oceano del bene e del male,
scambierà, l'uno con l'altro. Insomma le secche con gli abissi, le bonacce con
le tempeste e la nave non può andare in porto. Nemmeno con la fortuna più
grande, anzi: chissà perché tutto gli sembrerà sfortuna.
PASQUA
In Brasile la Pasqua la facciamo
il primo Aprile, che fa anche rima, il picnic del lunedì, cioè il Merendino, lo
facciamo il giorno dopo.
Scherzavo, vivo un po’ fuori dal
mondo e il calendario mi frega sempre, come l’orologio. E pensare che ero
contento di aver passato indenne anche la Pasqua, nessuno mi aveva fatto gli
auguri, per me e per la mia famiglia.
Come avevo sospettato che fosse in
avvicinamento la Pasqua?
Beh, appena finito il carnevale,
qua nei supermercati bisogna camminare a testa bassa, ti fanno dei soffitti
bassi fatti di uova di pasqua che ci si passa appena.
A Natale la stessa cosa con i
panettoni.
I brasiliani sono piuttosto bassi
di statura, allora io per passare mi devo chinare, se devo comprare un prodotto
lo posso fare, ma mi fa male la schiena. C'è tanta gente alta anche di origine
tedesca qua nel nostro stato, certo non sono l'unico a considerarlo un assurdo.
E la bestemmia non fa parte della
cultura brasiliana.
APPUNTI E ANNOTAZIONI
“Finalmente gli appunti che avevo
preso cominciano a servirmi. Ho deciso che in un secondo momento quelli che scrivo
su un quaderno, appena sono abbastanza, poi sviluppati e ampliati, saranno il
mio libro.
Non lo so se saranno racconti,
magari un diario, o in un terzo o quarto momento butterò via tutto, per ora
sono solo idee.”
“Una buona idea.”
“Di buttarle via?
No. Meglio se non mi rispondi
stavolta, per carità.
Stavo dicendo che me ne fregherò
di tutto e di tutti e passerò a raccontare una storia a me stesso, perché lo so
che non interessa a nessuno e non mi garba insistere.
Te ne frega niente a te?
Meglio che non mi rispondi,
neanche stavolta.
Sono proprio le storie che non
interessano più, in generale, ora la gente non ha più tempo per le cose lunghe,
si vive di mezze robe spezzate e di interruzioni frequenti e ripetute, si
taglia ogni immaginazione prima che ci possa far perdere tempo, che il tempo -
anche se non è denaro - molti lo credono indirettamente imparentato, quindi
farci perdere qualcosa che non abbiamo mai avuto significa farci del male,
dimenticando che ci potrebbe fare anche del bene.”
“Con il solito beneficio
dell’inventario: ma che senso ha raccontare una storia a sé stessi?”
“È una domanda retorica?”
“Sì, cioè no, ma fa lo stesso. Tu
fai finta di niente per favore e rispondimi. Più o meno come se fosse stata una
domanda pertinente.”
“Beh, sei libero di non crederci,
ma ho scoperto che scrivendo vengono fuori particolari nuovi, che c’erano anche
prima, ci sono sempre stati, non dico di no, ma non avevo avuto tempo e modo di
accorgermene.
Non so se inconsciamente è per
calcolo, ma per me la strada più difficile è sempre stata la preferita. Per
questo dico che non mi piace il romanzo, che il racconto mi rispecchia di più,
e mi ostino a cercare di scrivere romanzi.”
“Invano?”
“No, è vero che poi li cestino, ma
prima li smembro e ci faccio dei racconti. Oppure metto insieme dei racconti e
dopo ci faccio dei romanzi. Insomma uno schifo reciproco, oppure se vuoi pure
scambievole, il racconto e il romanzo non sono mai stati nemici, dove sta
scritto? No, no, possono anche simbolicamente fare a cazzotti, ma in fondo si
vogliono bene, non sono complementari, vabbene, ma non sono neanche in
concorrenza.”
“Ah no?”
“No. Il racconto offre un sacco di
possibilità dinamiche in più, rispetto al romanzo, perché non c’è bisogno di
spiegare così tanto, le descrizioni fanno addormentare, io c’ho già sonno di
mio, anche quando devo solo leggere quelle degli altri, per questo il
poliziesco mi garba di più, perché è sbrigativo e compatto come un uovo e bada
al sodo.
Insomma il racconto non ha una
lunghezza prestabilita e quando uno, come me, non ha più voglia di scriverlo ne
comincia un altro. Lo stesso per chi legge.”
FACCE
“Facebook
ricalca la voglia popolare di esprimere il proprio parere senza conoscere i
fatti, ma dall’altro lato è un veicolo di cultura, tutto sta saperlo usare.”
“Beh, una
bella cosa Facebook ce l'ha, puoi far sparire qualcuno con un click, altrimenti
sarebbe molto più faticoso.”
“Lo sai che ogni tanto penso che non mi sarebbe piaciuto
incontrare me stesso quando ero giovane, mi sarei rimasto antipatico di sicuro.
Invece ora, come sono ora, voglio dire, mi piaccio come essere umano e mi
garberebbe trovare uno come me, uno che avesse tante storie da raccontare e
nessuno che lo ascolta.
Per questo uno scrive, così poi nessuno lo legge.
Indipendentemente dagli altri, per me le storie partono
dalle frasi, quelle che fanno riflettere, da paesaggi di luoghi che ho
visitato, o che vorrei visitare, o che mi piace semplicemente immaginare, che
esistano o no, a volte sono un misto di queste cose.
E poi le facce, sono il più grande osservatore di facce
che io conosca, la mia stessa facciona la osservo con curiosità, quello che mi
salva è che ho bisogno di uno specchio, non ce n’è sempre uno a disposizione.
Però, quante facce ho immagazzinato dentro di me?
Tante, tantissime, forse troppe, meno male che sono
divise per tipo, in fondo i generi umani si rifanno a modelli generali, non
solo dal punto di vista estetico, ma anche dal loro movimento, di cui fanno
parte le espressioni, le smorfie... tutto quello che rispecchia i sentimenti,
ma anche la maniera di mostrarsi indifferenti. Il modo di fare di una persona
si concentra specialmente nella sua faccia.
Tutto questo archivio di volti umani, in me ha volontà
propria, le facce si incrociano e si riconoscono nella mia memoria, nel
confronto giornaliero con quelle in movimento, nella presa diretta della
vita... ma credo che quando poi le immagino e le scrivo, gli faccio vivere
un’avventura, allora sono più contente e si agitano meno nella mia testa.
Allora mi sento meglio, si fa per dire, più in pace con
la natura, con il mondo intero, di conseguenza, tra virgolette.”
“Di storie però oggi non me ne hai ancora raccontata
una.”
“Allora ci sarebbe questa: l’acqua arriva con una piccola
deviazione dal fosso in muratura che poi va al Mulin di Cima, dopo si divide in
due, prima di entrare nella Certosa, dopo esce e prende anche dei nomi,
diventando la Gora e il Rio. Il bacino artificiale è quadrato, foderato con un
materiale plastico speciale e sembra abbastanza profondo, c’è anche una
scaletta di corda che scende giù, probabilmente marcia. Tempo fa c’era un
allevamento di pesci, forse di trote. Una volta uno dei miei cani ci si è
buttato, ma dopo non riusciva a risalire e l’ho dovuto tirare su io. Insomma in
questo bacino ora ci sono rimasti, per caso due pesci abbastanza grossi, forse
di un chilo l’uno o meglio l’una, perché mi sembrano carpe.
Ho pensato di pescarle e di portarle al fiume, ma forse
stanno meglio lì, ormai sono anni che se ne stanno lì da sole e dimenticate,
forse è proprio quello che volevano. È circondato da erba e alberi, si sono
cresciute le alghe e si è creato un ambiente naturale, ci cascano insetti e
vermi, ci sono animaletti palustri anche dentro, come in un laghetto. Il bacino
dovrebbe servire per prendere acqua per gli eventuali incendi, è recintato con
la rete metallica e non so se è mai stato usato per quello scopo, ma d’estate
si prosciuga fino a metà o quasi, quando dal fosso non arriva più acqua.
Inevitabile il paragone con una prigione, magari mezza di
lusso, ma onestamente non so se gli farei del bene a portarle nel fiume. Per
prenderle potrei ferirle e quindi fargli del male”
“E la morale quale sarebbe?”
“Un parallelo, forse, con la nostra vita, quanto siamo
poco importanti e non ce ne accorgiamo, pensiamo di essere fondamentali e ci
spostano e ci manipolano come vogliono.”
“Ma chi?”
“Le avversità naturali, il nostro ambiente malato, gli
stessi meccanismi della natura, Dio o chi per lui, i ricchi e i potenti, le
multinazionali e le banche, la dittatoriale quanto sedicente democrazia, la
psicopatia fisiologica della modernità, è lo stesso, alla fine il risultato non
cambia tanto.”
“Ti sei dimenticato delle stelle, dei pianeti e
dell’universo che si dilata.”
“Infatti, mettiamoci anche quello, una meteorite
indisciplinata e addio sogni di gloria! Se siamo attaccati da tutti i lati,
come possiamo difenderci?”
“Con una buona filosofia?”
“Ecco.”
“E come possiamo riconoscerne una valida?”
“La gente cerca delle risposte, di solito. Invece ci
vogliono delle domande, le risposte arrivano dopo, con una certa calma; ma
prima si devono scegliere le domande giuste, per eliminare tutto quello che non
serve e vivere nella maniera più naturale, senza tutti quei beni superflui
indotti dalla società. Che sono tanti oppure eccessivi. In alcuni casi,
piuttosto spesso, questi beni ci abituano a una vita troppo confortevole e si
atrofizzano le sane abitudini spontanee dell’uomo a contatto con la sua debita
natura.”
“Lo sapevo che saresti andato a cascare sulla filosofia.”
“Per forza, la filosofia è tutto, anche e soprattutto
quando non se ne sa niente e si stabilisce una specie di codice di
comportamento.”
“Sì, però che palle…”
“Possiamo parlare di cose più terra-terra, tipo: perché
le cose preziose sono le più difficili da trovare?”
“Come le persone simpatiche e gradevoli?”
“Insomma è un rapporto scambievole di causa ed effetto,
quelli si mischiano e si confondono, non si sa chi ha cominciato per primo. E
alla fine non ha nemmeno importanza.”
FACEBOOK
Anche io dunque, come tutti gli
altri, ho imparato a ingannare me stesso, sennò non sarei sopravvissuto e
Facebook ha anche dei lati positivi, per esempio è un innegabile veicolo di
cultura e di integrazione, selezionando le amicizie fittizie, se quello che uno
desidera è accrescere la propria conoscenza e il diametro della sua cosiddetta
anima.
D’accordo: per la massa di solito
non è così, allora la sua funzione e tendenza diventa il valorizzare un
pettegolezzo e stimolare il battibecco, il bullismo e il rifiuto delle
differenze, di qualsiasi tipo siano. Per le elezioni si raggiunge il massimo
del minimo consentito, e il livello aumenta sempre, cioè diminuisce.
Però non ci si può mettere una
foto di una puppora, figuriamoci se due, anche se è una copertina di una
rivista come Espresso o di un disco di Lucio Battisti.
Tanta gente che io conosco ha
rifiutato Facebook come i computer a suo tempo, secondo me hanno fatto bene, ma
meno ne conosco che abbiano rifiutato i cellulari e gli smartphones, che quelli
sono anche strumenti di lavoro e soprattutto uno se li porta sempre dietro.
Senza saperlo, poi ho fatto un
esperimento su me stesso, stavo dicendo e dentro un ignaro e distratto
Facebook. Ho diviso la mia personalità in due parti, Moreno Bartelloni è il mio
nome, ma dall’altra parte da qualche anno c’è un personaggio che io pensavo
fosse solo fittizio, Anatoli Orrico.
E mi sbagliavo.
Non mi ricordo perché avevo creato
quest’altra personalità, almeno all'inizio, forse solo per vedere se era
possibile. C’avevo messo una foto in bianconero di un capo indiano, ma era una
faccia scura, in qualche maniera minacciosa, la gente era spaventata e me lo ha
fatto notare Maria Dina, io non me ne ero accorto.
Il comportamento di Anatoli Orrico
era già quasi delineato e differente da quello di Moreno Bartelloni perché
nascondendomi sotto una foto e un nome diverso, non avevo paura di essere
giudicato, quindi rendendomi conto poi che questa foto del capo indiano mi
faceva sembrare in una maniera che non era quello che a me piaceva, ho cambiato
e ho messo la foto con la faccia di Hermeto Pascoal. Si tratta di un musicista
jazz brasiliano molto simpatico, ma sconosciuto in Europa come in Brasile,
almeno in quanto foto, filmati eccetera. Un anziano e bravissimo
polistrumentista che ho visto in diverse interviste e mi è piaciuto molto per
quello che diceva e mi garba anche la sua musica, comunque non tutta. Ho
notato che dimostrava pure una certa autoironia, per esempio in un
programma di interviste, quello di Jo Soares, ha scherzato dicendo che era
sempre stata bello, anche da bambino, ma scherzava e lo hanno capito
tutti. Ha gli occhi storti ed è tutto fuori che carino, assomiglia a una specie
di Babbo Natale con i capelli lunghi bianchi, vestito spesso con camicette
sgargianti, che qualcuno sceglie per lui, perché è quasi cieco. Anche per
questo mi ricorda mia zia Magali e mi ci sono affezionato.
Insomma questo era il mio primo e
duraturo Alter Ego su Facebook, scelto abbastanza per caso, solo per simpatia,
il che non è poco, almeno per me. Era importante anche che nelle foto fosse
ritratto mentre cantava e suonava, questo gli dava un look da artista che
magari mi piaceva in misura supplementare.
Che cos'è successo poi?
Dopo un certo periodo, la routine
di Facebook mi ha portato a rendermi conto che tutte le volte che dovevo
pubblicare qualcosa che mi lasciava dei dubbi, che mi faceva temere qualche
rischio, qualche critica, lo facevo fare ad Anatoli Orrico. E allora anche
quando facevo delle battute, cose stravaganti che mi venivano poi naturali, non
so perché, impersonavo lui. Attualmente succede anche che quando sono Moreno
Bartelloni capita che io vada dall'altra parte, quando mi viene in mente
qualcosa di più bizzarro. Anatoli pubblica meno, faccio più cose con il mio
nome vero, e la mia relativa foto vera e attuale, ma mi sta molto più simpatico
l’Orrico del Bartelloni, è molto più sincero e spontaneo, mi garba di più
insomma. E non solo a me, quando è il suo compleanno a decine gli fanno gli
auguri sebbene ogni volta io dica che il compleanno è inventato e lui non
esiste, è un personaggio fittizio, la gente se ne frega, gli auguri arrivano a
vagonate. Oltretutto anche i pezzi musicali che mette lui sono migliori e non
capisco perché. Forse perché lui è un musicista e io no, è logico che se ne
intenda di più e meglio.
In precedenza c’ho avuto anche la
foto di un koala, per Moreno Bartelloni, ed era carino assai, ma ho finito per
concludere che era ambiguo. Come poi Laszlo Vaccariello, effimero terzo
profilo, più intellettuale di Anatoli, certo meno rude e anche un po’ più
fighettino di Moreno, forse influenzato dal nome e dalla foto, di non mi
ricordo chi. Me lo hanno scoperto quasi subito però, e me lo hanno chiuso, ma
mi mandano inviti e riferimenti costanti a lui che non riesco ad evitare, quasi
come a prendermi in giro, ma non credo, è solo una delle tante loro automazioni
che non funzionano. E non possono impedirmi di usare questo pseudonimo per i
proverbi e le frasi fondamentali che invento ogni tanto.
Diciamo pure che nella vita mi
sento anche troppo plurale, dentro di me c’è una tribù che sta eleggendo
continuamente - e a suon di mazzate - il nuovo capo, lo stregone e lo scemo del
villaggio.
A proposito di inganni e di quello
che non riesci a cancellare del tuo passato, in una certa epoca ho dovuto aprire
un altro Moreno Bartelloni, perché il mio non me lo lasciavano più usare. Mi
chiedevano oltre alla password di quando avevo aperto il profilo, la data
esatta, o altre cose che nessuno potrebbe rispondere, a meno che non fosse un
perfetto idiota che si segna anche quanti rotoli di carta igienica e di quale
marca ha usato nell’ultimo decennio o cose del genere.
Così hanno fatto anche con Laszlo
Vaccariello, non me l’hanno chiuso dicendo che me lo chiudevano, mi hanno fatto
un test per vedere se ero proprio io e pur essendolo innegabilmente, sennò non
vedo chi, non avrei potuto rispondere a quelle domande ipocritamente progettate
per non aver risposta.
Quando sono riuscito a riaprire il
mio Moreno Bartelloni originale quell’altro non mi serviva più. Ma su quello
vero mio, a suo tempo fatto in Brasile, ero riuscito a non mettere la data del
compleanno, perché mi rompono le scatole i compleanni, e non parlo solo del
mio.
Forse perché significa un anno di
vita in meno e uno in più di romantici ricordi, oppure giacché Mara Dina è
fissata con il ricordarsi e fare l’obbligatorio regalo a tutta la gente che
conosce. Non è affatto poca, il che significa praticamente uno o due regali da
fare 365 giorni all’anno, tutti gli anni, per tutta la vita, eventuali reincarnazioni
incluse, magari auspicherei da patteggiare.
Bene, anzi male, il secondo
profilo di Moreno Bartelloni, forse perché fatto in Italia, ha avuto la data
del compleanno automatica e l’avviso di ogni dannato gancio di questo secondo
profilo sulla cassa dei messaggi Gmail.
Ho scoperto che il contrappasso
non c’è solo nell’inferno, ecco vagonate di auguri inarrestabili e cinquantine
di avvisi su Gmail per ognuno di essi.
Con il tempo poi ho notato, che
senza volerlo mi sto trasformando, anche fisicamente in Anatoli Orrico.
COME MAI?
“A volte mi chiedo il perché delle
cose.”
“Quali cose?”
“Tutte.”
“Non capisco.”
“Vedi, finché mi mantengo su
un’indagine generale tutto funziona e quadra a mio ordine e capriccio.”
“Sì…”
“Se però entro nel singolo caso,
le cose cambiano, mi sorprendo con una grande voglia di uscirne.”
“Beh…”
“Nutrire dei dubbi è
caratteristica della persona intelligente, nel mio caso mi pare però che siano
un po’ troppo affamati.”
“Effettivamente…”
“Allora mi lascio prendere da
quella sensazione, sempre più tangibile, che non serva a niente.”
“Cosa?”
“Non è che il senso della vita
solo ora, magari provvisoriamente, mi sia sfuggito. Mi rendo proprio conto che
io storicamente non l’ho mai preso.”
“Ah…”
“Magari il guaio è che ne ho
trovati diversi, forse troppi.”
“Sì?”
“Però ogni giorno mi sorprendo a
pensare al perché delle cose, al come mai, o anche al poiché. O forse no…”
“No?”
“No, non mi sorprendo: mi
sorprendevo. Magari è proprio questo il problema, non mi stupisco più come
dovrei. Una volta era una cosa che mi riusciva meglio.””
EMIGRAZIONE
Intanto e invece io passavo di palo in frasca,
cercando un’indipendenza anche nel lavoro, fino ad arrivare in Brasile ed
estrapolandomi lentamente dalle classi, vivendo di lezioni private di italiano,
investivo sulla libertà e la letteratura, cominciando qua a portare le storie
fino in fondo e finalmente a scrivere dei libri interi.
Anche il Caffè Voltaire, in precedenza, mi aveva
portato lontano dalla mentalità comune, vivendo di notte e dormendo di giorno bevendo
tutti i giorni, ma
allontanandomi sempre più dagli ubriachi, fino a smetterla con gli alcoolici
già in Brasile, poi con le sigarette, trovata la seconda moglie, quella più
paziente che rispettava la mia pazza indipendenza fino poi a fuggire via, ma
intanto erano passati venti anni.
Non sono un emigrante comune, me
ne sono andato dall’Italia un po’ per noia, un po’ per cercare d’imparare
qualcosa di nuovo. Viaggiare è stata una passione che mio padre mi ha
trasmesso, a volte quasi a manate. Da piccolo ha cominciato a portarci in giro,
anche per forza, io mi ribellavo e non volevo andarci, ma lui sapeva che era
solo per contrariarlo e mi obbligava. Poi, ogni volta, mi piaceva tantissimo,
ma non volevo dargli soddisfazione.
Lo spazio è importante, come il
tempo, sono sempre legati e relativi l’uno all’altro, viaggiando e vivendo in
un paese che non è il nostro si ampliano gli orizzonti, si trascende il limite
di spazio e il tempo diviene anche più malleabile.
Se uno resta sempre sul posto, non
si rende conto né che il tempo passa, né che altrove è differente, cioè non sa
come è il mondo, in sostanza non conosce la vita. La nostra città, il buco dove
siamo nati, ci anestetizza e ci fa sembrare tutto normale, indolore, incolore,
senza stimoli. Trascendendo i propri limiti si impara di più, questo non
significa che la nostra vita diventi più facile, ma certo più interessante.
La maggior parte vive nell’altra
maniera, non significa che non possa essere soddisfatta, ma che s’inganna di
più, rispetto al piano generale.
Non so quando, ma a un certo
punto, o un poco alla volta, ho capito che quella realtà non era l’unica, se lo
fosse stato io mi sarei rassegnato, forse, a non scrivere, il che può anche non
essere necessariamente una tragedia, ma certo a vivere trascinando i giorni in
una maniera insoddisfatta.
Ho scoperto che potevo interferire
sul mio destino, che potevo cambiare le carte in tavola, che potevo conoscere
persone che vivevano meno stancamente.
Quando sono a letto e non mi addormento facilmente, cosa
niente affatto rara, vado a cercare conforto nelle cose del passato remoto, nei
ricordi nebbiosi e lontani, almeno mi sento bene e - anche se non dormo - la
respirazione prende un ritmo più umano, più a misura di polmoni conosciuti e
rassicuranti.
Non ho potuto fare a meno di notare che le idee migliori
mi vengono quando sono sdraiato e al buio, forse perché così non le posso
annotare. Quelle che leggete qui ora sono solo una seconda o terza scelta, un
ricordo ormai assai sfocato di quelle belle frasi, complete di virgole e punti,
che mi sono automaticamente dimenticato appena infilate le ciabatte. Svanite
che mi sono dalla mente, una volta che sto con la vorace penna in mano, o
addirittura davanti al computer acceso e scalpitante, trepido e impaziente mi
scopro piuttosto incapace, scrivo l'elenco della spesa da fare al supermercato,
dimenticandomi che poi non ho nemmeno la stampante.
L'uomo è nevrotico. Il fenomeno non riguarda soltanto me
o un limitato numero di casi, è l'umanità, in sé, a essere nevrotica. Il
problema non è quindi quello di prendersi cura di alcuni individui; si tratta
di curare l'umanità in quanto tale. La nevrosi è la condizione dell'uomo poiché
ciascuno attraversa un'esperienza educativa condizionante. Non gli si consente
di essere semplicemente quello che è... no, ognuno si sforza invano di sembrare
normale, ma non lo è, la normalità è una convenzione scomoda per tutti.
Personalmente non sono uno specialista, ma solo figlio di
uno che in vita lo è stato e modestamente la nostra casa era nel bel mezzo del
recinto dell'Ospedale Psichiatrico di Miggiano. Figurarsi che mi hanno chiamato
poi a fare lo scrutatore per tre volte nello stesso manicomio, dove anche i
pazienti votano, come ovunque in Italia, giacché è difficile stabilire con
certezza se una persona è incapace d'intendere e di volere.
A mio modesto parere quasi nessuna lo è, anche se a vari
e distinti livelli, il voto e i suoi stessi risultati sono una manifestazione
di questa mia teoria, piuttosto difficilotta da dimostrare.
Bisognerebbe fare prima dell'improbabile autocritica e
sarebbe pure una salutare ginnastica, ma purtroppo preclusa ai più, per la
stessa tendenza auto-affermativa della società e quindi di riflesso
dell'individuo, o viceversa. Causa ed effetto girano a loro piacere, si
scambiano il posto, in questo caso, ma anche in altri che non sto qui a
spiegare, io stesso non li capisco.
A mio favore c'è anche la famosa legge Basaglia, ma forse
avrebbe liberato meglio i pazzi dai manicomi, se avesse dichiarato apertamente
l'inutilità degli stessi, visto che fuori ci sono più e migliori matti che
dentro. Gente che fa dei danni allargati anche a livelli regionali, nazionali e
internazionali. Stendiamo un velo pietroso, ci vogliono dei macigni,
eventualmente marmorei e apuani.
La menzogna è un passato senza eccessivi testimoni, si
potrebbe anche dire, se qualcuno ci ascoltasse, ma non è questo il nostro caso
attuale. Almeno negli ultimi decenni, tutti parlano, ma l'importante è che
nessuno ascolta veramente, qualcuno fa finta. Ogni tanto qualche parola, esigue
parti di frase, più raramente un'ombra di concetto, trapelano tra le
dichiarazioni auto-celebrative, perché sfuggono al loro controllo, distratti da
cose effettivamente assai più importanti.
Mio padre tecnicamente non era affatto bugiardo, era solo
piuttosto esagerato. La parte migliore veniva quando, dopo aver gonfiato a
dismisura la sua storia, chiedeva relativa conferma a mia madre, che pur senza
eccessivo entusiasmo assentiva e poi cercava ripetutamente, ma invano, di cambiare
argomento. Noi bambini qualche volta siamo intervenuti in quei discorsi da
grandi, pur non direttamente interpellati, per puntualizzare le effettive
misure di quelle situazioni alle quali avevamo casualmente e nostro malgrado
partecipato. Ci hanno sempre e malamente scoraggiato però, anche se non ne
abbiamo capito bene il motivo ci siamo adeguati a tacere, soffrivamo, come mia
madre, ma in silenzio.
Una volta adulto non sono affatto diventato un
intellettuale, per carità, né un antropologo, no, però mi sorprendo spesso a
studiare il comportamento umano. Come ieri al banchetto dei libri usati,
nell'omonima piazzetta poco frequentata. Quasi senza accorgermene mi sono
progressivamente avvicinato a quei due, apparentemente attirato dai volumi
grossi e pieni di pagine, che invece non avrei mai comprato giacché assai poco
pratici da leggere a letto. Solo per ascoltare quel dialogo seduto tra la
commessa e un suo amico barbuto con l'accento sudista. Parlavano di amore senza
mai nominarlo, di vibrazioni ricordandone spesso la natura tremula e
incontrollabile. Mi sono incuriosito, all'inizio senza rendermene conto, ma mi
muovevo già in loro direzione.
Uno strano fenomeno si stava verificando, mentre io senza
fingere credevo d'interessarmi davvero a quei pesantissimi tomi lì accanto, i
due parlavano a turno, forse di rapporti tra uomini e donne, di casi specifici
ai quali avevano preso parte attiva. Senza interrompersi però, né cambiare
continuamente argomento, sembravano addirittura ascoltarsi a vicenda e per sincerarmene,
ogni tanto, da qualche finestrella tra i libri degli scaffali, ne scrutavo
attentamente le facce, che parevano autenticamente assorte, dalla maniera di
guardarsi negli occhi e dalle prossime e relative orecchie persino seguire le
vibrazioni tra le righe delle scambievoli frasi. Un tenero affresco dei tempi
che furono: commentavano a tono quello che avevano poc'anzi udito, e niente
affatto a sproposito. Non voglio entrare nel merito dell'intelligenza delle
loro affermazioni, ma era tanto tempo che non assistevo a uno spettacolo così
ammirevole, che quei libroni enormi che non avrei accettato nemmeno in regalo,
per una qualche proprietà transitiva, improvvisamente mi sembravano cose rare e
auspicabili perfino per una futura lettura, o anche solo per guardare le
figure. Io stesso, che come attore sono il peggiore che conosco, dovevo parere
così assorbito da quell'indagine letteraria, che loro non ci hanno fatto caso
più di tanto, anche se ero a un metro e mezzo di distanza, hanno continuato a
confessarsi i reciproci fatti personali più intimi totalmente a loro agio,
finché lui se n'è andato e io ho comprato una monumentale storia degli ebrei di
Mordecai Cohen Vicarello, solo per quattro euri, perché la copertina era
rovinata e mancavano sei pagine strappate. Mi sono avviato verso la macchina
schiacciato da quel peso non indifferente, è vero, ma alleggerito in tutti gli
altri sensi.
La storia illustrata degli ebrei mi ha sempre
affascinato, a suo tempo me ne avevano prestata una bellissima in portoghese,
piena di foto, pitture, papiri e testimonianze. Però avevo fatto l'errore di
restituirla, anche sapendo che al proprietario non gliene fregava niente, non
l'aveva e non avrebbe mai letta, si era addirittura scordato di averne mai
posseduta una, cercò perfino di convincermi a tenermela. L'onestà è una cosa
incontrollabile, come la puntualità, non so da chi le ho ereditate, la colpa
credo che sia ancora di mio padre. Certo che una volta erano robe più scusabili
e tollerate, ma ora non più.
Tornando alla letteratura, questa sconosciuta, riesco a
perdonare molti difetti ai libri gialli e a quelli comici, quelli buoni sono i
più difficili da scrivere, ma sono pochi che ci riescono. Lo stesso ai film
corrispondenti. Tolleranza zero ai film d'amore e alle tragedie, parimenti ai
libri da cui sono tratti. È così facile identificarcisi che si possono fare a
occhi chiusi e si assomigliano un po' tutti. Chi riuscisse poi in un'unica
opera a ficcarci dentro tutto, in un ordine anche sparso ma comprensibile,
senza perdersi nel mare dello spazio siderale, dono tutta la mia massima
considerazione, per quel poco che vale, gli posso perdonare quasi tutto, ma
anche in questo caso non posso esagerare.
Premesso ma non concesso che non interessa a nessuno del
mio giudizio, terminerei dicendo che non riesco proprio a giustificare i film o
i libri che ricalcano storie già lette e rifilmate, che se ne vadano
rispettivamente affanculo. Lo so che sono la maggior parte, di tante o forse
troppe disponibili, pazienza. Tutti scrivono e nessuno legge, tutti filmano e
nessuno sa distinguere un pastrocchio d'ingredienti cucinati a caso da un'opera
d'arte.
Meno male che non siamo tutti uguali, d'accordo, ma non
c'era bisogno di esagerare tanto, dico io.
Chi siamo noi si riassume nei ricordi, poi, il risultato
di tante cose passate è quello che oggi vediamo allo specchio. Riflettere è
sinonimo di specchiarsi, in alcuni casi, di vedere il proprio riflesso, di
pensare alla situazione, a sé stessi, alla vita, alla nostra porzione attuale.
Intanto scene del passato spuntano fuori da un quadro, da un calendario, da un
libro, dallo stesso computer, perfino da uno specchio.
Mi riconosco poco in questa faccia, certo molto di più mi
ci ritrovavo quando ero giovinotto, capisco mio padre che quando si guardava
allo specchio si sorprendeva di vedere un vecchio. Come dicevo prima mio padre
era uno specialista della mente umana, di quella degli altri, che nella sua non
ci capiva altrettanto bene.
QUATTORDICESIMA
PARTE
IMPARANDO A FAR MENTE LOCALE
È un eterno ragazzone, capelli
corti a 64 anni non ancora bianchi, un naso invadente, occhi attenti, una certa
tendenza a mettere su pancetta, è vestito in pantaloni corti, cannottiera e
ciabatte. Pensa profondamente prima di rispondere, ma pare che non dica niente
di ciò che ha pensato o forse solo l’ultima cosa che gli è venuta in testa,
quasi improvvisando.
L’uomo aveva bisogno di una rotta
da seguire, insomma, la cui mancanza anche nella donna provocava disagi.
Fare un passo avanti e due
indietro era forse il destino di tutti, fingere di non ingannarsi era magari un
altro parallelo, purtroppo o per fortuna, a volte anche perpendicolare. Credere
di avere una missione… ma quale? Qua sopra la terra almeno, era una guerra
persa, su altri pianeti non lo sapeva.
Credeva di essere un filosofo e
invece si era perso subito nella pratica di quello che era convinto che fosse
la sua teoria.
Forse
aveva capito che l’imbecillità a volte era più efficace. Che non doveva farsi
domande, se ci riusciva, ma così facendo aveva notato che le risposte
tardavano, anzi non arrivavano proprio. Allora aveva evitato di pensare alle
risposte, o almeno si era proposto di farlo, cioè di non farlo.
A volte l’imbecille viveva meglio
dell’intelligente, almeno qua da noi, perché non si faceva domande e continuava
determinato, alla sua maniera, la propria battaglia navale e se non si
ricordava dove aveva mandato i siluri ce li mandava di nuovo. Ma si poteva
sforzarsi di essere imbecilli a comando?
Lo studio involontario ma continuo
dell’essere umano lo aveva portato a capire che molta gente mentre faceva una
cosa, pensava ad un’altra, una qualsiasi, bastava che non fosse quella. Mentre
succedeva una cosa in un determinato momento, la persona veniva sorpresa
pensando ai fatti suoi, a un problema o a una soluzione per la sua vita, o di
quella di un altro, o di un’altra.
DICIAMOCELO DICENDOCELO
Il presente è detto indicativo
proprio perché - al momento giusto - separa le acque per noi e ci indica
da una parte un passato e dall’altra un futuro.
Ci dice che il passato - per
quanto romantico - non è più; che il futuro - anche se radioso -non è ancora.
Invece il passato, anche se non
sempre imperfetto, che sia prossimo o anche remoto, non ha più energia, ma
sulle sue macerie, magari ancora fumanti, saltella proprio il presente, a
indicarci la strada da scegliere.
Il futuro, non importa se sarà
semplice o anteriore, certo avverrà o sarà avvenuto, ma purtroppo c’è ancora da
aspettare.
Anche se a volte ci viene il
dubbio, siamo piantati qua in mezzo e pure se condizionali e congiuntivi vari
ci punzecchiano con ipotesi non sempre realizzabili, pare proprio che
esistiamo, effettivamente, in qualche misteriosa maniera.
Dimentichiamoci quindi, almeno per
un po’ di essere professori d’italiano, o dei sedicenti scrittori: il presente
è proprio oggi, ora, in questo momento.
Però se ci facciamo prendere
dall’ansia, il tempo perde il suo valore, anzi sciupa anche tutto il resto.
La grande contraddizione degli
esseri umani è il costante pensiero della morte, di tempo noi qua ne abbiamo
anche troppo, ma se pensiamo che è una cosa che un giorno finirà, allora pare
che ci manchi.
Non credo di essere uno di quelli
che pensano spesso alla morte come un qualcosa in un certo senso sgradevole.
Se però considerassi la mia
nascita una delle cose migliori che io abbia mai fatto, ecco che la fine
dell’esistenza potrebbe provocarmi un qualche disappunto.
Non penso di conoscere la morte,
come non abbastanza la vita, la prima però è solo un momento, l’altra invece ha
una durata, perciò è forse preferibile, in quanto maggiormente interattiva.
A noi umani il pensiero della fine
della vita ci accompagna e c’incuriosisce, se non sempre, almeno spesso, dalla
nascita alla morte.
Uno strano processo per cui una
persona prima c’è e dopo non c’è più.
È forse una magia?
La magia crea qualcosa dove in
precedenza non c’era, o fa sparire una cosa nel niente, ma è solo un trucco.
La filosofia, invece fa capire che
quel qualcosa che noi credevamo inesistente invece esiste, o quello che credevamo
esistere - al contrario - non c’è. Insomma la filosofia è il contrario
della magia, o qualcosa del genere.
La morte dovrebbe essere il
contrario della vita, o magari no. Se uno sapesse quando deve morire, potrebbe
organizzarsi meglio? Come quando si va dalla cartomante e poi ci si fa
eccessivamente influenzare dalle sue previsioni. Allora è meglio saperlo oppure
no?
Personalmente preferisco di no,
anche se mi dicessero che morirò esattamente fra cinquant’anni a partire da
adesso.
Sarebbero cinquant’anni troppo
influenzati da questa previsione e poi che fregatura se non fosse nemmeno vero!
Il principio di Heisemberg dice
che l’osservatore influenza inevitabilmente il risultato dell’esperimento.
Il mondo senza di me non sarebbe
certo lo stesso, almeno dal mio punto di vista. Anzi, ho ragione di credere che
non esisterebbe nemmeno.
BASTIANI DI VARIO TIPO
Una meditazione può essere utile
nei tempi morti, come in sala d'aspetto dal dentista. Lo so che lì c'è anche la
TV accesa e ci sono altri pazienti che discutono, raramente a bassa voce, di
argomenti poco interessanti, come di quello che ha detto un presentatore, alla
cerimonia degli oscar, della moglie di Will Smith per meritarsi di prendere uno
schiaffo da lui medesimo.
Ma la gente è proprio di queste
cose che parla e la tua profonda respirazione collegata alla tua vista
strettamente periferica è proprio da queste calamità che dovrebbe proteggerti.
Concentrarsi quindi nella non
concentrazione è un esercizio utile assai, ma piuttosto difficile, anche perché
ti chiederanno inevitabilmente un tuo parere, ma tu farai il finto tonto,
concordando con uno dei conversanti o ripetendo a pappagallo le sue parole
appena dette.
La signora interlocutrice però
prenderà le difese di Will Smith, o del presentatore, non importa. Quello che
le interessa è di essere una bastiancontraria, si capisce subito. Il Dalai Lama
nella tua situazione saprebbe sostenere la sua espressione cortesemente assente
e si manterrebbe neutrale più possibile, ma sentirebbe un certo fisico sollievo
se e quando il dottor Gonzalo lo chiamasse dentro per sottoporlo a un
evidentemente preferibile dolore solo corporale e localizzato.
API
Se le api stiano morendo io non lo
so, ma qui a casa mia ce ne sono tante. Sotto un albero altissimo di cui non so
il nome ma mi sto documentando, sono migliaia e c'è un ronzio che pare di
essere in guerra, con gli aerei bombardieri in arrivo.
I fiori gialli di questa pianta,
che assomiglia a quelle dei film sui dinosauri, che poi sono girati in
Patagonia Cilena, cadono giù e le api li visitano anche a terra. Il cielo
attorno è quello fatto di azzuro intenso, nuvolette bianche e gonfie in lento
movimento. Il ronzio va a ondate, forse dipende dalla brezza. Passa un aereo
forse per farmi sentire la differenza tra i rumori, il suo è un brontolio più
forte e basso.
PORTAFOGLIO
Quando mi faccio avanti baldanzoso
per pagare io per tutti, di solito ho dimenticato il portafoglio a casa, se non
l'ho proprio perso.
Mi
è successo diverse volte, la prima eravamo a Viareggio con mio padre e un suo
amico, avevamo mangiato in una pizzeria al taglio, quella che dicevano fosse la
migliore della città, una spesa relativamente bassa. Credo che mio padre pensò
che lo avessi fatto apposta, che sia morto con questo fastidioso dubbio.
A
Empoli a fare colazione recentemente ecco la stessa storia e poi tutto il
giorno ha pagato il mio amico Martino, non ero nemmeno sicuro di non averlo
perso, il portafoglio, ma poi l’ho ritrovato a casa.
Qualche
giorno dopo, proprio mentre raccontavo questi fatti, in un ristorante in fila
tra amici per pagare il conto alla romana, mi sono reso conto che non trovavo
più il solito portafoglio ed ero disperato, perché oltre ai soldi ci avevo
anche la carta d'identità brasiliana e mi trovavo in Italia.
Poi l'avevo messo in una delle
maledette tasche di quei pantaloni, all'altezza delle ginocchia, che mi
dimentico sempre che esistono.
Uno dei miei amici aveva avuto il
sospetto che proprio in quel momento io stessi raccontando quella storia, di
quella cosa che mi succedeva così dannatamente spesso, proprio per far pagare a
loro la mia parte.
Una volta perdevo le chiavi e il
portafoglio con una certa frequenza e senza sforzo, anche contemporaneamente,
con una certa disinvoltura. Ora però gli occhiali sono la mia specialità.
In Brasile è caldo e umido e a
volte il cervello è affettato da un calore che penetra dentro e che gli
impedisce di pensare con un minimo di ordine, metti insieme tutte questa cose
alla normale stanchezza congenita e alla sopraggiunta vecchiaia dell’individuo
e allora tutto diventa un’assurda commedia di Ionesco.
Con gli occhiali poi c’è un
vantaggio in più, un bel tocco di comicità supplementare: puoi cercarli bene e
meglio se ce li hai sul naso, ma anche così – chissà perché - non li trovi.
Un classico.
Basta non avere fretta.
ANCELOTTI E KLOPP
Accendo il computer e guardo
qualche video, tanto per rimanere informato di tutte le cose inutili. Vabbè non
tutte, mi bastano quelle su cui si possa fare conversazione con qualcuno.
Tra Klopp e Ancelotti non mi so
decidere, a Parigi sarà il campo a farlo e i loro giocatori. Ancelotti contro
Klopp era la notizia più importante. Due esempi notevoli anche se assai
diversi, Klopp è un tedesco piuttosto umano e innovatore, invece Ancelotti è un
anziano allenatore italiano e ogni cosa che vede in campo la riconosce subito,
perché l’ha già vista in precedenza. Gli è rimasto anche un sopracciglio
alzato, in una antica espressione di stupore, che ora però non prova più.
“Non posso fare il pressing alto,
dice ai giornalisti, perché ho giocatori troppo vecchi, allora mi adatto a
quello che ho e, per caso oppure no, abbiamo vinto il campionato spagnolo e
siamo in finale della Champions.”
Ho spento il computer, sono andato
fuori e ho messo due coperte in terra, due gatti e due cani a caso si sono
avvicinati, uno alla volta, si sono sdraiati attorno a me sotto un nespolo in
fiore, con un gran traffico di api che ronzano.
Mi sono messo a studiare il
comportamento di una piccola Lagartixa che è venuta a unirsi a noi cinque, con
tutto il pericolo che le offriamo è venuta in mezzo a noi al sole. Mi sono
distratto un attimo forse e un gatto se l'è mangiata. No, ora è uscita da un
buco, magari siamo noi che stiamo sul suo territorio.
Qua non esistono le lucertole come
le nostre, ci sono le Lagartixas, delle specie di gechi in mimetica
chiazzata che se ne stanno sui muri dentro e fuori casa, cacciando insetti di
ogni tipo. Senza volere se ne schiacciano spesso aprendo e chiudendo le
finestre.
La nostra vita e quella degli animali
sono collegate, ce lo dimentichiamo spesso, ma siamo animali anche noi, mi
ripeto ogni tanto.
Tecnicamente non sono un bugiardo,
ma la mia mente vive in spazi molto più ampi di quelli del corpo, attenermi
alla verità propriamente detta spesso mi fa sentire una certa e indesiderata
claustrofobia. Insomma la realtà più che altro mi serve da ispirazione, c’è chi
abita ambienti angusti e torna sempre sulle stesse cose ripetendosi
all’infinito… finché poi la morte li interrompe.
Vorrei vivere in mezzo ai boschi
io, e lontano dalle strade e dall’energia elettrica, ma ormai mi sono abituato
a queste comodità e a sessantatré anni è difficile fare l’eremita, magari
bisognava cominciare prima. Però nelle opportune condizioni so apprezzare la
nebbia, o la pioggia, come una giornata di sole. Un albero di mandarini
stracarico dal quale allungando un braccio staccare un frutto e mangiarselo
sotto i raggi caldi che vengono giù, in mezzo al vento autunnale freddo e
umido. Ho imparato dai cani a sostare con il corpo all'ombra per metà e a
scrivere forse da chi non se lo poneva come risultato, ma come cammino, in
movimento senza fretta e senza pretese.
Per buona sorte siamo nati e
cresciuti in un’epoca più sana e abbiamo conosciuto persone valide, esempi da
seguire se non totalmente almeno in parte, perché ognuno è fatto alla sua
maniera, anche se poi ci si rifà a modelli conosciuti… o meglio ancora se non
si conoscono.
La fortuna che abbiamo non è da
quantificarsi in denaro bensì in opportunità, è vero che qua attorno il mondo
si scanna ogni giorno di più, ma per fortuna siamo già vecchietti e senza
figli.
Non generalizziamo, io parlo
per me ed è già un abisso assai profondo. Possessore di settecentoventi metri
quadrati di terreno brasiliano in ripida salita, o forse meglio in burronesca
discesa, dall’entrata verso la casa. Ho letto migliaia di libri, altre migliaia
li ho cominciati e non mi sono piaciuti, forse meno ne ho portati oltre la metà
e abbandonati. Ho attraversato una cinquantina di volte la pozzanghera dell'oceano
e ho percorso migliaia di chilometri avanti e indietro, per una trentina
abbondante di nazioni. Ho conosciuto tante facce che quando ne incontro una
nuova mi pare di averla già trovata sul mio cammino. Ho fatto di necessità
virtù, mio malgrado e a un certo punto della mia carriera di essere umano non
so più qual è l'uno e qual è l'altra, e non me ne importa più, sono diventati
la stessa cosa, non so più distinguerli.
Si può essere soddisfatti della
vita, eliminando la perfezione come risultato da ottenere, considerando i vari
aspetti, non ogni tanto, ma in maniera più o meno costante. Considerare
l’esistenza come un miracolo, così ogni sua manifestazione, a partire dalla
natura, ci può aiutare a trovare un consistente motivo per cui vivere.
Mi sento fortunato di aver
compreso la bellezza di tanta gente che conosco e ho conosciuto, tra cui anche
alcuni miei familiari e parenti, poi di aver avuto occasione di costruire una
mia filosofia di vita che mi permetta di distinguere il bene dal male, per
quanto siano mischiati e confusi oggigiorno, probabilmente lo sono anche sempre
stati.
Insomma per fortuna che sono stato
fortunato, la mia è stata anche una vita di scelte e di esclusioni, tolto
quello che non mi interessava, che è cresciuto fino a diventare una montagna,
questo che mi è rimasto forse è poco, ma è mio e mi assomiglia, nel bene e nel
male di ogni giorno. Non è stata una passeggiata da pecore, né da leoni, né
facile né difficile, piena di alti e bassi, ma sempre seguendo il cuore e le
mie stesse regole, a volte anche sbagliate, ma in costante tentativo di
migliorare, soprattutto senza paura di confessarmelo e cambiare di conseguenza.
Non si può dire che l'essere umano
abbia fallito in tutto, forse ha solo perso di vista i suoi obiettivi, magari
ora c’è troppa gente e le mafie associate hanno il controllo del pianeta, ogni
tanto si fanno la guerra, il potere e il denaro accecano tutti coloro che sono
predisposti. Le buone notizie non sono molto ricercate, quelle cattive vendono
assai meglio, sono diventate una merce come le altre e in più non devono
necessariamente essere di buona qualità, anzi. Il consenso obbliga a mentire
più di un tempo, il qualunquismo e le notizie false convivono bene, prosperano
come non mai. Le buone idee sono sommerse dalle tante inutili o dannose. Le
mezze verità sono sempre state bugie intere, ma la maggior parte della gente si
accontenta di apparenze di plastica, se gli fai vedere una cosa vera non la
riconosce più.
La
solitudine che tu mi hai regalato, io la coltivo come un fiore, cantava Sergio Endrigo. Ieri
dicevo che la vita di coppia era meravigliosa e oggi, solo perché mi hanno
lasciato, canto gli elogi della solitudine.
LA FILOSOFIA DEI SOGNI
Ho sempre avuto un rapporto
discontinuo con i sogni, quasi sempre non me li ricordo, forse vado a epoche, o
a fasi.
Quella di ora è che nei sogni,
specie verso la mattina e dopo la necessaria gita al gabinetto, mi metto a
ragionare e a ricordare lucidamente, come se stessi sveglio e mi rammento poi
tutto, nei particolari, come non mi è mai successo prima.
Ultimamente ho avuto un contatto
ripetuto e continuato con Socrate, che è forse, tra i filosofi, quello che mi
piace di più. Mi è venuto perfino il dubbio che in qualche altra dimensione
esistesse ancora veramente, che volesse davvero parlarmi e aiutarmi.
La prima volta eravamo in tre e
stavamo seduti sul bordo del lavatoio di Tuscania detto delle Sette Fontane.
Socrate era in un virato seppia
marroncino, come tutto il resto, forse in ricordo di quello che è stato, quando
non esistevano le foto. Insomma il virato dà alla scena un'idea di antichità
notevole e romantica. Socrate però è ancora attuale oggigiorno, quello che ha
detto e soprattutto le domande che ha fatto, nelle sue discussioni spesso
riportate da Platone, ancora funzionerebbe con la logica attuale, se mai ce ne
fosse una in giro.
Nel sogno lui ha taciuto
pensieroso, poi ha parlato per un po’ di alcuni problemi tipicamente ateniesi,
che a me logicamente interessavano meno, finché gli ho detto:
“Ti rendi conto che l'acqua appare
quasi sempre nei miei sogni, o proiezioni mentali che siano, ci deve essere un
motivo o no?” Mi ha guardato e ha sorriso malinconico.
“Anche le foto stesse o i video
che metto su Facebook.” Ho aggiunto io.
“È un sogno ricorrente?” Ha poi
chiesto lui.
“No, quello è senza acqua, quelli
cioè, mi sogno che sono ancora a scuola, a fare il servizio militare, o al
Caffè Voltaire.
“Situazioni in cui ti sei sentito
prigioniero?” Chiede Socrate.
“Sì, infatti!” Qui è intervenuto
Freud, che nei miei sogni invade spesso.
“Ecco l'acqua invece ti fa sentire
libero, è instabile e incontrollabile, figuriamoci che segue le fasi della luna
e cose di questo genere. O anche di altri.” Sigmund, pur se non invitato troppo
volentieri, è ovviamente contemporaneo mio e di Socrate. Il quale sorride e
chiede:
“Ma che tipo di acqua ti sogni:
stagnante? Piena di limo e alghe? Acqua che scorre, come un torrente? Oppure il
mare?”
“Tutte. Spesso è limpida, mai
acqua torbida.”
“Allora è la libertà.” Interviene
lesto Sigmund. “Sei così privo di regole e lunatico, non sai limitare la tua
libertà, fino al punto di esserne schiavo, non vuoi un lavoro come dipendente
né come imprenditore. Non vuoi una famiglia, anche se ti piacciono quelle degli
altri. Non vuoi un figlio, ma per cinque minuti adori il figlio di qualcun
altro. Non vuoi legarti a niente e a nessuno, ma ti senti solo.”
“Vero, ma allora cosa devo fare?”
“Niente. Hai i tuoi bei
sessantatré anni, pensi ancora di poter cambiare?” Ha risposto Socrate
domandando.
Sono rimasto piuttosto deluso.
Sigmund mi ha guardato, poi ha sorriso e approvato con un cenno della testa.
Vaffanculo.
L’ESISTENZA DEL VIVENTE
“L’esistenza è assurda e ingiusta,
forse solo per i nostri criteri umani, ma altri non ne conosciamo.”
“Forse la metamorfosi di Kafka è
esagerata, ma che la vita sia un continuo cambiamento non si può certo negare.”
“Non per tutti è così.”
“Certo, tu per esempio sei un
totem, assai ben colorato e tutto, ma non so ancora di quale materiale. Per
essere legno resiste troppo bene alle intemperie. Potresti aiutarmi?”
“No. Ma forse il pensiero umano è
troppo limitato e copia sé stesso all’infinito. Non sono io a scoprirlo, ma è
una verità, tra le altre. Anche se nessuno mai è stato d'accordo con gli
individui che hanno detto la verità, a tutti piace da morire, ne sono
terrorizzati, pur se non lo ammetterebbero facilmente, più ne hanno paura e
meno lo possono ammettere.”
“Le menzogne sì che sono dolci. Le
bugie fanno un porco comodo, sì, fanno troppo comodo, sono eccessivamente
convenienti e nessuno vuol fare l’eroe, perché dovrebbero?”
“La
verità non accetta compromessi. No, sei tu a dover cambiare, a doverti adattare
alla verità. La verità non cambia, non si adatta alla tua convenienza, non è
per niente elastica.
Le menzogne si comportano diversamente,
sono più democratiche, hanno un profondo senso della politica e non solo di
quella moderna: sono disposte a sacrificarsi, a cambiare a seconda di quello
che fa comodo a te. Per questo le menzogne hanno dominato l'umanità, mentre la
verità è stata crocifissa. Parliamoci chiaro, guardiamoci in faccia, questa è
l’epoca in cui si è mentito di più e sistematicamente e non è ancora finita, è
appena cominciata.
Non sono state inventate oggi le
fake news, ma oggi con tutto il bombardamento di notizie che ci dobbiamo
sopportare, scopriamo che le notizie sono diventate una merce e quindi le
progettano come gli pare, tutto e il contrario di tutto a rotazione, a cosa
serve il potere se non a legittimare sé stesso e a schiacciare il poveraccio?”
NOTIZIE RIGOROSAMENTE FALSE
Qualcuno ha detto che l’internet e
le fake news sono una cosa di destra, ma non è vero, è a disposizione di tutti
e tutti ne stanno approfittando schifosamente, anche se in parti disuguali, ma
non sono divise affatto per partito, solo tra chi - più o meno - ha veramente
assimilato che sono uno strumento di potere, anche per un altro motivo.
Il consenso è una cosa abbastanza
recente, per carità, una volta i potenti spiaccicavano apertamente chi li
ostacolava e non chiedevano neppure perdono, ora invece no. Certo per loro è
molto più facile, ma devono simulare e dissimulare, non ne avrebbero certo
voglia, non ne sentirebbero alcun bisogno, per questo oggi siamo molto più
ipocriti di una volta, dobbiamo tutti fingere e aver paura, sempre, anche solo
di essere scoperti a dire la verità.
Per questo le menzogne sono state
incoronate e la verità è stata condannata a morte. L’invenzione del consenso
non ha cambiato certo la sostanza, solo la maniera.
La situazione non è affatto
cambiata, è sempre la stessa, l’internet sembrava uno strumento di cultura,
perfino tutto il contrario della Tv, ma è bastato che se ne accorgessero ed è
diventata la stessa cosa, più larga, meno controllabile capillarmente. È un
costo in più, d’accordo, ma basta mettere su una rete di gente pagata per dire
bugie mirate, e poi una rete di reti, collegate alla Tv eccetera.
Oggigiorno basta che tu dica
la verità e tutti sono in collera con te. Basta che tu dica la verità per
irritare tutti coloro che vivono comodamente nelle menzogne. Hai turbato la
loro pace, hai interrotto il loro sonno, hai disturbato i loro dolci sogni. E
se ti scappa anche un piccolo vaffanculo sei un violento, non sei per niente
democratico.
Vaffanculo a te e a tutti quelli
come te.
Quando
un ti garba più nulla è meglio andà a letto, penso spesso in lucchese puro e ci vado. Però ci sono
giorni che non mi alzerei nemmeno. Poi inaspettatamente mi diverto, mi sento
bene, penso che nonostante tutto valga la pena, insomma a volte è solo
stanchezza, anche delle ripetizioni, i già visti e rivisti e la famigerata
routine.
ATTAVOLA!!
Noi italiani siamo gli unici al
mondo per i quali il tavolo, quello dove si apparecchia e poi si mangia,
diventa automaticamente femminile, forse perché una volta a cucinare era solo la
mamma.
La stanza che mi piace di più in
una casa è la cucina, la più sincera e la più gradevole, per tutto quello che,
volente o nolente, evoca. In cucina non si bara e non si può bleffare, si
riconosce subito il falso e l'ipocrita. E poi non solo la donna, ma anche
l’uomo deve saper cucinare, lavare i piatti, pulire la casa eccetera, nella
vita non si sa mai cosa succede e più cose si sanno fare e meglio è.
La famiglia è una cosa complicata,
non sempre funziona come dovrebbe, forse perché il mondo attorno è diventato
sempre più complesso e disumano, materialista e senza valori, si è perso ogni
romanticismo in nome di un non si sa cosa di plastica.
Meglio una famiglia che non
funziona pienamente che essere orfani, siamo d’accordo, ma anche qui ci sono
vari livelli e interpretazioni.
Ammiro quelle degli altri, di
famiglie, quando sono efficaci, almeno a tavola. La cucina ha a che fare molto
con la famiglia, posso dire di non averne una, quella che ho avuto prima non mi
piaceva, mia madre però cucinava bene.
Nei film in generale, in
particolare in quelli italiani, la parte culinaria, quella cioè della riunione
di persone di fronte a un desco, merende e colazioni incluse, sono le scene che
mi piacciono di più. Danno un'idea pratica e sintetica di come vive la gente,
attraverso le relative epoche e le diverse latitudini. Nei polizieschi e nei noir fanno da contrappeso a
inseguimenti, sparatorie e scazzottate che mi annoiano e mi assordano, nei film
e serie TV, nei libri non esistono nemmeno e meno male.
Una volta non capivo perché quando
guardavo Montalbano, e lo vedevo mangiare da solo la sera di fronte alla TV, mi
ci immedesimavo parecchio, eppure ero sposato e credevo sarebbe durata per
sempre.
Ora sono tornato a vivere da solo
e capisco perché quella scena ricorrente me la sentivo mia, mi ci vedevo come
ero stato e sono tornato a essere. Era una scena che mi faceva un po’ tristezza
ma anche tenerezza, in fondo nella vita, anche se non sembra, siamo sempre
soli.
Il commissario poi veniva sempre
interrotto da una telefonata, da una visita necessaria o inopportuna,
immancabilmente non finiva mai di mangiare e mi pareva uno spreco. A me però
non mi interrompe nessuno, per fortuna o per sfortuna, nessuna visita e nessuna
telefonata, insomma posso mangiare in pace.
La cucina rappresenta la
convivialità, lo stare insieme, se non l'unico momento è il più frequente e
ripetibile in cui gli amici o la stessa famiglia si riuniscono e parlano è a
tavola, così per me si dovrebbe cucinare e mangiare nella stessa stanza, come si
faceva una volta.
Nel contesto della storia
raccontata, la parentesi del mangiare è fondamentale, specialmente in Italia è
il momento nel quale si scambiano opinioni con più calma, anche nell'epoca
moderna, in cui la gente vive in uno stato di stress costante e non si ferma
per pensare, non fa mai una cosa sola per volta, se non in vecchiaia, in
presenza di problemi di locomozione, di limiti fisici e logistici per poter
approfittare appieno di ogni possibilità.
Ho avuto ed ho ancora amici
cuochi, ho lavorato nella ristorazione per un po’ di tempo, anche all’estero.
Se io mi sento anche un po' italiano è per lo più a causa della lingua e della
nostra gastronomia, per il resto mi sento piuttosto un cittadino del mondo.
Non sono mai stato un appassionato
di culinaria, ma ultimamente ho notato che nel mio passato, sia per lavoro che
per amicizie varie, c’ho avuto a che fare spesso, se non volentieri e ci faccio
attenzione, perché mi affascina, ci sono legato in maniera sottile ma
indissolubile.
A farci caso, sia in casa che al
ristorante ci sono cose belle e romantiche, che attraversano la cultura di un
paese, sia inteso come villaggio che come nazione.
Guardo i filmati delle ricette su
Youtube, noto che ci sono diverse tendenze, alcuni non fanno vedere nemmeno la
faccia e partono con le varie fasi della preparazione, di come si fa quel
piatto, altri invece vogliono fare i comici per forza e non ci riescono, appare
tutto forzato e se la ricetta poi è ben sviluppata non lo so, ma quelli che mi
piacciono sono coloro che spiegano con calma e lo fanno con passione, bene o
male t’invitano a continuare e sono la minoranza.
Come in ogni altro compartimento
umano, io vado dietro alla simpatia naturale, quella che non si può imitare,
perché ognuno ha la sua, differente da quella degli altri, sottile e semplice,
non imita e non vuol convincere nessuno.
LODE ALL’IMPERFEZIONE
Dal mio belvedere, anfiteatrino di
pietra e cemento, sotto il cipresso, in mezzo alle spade di San Giorgio, la
collina di fronte fa da palco e loro sbucano da dietro, da nord-ovest, sopra
una Porto Alegre che non si vede, eppure sappiamo che più o meno è là dietro.
Ora
un elefante candido sta tossendo, ma in silenzio, si capisce da una chiazza
leggermente più scura di vapore che gli esce dalla bocca aperta. Dopo tre
secondi o quattro si è trasformato in una testa di Lama, forse un’Alpaca e
sulla schiena, che non si vede, ma si indovina, subito dietro, evidentemente un
barboncino piuttosto malandrino ha alzato la gambetta e fa la pipì.
A volte sono grandi gonfie e
immacolate, altre volte grigie e minacciose, poi straccetti equidistanti che si
spostano come un gregge su di un campo che poi è il cielo.
Si colorano indifferentemente dei
tramonti e delle albe, come se quel sole fosse uno di loro, un compagno caldo
che ci si mischia e le accarezza, mentre lente e dolcemente se ne vanno, per
far posto ad altre e le sfumature cambiano e si distanziano, si sfaldano e si
ricompongono.
Tra le cose più belle del Brasile
ci sono le nuvole, sia per la loro varietà di forme di colori, che per il loro
lento e instancabile movimento.
La bellezza di una situazione, di
una musica, di una persona, della natura attorno a noi, hanno un senso se ci
fanno sentire una soddisfazione, un'emozione. Meglio se non sono indotte da una
serie di norme e mode, proprie della società. A queste ci si può ribellare,
certo è difficile ignorarle, forse dargli meno importanza di quella che hanno
per gli altri, vivere più o meno parallelamente, a debita distanza, in fondo
ecco per me la disciplina a cosa serve.
In cosa consiste la mia presunta
saggezza? È forse accettare il mio destino di essere umano? È comprendere di
non poter sempre capire, eppure non rinunciarci?
In un certo senso la saggezza è
acquisire la certezza di non poter mai, in nessuna maniera, risolvere i
problemi della nostra vita definitivamente, eppure non ribellarsi alla propria
logica assurdità.
Non tentare nemmeno di eliminare
la sofferenza dell'esistere, altresì godere della bellezza a disposizione, una
meraviglia che non si controlla e non si quantifica, una stupenda e variegata
manifestazione che non ha canoni prestabiliti, sebbene si cerchi continuamente
di giudicarla, classificarla e infine catalogarla.
In sostanza dissentire, discutere
o litigare con il mondo può anche avere senso, ma lateralmente comprendere che
nessuno e nulla possano avere ragione, anche solo in modo provvisorio.
A volte il silenzio pare la cosa
migliore, per esempio dopo pranzo, o anche dopo cena, però pare che la gente ne
faccia sempre più a meno, come se questo silenzio facesse paura, come se
dovessero riempire ogni parte vuota, temendo che qualcun altro, o
qualcos'altro, lo potesse fare prima di loro e magari in una maniera che loro
non vogliono.
Gli animali non parlano e quando
anche si esprimono in qualche maniera, non hanno questa caratteristica e mi
garbano perché non vanno dietro a mode stupide, ammettendo che esistano quelle
che non lo sono.
Dal punto di vista puramente
antropologico, da una vita anch’io cerco di capire me stesso attraverso gli
altri, l’uomo attraverso la donna, l’umanità confrontandola con gli animali.
La filosofia di vita è un
argomento tanto vasto che a volte non si sa cosa dire, come iniziare e direi
persino proseguire. La mia attuale è semplice: vivere senza aspettare un domani
per godersi quello che posso assaporare oggi, senza farsi mettere i piedi in
testa, ma non metterli nemmeno a nessuno. Non si prevede la presenza costante
di persone o più in particolare di donne. Animali sì, cani e gatti.
Cerco di capire il mondo nelle sue
varie manifestazioni ma senza ossessionarmi, senza farne un caso personale.
Guardando un po’ indietro, fino a non molto tempo fa, si prevedeva la presenza
di una moglie, quando la quale se n’è andata, non ho voluto cercarne un’altra,
ero già vecchio. I gatti anche non erano contemplati, ma oggi sono una colonna
portante della mia esistenza. Per la loro vigile attesa sorniona e per
l'affetto che dimostrano costantemente, ma senza esagerare. I cani spesso
strafanno, specialmente quando sono giovani, ma va bene così, lo sappiamo e ci
siamo preparati, l’affetto che proporzionano compensa abbondantemente.
Facciamo un altro passo indietro
per scoprire che la libertà ha dettato sempre i miei di passi e anche quando
esagerava, il suo traboccare non mi è sembrato eccessivo, era considerato tale
dagli altri, magari non me lo dicevano, eppure si notava a volte, a voler
proprio farci caso.
La resistenza è un’altra voce
importante, dettata in seconda o terza battuta dalla libertà, per cui resistere
a una società che ti vuole dare un sacco di roba che non ti interessa, in
cambio della rinuncia a quello che ti piace. Società che ti vuol far pagare un
prezzo assurdo per un servizio che non ti darà, o se te lo dà è sempre più
apparente che efficiente.
Vivere fuori dalla società ha il
suo prezzo, ma che può essere limitato o estinto, se la si considera una
calamità naturale e si vive al margine, in una specie di penombra, visto che il
protagonismo non ci interessa proprio.
Bisogna scegliere, non si può
prendere tutto, ma la maggior parte verrà separato e accantonato in maniera del
tutto automatica, semplicemente seguendo le proprie idee, anche e soprattutto
nei fatti.
E le parole?
Quelle a volte scappano fuori
senza volere, ma per coloro a cui noi vorremmo piacere, sono i fatti che
parlano, le azioni o la loro passiva mancanza, nelle situazioni in questione,
di volta in volta.
La differenza è sottile, ma
l’imperfezione è lodevole proprio perché ci fa capire tante cose, tra cui il
meccanismo delle stagioni, delle giornate e delle ore, insomma la ripetizione,
forse necessaria per poter distinguere tutto quello che fa capolino, anche solo
per un secondo.
Chi ama la montagna potrà capire
che vivere sul crinale di un circostante popolare livellamento e
involgarimento, richiede quella fottuta sensibilità, forse poco pratica e
perfino dolorosa per tanti, ma che vale la pena, per me e pochi altri,
nell’alternarsi di effimere eppure forti folate di gioie quotidiane.
LA SOFIA DEL FILO
L’immagine di Dio,
lassù in cielo, in mezzo alle nuvole, affrescato o dipinto sui quadri in
chiesa, mi è parso sempre qualcosa di affascinante, diciamo che per i primi due
o tre anni di catechismo sono stato - almeno teoricamente - un buon cristiano.
Dopo la prima comunione e la cresima, che all’epoca si celebravano nell’arco di
poco tempo, le cose mi quadravano già meno.
Per me la natura è
sempre stata una cosa grande e bella, profonda e misteriosa, piena di fascino e
di significato. Una volta, per esempio, il temporale per me era molto più
spaventoso di adesso, perché non sapevo spiegarmelo; ora ne ho un’idea meno
vaga e non mi fa paura. Sono nato in campagna e lo studio del comportamento
umano sarebbe diventato necessario dopo.
È stato un bene che io
sia cresciuto in un manicomio, perché presto o tardi quella sarebbe stata una
cosa da affrontare e facendolo subito mi misi in avanti con gli studi. Ognuno
di noi cammina a un passo dalla pazzia, anche se non ce ne rendiamo conto,
basta poco.
Solo molto tempo dopo
appresi che la rigidità porta alla rottura, che quella che noi chiamiamo
società è assai rigida, piena di regole apparentemente fini a sé stesse, ma in
verità utili ai privilegiati e molto meno alla collettività. La nostra società
è molto più moralista e conservatrice di quello che è necessario, assai di più
di quello che sembra, assai di più di quello che noi dovremmo sopportare.
Dentro questa
trappola, la responsabilità e quindi il lavoro, trasformano i bambini in
uomini, pur rimanendo degli eterni principianti, perché il mondo cambia, perché
è troppo complesso, perché le regole valgono principalmente per chi non può
sfuggirgli.
Da piccolo anche la
scienza mi era abbastanza oscura, ma avevo un’idea, seppur vaga, di cosa
potesse significare quando gli scienziati, alla televisione, dicevano che il
vino faceva male e il giorno dopo, invece, che faceva bene, magari senza
volerlo, mi confondevano le idee e non solo a me.
Il nuovo prete del
Quercione senza volerlo mi tolse qualche dubbio, cacciando tutti i bambini dal
campetto di calcio, sotto la collina dove sorgevano la chiesa e l’adiacente
canonica. Quando ci chiamò per servire alla processione della settimana
seguente, non so se ci fece caso, ma c’erano alcuni bambini che non avevano
risposto, che poi sarebbero scomparsi per sempre anche dalla messa.
Qualche anno prima, io
e mio fratello Umberto, avevamo frequentato l’asilo delle suore, a S.Marta in
Collina e non avevamo mai preso tante manate, scappellotti e stintignate,
specialmente dalle sorelle più
giovani.
Mia madre era credente
e anche relativamente praticante, affiancata da mio padre che invece criticava
la religione e la chiesa, andava alla messa forse anche per far piacere a lei,
ogni tanto, magari a Natale. Eppure lui aveva due amici preti, con i quali
andavamo anche in vacanza.
Ho sviluppato di conseguenza
la tendenza a cavalcare il dubbio, la gente lo teme e lo evita, pur se
apparentemente scomodo stimola a riflettere, a non fidarsi degli stereotipi, a
non dare mai niente per scontato.
Da bambini ci hanno
insegnato che mentire è peccato, la nostra cultura cattolica però mostra
persone che vanno alla messa la domenica e fanno cose orribili durante la
settimana. È normale che un povero disgraziato poi cresca confuso, attorno è
tutto un fiorire d’inganni.
Quando ero piccolo non
ci pensavo, ma con il passare del tempo la riflessione mi è apparsa come la
soluzione migliore, per adattarmi meglio al mio ambiente, ma anche per saper
mettere in pratica quel che pensavo, quello che imparavo vivendo.
A che cosa può servire
una filosofia di vita nella società moderna, dove ciò che non è proibito è
obbligatorio, dove la libertà del cittadino è strozzata dalle norme elementari
di sopravvivenza della società stessa, che rispetta le regole economiche e
morali, molto meno quelle di un dimenticato o forse mai conosciuto libero
arbitrio?
Direi che è utile per
saper distinguere, in funzione della situazione del momento, o nel corso del
tempo, più a lungo termine, saper ragionare per agire di conseguenza. Non per
avere ragione, in una qualsiasi discussione con gli amici, ma per capire la
realtà.
Mi accorgo di aver
sempre avuto di una grande libertà relativa, rispetto ai bambini di oggi, ma
anche di altri coetanei della mia stessa infanzia. Mio padre però mi obbligava
quasi a viaggiare, in vacanza, anche all’estero, il che non mi piaceva molto,
al momento di partire, ma che naturalmente mi aprì gli orizzonti. Non mi
rendevo conto, ma ora lo riconosco e ne ringrazio i miei genitori, per la loro
scelta di voler vivere sempre in campagna.
Ringrazio anche la
fortuna di aver potuto crescere in quel periodo, ormai lontano anche
idealmente, in cui tutto aveva una dimensione molto più umana di adesso.
Sono certo che hanno
segnato anche la mia grande volontà di esplorare sempre mondi nuovi, di cercare
costantemente le novità, di vivere sempre in prossimità della natura, di
seguire con piacere le stagioni e i fenomeni dell’atmosfera. Più m’interesso
alla vita, più la vita s’interessa a me, questo l’ho imparato abbastanza
presto.
L’entusiasmo è
necessario, per tutto quello che facciamo. E' importante farcelo piacere, senza
fingere.
Avere uno spazio
intorno aperto a trecentosessanta gradi però può anche essere motivo di paura,
tanto tempo a disposizione e un orologio che ci possa far sentire piccoli, nei
secoli dei secoli, può dare una sensazione di insicurezza. Riempire lo spazio
di cose fa sembrare il tempo meno pericoloso, le azioni tutte attaccate alle
altre ci impediscono di pensare. Ma è solo una trappola che ci costruiamo
giorno per giorno, mattone su mattone.
Un essere umano per
mantenersi in salute mentale, in ogni porzione di vita, denominata giornata,
dovrebbe avere divertimento, riposo, compagnia, solitudine e riflessione.
QUINDICESIMA
PARTE
IL
PRESENTE, DETTO ANCHE ATTUALITÀ
L'obbiettivo
del nostro sforzo costruttivo di oggi potrebbe essere il dosare le energie, per
arrivare a mantenere il buonumore con cui ci siamo svegliati fino a sera e poi
andare a dormire in santa pace, cosa che non ci succede mai e stiamo cercando
di capire il perché.
A
ben guardare dovrebbe essere un misto di eccessiva sensibilità, con incapacità
di cambiare marcia al momento giusto, più una scarsa abilità a livello
filosofico di accettazione dei fenomeni circostanti, tipo musica alta della
vicina ciccionella o eccessivo calore umido brasiliano, condito da un creativo
ventaglio di insetti pungenti.
Però
dormire bene è anche decisivo e fondamentale come pure l’alimentarsi senza
strafogarsi di formaggi o carne, può essere determinante, buttare giù la roba
senza masticare e distrarsi con pensieri e argomenti per niente urgenti ma
appassionanti, che quando si guarda la zuppiera è diventata improvvisamente
vuota e non ci si ricorda nemmeno dei sapori eventuali.
Certo
l'avere a che fare con la gente può causare scompensi notevoli, ma noi abbiamo
ridotto al minimo questo contatto e quando parliamo con qualcuno, poi ci piace
così tanto, non come in precedenza, quando dovevamo farlo sempre e per forza,
allora non ci capitava.
Ci
sembra di essere come quei vecchietti, che non avendo nessuno con cui parlare,
attaccavano discorso con noi, che non ne avevamo nessuna voglia e non ci
lasciavano andar via, affittandoci a ore e senza pagare alcuna pigione.
Eravamo
noi che non ci accorgevamo che invece era una bella cosa e che, anche se erano
ripetitivi e invadenti, c'era una certa dose di familiarità e complicità che
poteva risultare divertente e perfino istruttiva?
I
nostri cani, per esempio, ci ascoltano attentamente anche se non capiscono
niente di quello che diciamo, c'hanno una pazienza che potremmo invidiargliela.
I nostri gatti gioiscono del solo stare vicino a noi. Non hanno premura, non
devono lavorare, non hanno un mucchio di cose da fare, se non stendersi al
sole, quando è freddo, e riposare all'ombra, dove c'è un buon passaggio di
brezza, quando è caldo.
Chi
ha inventato l'orologio e con quello anche l'ansia siamo noi, però alla fine
non ci garbano così tanto, ma non sappiamo tornare indietro.
IL FILO DI SOFIA
Una volta la Terra era una
nuvoletta di gas addensato come quelle che possiamo vedere oggi con il telescopio.
Ha girato per qualche milione di anni attorno al sole, senz'acqua e senza vita.
Prima ancora c'erano solamente ignote e strane stelle giganti e corpi celesti
più piccoli che turbinavano, tra le nuvole di gas nello spazio incommensurabile
dell'infinito.
Noi umani, nel nostro piccolo, per
quanto ci possiamo rendere conto, non riusciamo a capire l’idea di un universo
infinito e che oltretutto si stia ulteriormente dilatando. Ci siamo sempre
dovuti accontentare di spiegazioni parziali, d’ipotesi, di cose dette da non si
sa chi. Sapere di non sapere è già un elementare principio di saggezza, eppure
sfugge ai più.
L’uomo da sempre vuole capire i
fenomeni della natura, mettere in discussione gli dei, affrontare tutte quelle
questioni immediate, alle quali poi, non ha trovato risposte definitive, pur
facendo notevoli progressi in nome di una verità comunemente accettata. In
seguito si è dedicato, in mancanza di meglio, a cercare di risolvere le
questioni della società, delle tendenze umane all’interno di comunità sempre
più popolate.
La filosofia, a partire dagli
inizi, aveva accompagnato sempre le esigenze umane, a seconda della località in
cui si trovava e del tipo di vita che la gente faceva, della storia che aveva
attraversato per arrivarci. Noi piccoli e insignificanti esseri umani abbiamo
sempre avuto la necessità di spiegare i fenomeni della natura, per questo sono
stati inventati i miti, perché a quei tempi lontani non esisteva la scienza.
Tecnicamente nessuno lavorava, ma
si spostavano dove c’erano i frutti del suolo, il cibo.
La terra però è rimasta della
stessa grandezza e la popolazione è diventata sempre più densa, le foreste
assai meno numerose e fitte, i mari depredati dei pesci senza alcun rispetto
per la riproduzione, così per le specie animali.
Secondo me ci si poteva
organizzare meglio, non lo so, ma forse ormai è tardi. Intanto il lavoro è una
violenza alla quale si potrebbe trovare qualche sostituto, perlomeno parziale,
se non si continuasse a far troppi figli, se non ci fosse quest’idea di accumulare
capitale, di sottrarre mezzi agli altri con vari trucchi.
Una volta c’era meno gente, ma il
meccanismo iniziò a svilupparsi in quel modo, da quando si abbandonò il
nomadismo per abbracciare l’agricoltura, si costruirono le prime città e nacque
la politica, la guerra e anche le malattie proliferarono.
La chiesa, che ha sempre avuto una
risposta per ogni domanda, diceva che il Dio era lo stesso per tutti i popoli,
solo che aveva nomi differenti, per via della lingua, della differente cultura.
Spiegavano anche perché in Grecia
ne avessero così tanti, Dio corrispondeva a Zeus e gli altri dei erano i santi.
Nel 700 avanti Cristo, però Omero
ed Esiodo avevano già messo per scritto il tesoro della mitologia greca.
Senofane, nato verso il 570 A.C. diceva che la gente creava gli dei a sua
immagine, sia nell’aspetto fisico che nella maniera di comportarsi e perfino
nel modo di vestire.
I primi filosofi capirono che la
loro missione era prima di tutto criticare gli dei, dicendo che erano
capricciosi, vili e traditori esattamente come gli esseri umani,
successivamente si iniziò addirittura a mettere in dubbio la loro stessa
esistenza.
Socrate era una persona rara, di
quelle che credono in quello che pensano e non solo lo dicono apertamente, ma
lo mettono anche in pratica. Attorno a lui tutti hanno sempre mentito per
seguire quello che gli pareva più comodo, da sempre hanno contraddetto sé
stessi, all’occorrenza negando ogni evidenza.
Se nell’antica Grecia i lavori
materiali erano tutti svolti dagli schiavi, i primi filosofi, non avendo troppo
da fare, iniziarono tranquillamente a pensare alle prime cose che gli venivano
in mente, che erano certo più legate ai fenomeni della natura che al
comportamento umano.
Gli esseri umani, per quanto
cercassero già un po’ di allontanarsene, fin dai primordi avevano a che fare
direttamente con la natura e questo lo avevano più chiaro loro di noi, ai
nostri tempi moderni, distratti da mille cose superflue.
Perciò i primi filosofi si
facevano le loro belle domande, infantili ma forse anche fondamentali: da dove
viene questo, da dove arriva quell’altro, questioni che avevano relazione
immediata con tutte quelle trasformazioni e fenomeni naturali che poi la
scienza, senza fretta, ha spiegato in seguito.
La filosofia greca, paradossalmente
nacque in Turchia, i primi filosofi svilupparono le proprie virtù a partire da
Mileto, sulla costa mediterranea, allora colonia greca. Talete si preoccupò di
stabilire quale fosse il principio alla base di tutto ciò che esiste. Secondo
lui era l’acqua. Ed è il primo filosofo di cui si abbia notizia, nel sesto
secolo avanti Cristo, che non sapeva ancora di esserlo, ma era uno che non
lavorava, viaggiava, si chiedeva il perché delle cose e tanto bastava. Prima di
avere i primi pensatori proprio sul suolo ellenico, se ne ebbero vari nelle
colonie, tra cui la Magna Grecia, nel sud dell’Italia.
Non per caso apparvero i primi
filosofi laddove non c’era l’obbligo del lavoro, anzi, i cittadini veri e
propri se ne sarebbero perfino offesi se qualcuno lo avesse preteso da loro.
Nell’antica Grecia, grazie anche
agli schiavi che si sobbarcavano tutti i lavori faticosi, si iniziò a pensare
al motivo delle cose, a mettere in dubbio i miti che avevano fino a quel
momento spiegato tutti i fenomeni atmosferici e perciò tutto quello che
riguardava l’origine umana e della nostra terra all’interno dell’universo.
Parlare del motivo di tutte le
cose è argomento infinito e senza soluzione pratica, ma che tutto è connesso si
vede e si sente, purtroppo o per fortuna, c’è anche quello che non si vede e
non si sente, ma esiste.
Separare per capire meglio, come
si è fatto finora, invece serve a non comprendere, la concezione meccanicistica
ormai è superata, ma chi è che
conosce la quantistica?
Ogni tanto ho consultato il
vecchio ma intramontabile Socrate, che non ha lasciato niente di scritto, ma
attraverso il resoconto del suo allievo Platone, invece di spiegare le sue
idee, poneva piuttosto delle serie di questioni, che gli interlocutori si
risolvevano da soli e alla fine davano immancabilmente le risposte di cui lui
aveva bisogno.
Tra le sue perle brillanti di
esperienza terrena mi sono garbate principalmente queste:
Più gente conosco e più apprezzo il mio cane.
Praticare il bene è un affare. Se l'uomo
non lo persegue è solo perché non ha la minima idea di dove si trovi il bene.
Pertanto non è malvagio ma ignorante.
Chi sa che cosa è giusto fa la cosa giusta.
Perciò: Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare.
Detto in altre parole: chi non sa che cosa è giusto, fa la cosa
sbagliata.
Infine porsi le domande, spesso
senza arrivare a delle risposte, comunque mai definitive, che invece scienza e
religione hanno la vana pretesa di darci.
Nato in una provincia lontana
della Cina nel 551 avanti Cristo, uomo di famiglia aristocratica, ma di un ramo
povero, Confucio diventò professore a tempo pieno. Credeva che i nobili
dovessero governare in maniera saggia e umana.
Come la classe dominante Greca,
nella stessa epoca, credeva più nella gerarchia che nell’uguaglianza. Predicava
cortesia, lealtà, umiltà e delicatezza; esaltava la saggezza degli anziani che
avevano molto da insegnare ai giovani. Ben presto, arrivò alla pratica
conclusione che una vita terrena ben vissuta era più importante di qualsiasi
vita da raggiungersi dopo la morte.
Uno dei trucchi di alcune
religioni, tra cui quella Cristiana Cattolica, è dire che sulla terra gli umani
fanno solo una preparazione per lo stato superiore che viene dopo la morte,
approfittando che nessuno poi torna indietro a smascherarle.
Molto più recentemente, circa 150
anni fa, un tedesco di Landshut (Cappello della Terra) tale Ludwig Feuerbach
(Ludovico Ruscello di Fuoco) influenzò assai il pensiero di Karl Marx. Tra le
altre cose, disse che non sono stati gli dei a creare gli uomini, ma viceversa,
che ci facevano troppo comodo per affibbiargli le disgrazie della vita, ma
anche per sentirci sempre protetti e giustificati.
Bertrand Russell, pensatore
inglese di scuola razionalista, nato nel 1872, più o meno quando Feuerbach è
morto, diceva che la filosofia è una specie di terra di nessuno, tra la Scienza
e la Teologia ed esposta all’attacco di entrambe.
Qualcosa di molto vulnerabile,
quindi, sensibile a cambiamenti continui. Ha in sé l’elasticità per cambiare se
stessa, necessariamente rinnovandosi con i tempi e gli spazi, con la routine
quotidiana.
Tutte le altre discipline
funzionano attraverso dogmi, la filosofia, invece si deve sempre ridimensionare
e rimettere in discussione. Per me, dovremmo fare così anche noi, nella nostra
pratica quotidiana.
A volte il nostro bisogno non è
effettivamente ciò che noi crediamo che sia necessario, ma piuttosto quello che
la società pretende da noi. Una persona pratica ha però l’occasione di
intervenire per cambiare quello che tutti credono normale e fisiologico, per
forgiare la sua personale maniera di interpretare la vita. Una volta che si
accorgesse di aver sbagliato, potrà cambiare ancora, insomma: l’errore è
regolare e permesso, non è affatto un disonore.
L’onore, in sé, è una cosa indotta
da una società retrograda e perciò, come spesso accade, inutile o perfino
deleteria. La società insegue modelli di potere, di competizione, tutto in nome
di economie e relativi gradini di status simbolici, che invece di favorire il
cittadino lo tarpano.
Individualmente però noi possiamo
scegliere di evitare le regole della società, spesso sono proprio quelle che ci
conducono verso il baratro, la collettività è condannata ad essere carne da
cannone, da sempre. L’ideale di patria è un’ennesima fregatura, i soldati non
hanno mai capito perché combattevano le guerre, sennò non l’avrebbero fatto.
Qua, oltre l’oceano, ho trovato
quello che viene definito l’unico filosofo brasiliano vivente, Oswaldo Porchat
Pereira, che si definisce uno Scettico Tranquillo ed ho scoperto che mi
identifico con questa corrente, empirica e contraria ai dogmi.
Nel frattempo mi sono sposato due
volte, ma con donne diverse, ho capito che il mio amore per una femmina avrebbe
poco a che fare con la bellezza fisica, ma molto con l’amicizia, un affetto
pratico, un aiuto reciproco, non solo spirituale.
C’è troppa solitudine in giro per
il mondo, per questo apprezziamo una buona compagnia, qualcuno che semplifichi
invece di complicare. Siamo soli dalla nascita alla morte, ci dovremmo essere
abituati, invece no. Pensiamo poco a quello che abbiamo e tanto, oppure troppo,
a quello che ci manca.
Quello che più mi piace dei miei
cani è che non parlano. D’inverno, quando arriva la sera, è bello accendere il
caminetto e approfittare del silenzio intorno, appena rotto dallo scoppiettio
della legna sulle fiamme. Gli occhi liquidi di questi angeli pelosi dicono
tutto quello che c’è da dire, li accarezzo lentamente, accompagnando il soffio
del loro respiro.
I cani imparano da piccoli che
correre dietro alla loro coda gli fa girare la testa, ma gli uomini no, e la
coda non ce l’hanno nemmeno più, da millenni.
CONSIDERAZIONI
(MAGARI SCONSIDERATE)
“Qua
ho avuto tre macchine in 28 anni. Con il caldo e troppi semafori sono messe
duramente alla prova. Una batteria dura dai tre ai due anni. Ora c’ho una Ka
del 2000, funziona ancora bene, anche se all’esterno sta perdendo i pezzi in
plastica, che con il clima e la polvere di qua si scioglie abbastanza
rapidamente. Tanto la uso solo per andare al supermercato. Ogni tanto, nel
mezzo del traffico, qualcuno mi avvisa che il parafango destro sta cadendo, io
gli rispondo: magari! Ma sono anni che voglio tirarlo giù e non mi riesce.”
“È
normale.”
“Infatti, succede, ma poi passa.
Ti dirò che per diversi anni sono stato specialista nel perdere chiavi e
portafogli, ultimamente mi sono perfezionato sugli occhiali. Il segreto è
pensare sempre ad altro mentre fai le cose, in questa maniera riuscirai ad
estrarti completamente dal momento attuale e a dimenticarti di quello che
hai appena fatto, il vantaggio è che ritrovo sempre gli oggetti che
ho perso, ma forse potrei fare cose più costruttive. Comunque ora di tempo ce
ne ho assai.”
“Il tempo spesso ci pare la misura
di tutto.”
“Ecco.
Appena venduto il Caffè Voltaire c’è stato quel momento in cui buttai via
l’orologio, davanti alla chiesetta di Canaiola, non sapendo quanti ancora ne
avrei dovuti comprare, o farmi regalare, ma quello era un simbolo, il tempo
marcato dalla schiavitù di dover lavorare rispettando degli orari.
Ora
potrei davvero buttarlo via, ma mi serve quando vado dal dentista, perché a
volte ci vado a piedi. Per il resto passo il tempo davanti al computer, l’ora
esatta e internazionale è sempre lì a disposizione, la guardo per abitudine,
per organizzarmi, forse perché in qualche misteriosa e frammentata maniera,
sono ancora un essere umano. E comunque me ne dimentico spesso e volentieri.”
“Non
è scomodo vivere come un extraterrestre sulla terra?”
“Non lo so, ma vivere altrove non
si può e poi come sono lo devo a tanti fattori diversi, la mia storia personale
insomma.”
“Cioè non hai avuto scelta?”
“Forse ce l’ho avuta e non me ne
sono accorto, oppure non ne ho saputo approfittare, ma quando mi guardo intorno
capisco che sono esagerato anch’io, dalla parte opposta, ma non invidio certo
questi qua che sembrano fatti con lo stampino, per adeguarsi a certi stili di
vita che non mi piacciono e non mi sento assolutamente in errore a rifiutarli.
Forse è questione di storia personale, va bene, ma che è fatta di tante piccole
cose distribuite o ripetute durante gli anni. Persone che si sono incontrate o
situazioni che anche non volendo si sono create come conseguenze o proiezioni
delle stesse.”
“D’accordo: facciamo il punto
della situazione odierna allora.”
“Dopo la morte di mamma, Battiato,
Camilleri e De Crescenzo secondo me è iniziata una specie di era del
cinghiale bianco se Francuzzo me
la prestasse, a livello di espressione. Infatti subito dopo anche Maria
Dina se n'è andata e allora tutto nel giro di poco tempo è cambiato. Per me
questi non rappresentavano il passato, ma il presente e il futuro, piuttosto, quello che mi piaceva,
per intendersi. Ora mi siedo qui e piango, rido di quello che è il mondo, la
vita e l'ironia dell'esistenza.
È
arrivata Tamara ormai da più di sei mesi e sto concentrando tutto il mio amore
su di lei. No, c'è anche Franco, ci sono più che mai Gina e Paco.
Anche il tempo è impazzito, quello
però non da ora, questa zona del mondo è sempre stata così: un giorno ci sono
31 gradi e il seguente 13, poi 29 e dopo 9. Insomma una logica c'è, ma
piuttosto buffa. Per esempio d’inverno ogni due giorni c'è un'estate di San
Martino. Ora è estate ma per fortuna ogni due o tre giorni ridiventa freschetto
anzichenò.”
“Conclusione?”
“Boh? Mi viene in mente che ho
passato la prima parte della mia vita alla ricerca di compagnia e amore, la
seconda a cercare di conviverci e di capire, la terza, quella attuale a tentare
di vivere da solo.
Le
amicizie e gli amori finiscono, è doloroso, ma chi ne è il colpevole? Tutto al
mondo inizia e finisce, niente dura in eterno. Qui di responsabilità esterne,
se ce ne sono, direi che sono frazionate e le percentuali sono oggetto di studi
e di interpretazioni.
Il mondo è cambiato, d’accordo,
anche noi crescendo siamo diventati differenti da come eravamo da bambini, o
anche da adolescenti, figuriamoci poi da adulti.
Una tra le mie preoccupazioni è
stata quella di cercare di migliorarmi come persona, ci sono riuscito in minima
parte, forse perché la pratica è molto più complicata della teoria, per me come
per tutti, ma sapere almeno come vorrei essere è già qualcosa.”
“E il Brasile ti è rimasto caro
oppure no?”
“Certo, mi ha accolto come un
figlio. Qui è un Brasile differente dagli altri, però, ce ne sono diversi.
Non solo in Brasile ci sono allagamenti
e frane, ma qua si può rimanere giorni senza luce telefono, acqua, internet e
questi guasti si intensificano nel cambio di stagione, principalmente da
primavera all’estate ma anche dall’estate all’autunno.
Storia a sé fa il vento che
sbattendo i rami degli alberi provoca disagi annunciati, essendo il nostro
stato del Rio Grande do Sul uno dei più turbolenti per via del clima
subtropicale, correnti di venti freddi e patagonici si scontrano con quelli
caldi dell'Amazzonia e questo significa variazioni violente e improvvise di
temperatura. L’umidità d’inverno è così forte che spesso è più freddo in casa
che fuori e l’acqua della logica condensazione scorre sulle pareti.”
“E in comune con l’Italia e con il
mondo cosa c’è?”
“Oggi
abbiamo ovunque instabilità e turbolenza ottime e abbondanti, molta oppure
troppa informazione, perlopiù falsa e tendenziosa. Non c’è nemmeno più bisogno
di un bar, tutti vogliono opinare su tutto, specialmente se non hanno idea di
cosa sia e non lo vogliono nemmeno sapere. La verità è solo teorica, questa
vecchia sconosciuta è sempre sulla bocca di tutti, ma nella pratica è
regolarmente ignorata e bistrattata. Una volta era più per forze maggiori,
oggigiorno è più una scelta incosciente, ma pur sempre si tratta di capire che
si può anche scegliere, magari sforzandosi un po’.”
“Il
futuro ti spaventa oppure no?”
“Non
ci penso più tanto. Lo so, sono solo e sulla soglia della vecchiaia e questo
potrebbe spaventare, ma ora comincio a sentirmi meglio rispetto all'argomento luminose prospettive per il futuro. Ho
comprato una TV grande e mi vedo un film tutte le sere, ho ricominciato a bere,
ma poco e saltuariamente. Ho perso Agata, la cagnetta che stava con me, cioè
anche con noi, da tredici anni. Dieci giorni dopo ne ho presa un'altra, cucciolotta
di dieci mesi, Tamara. Scrivo tutti i giorni ma non tantissimo, cerco di fare
le pulizie in casa e il giardinaggio nel terreno intorno, che non è
propriamente un giardino, ma una specie di foresta con il pavimento di pietra e
anche un piccolo quarto di anfiteatro, con una bella vista sul fiume e la
collina di fronte con parti di foresta vergine.
Insomma
tutto questo c'era anche prima, quello che è cambiato è che ora sto cercando di
trovare di nuovo il mio spazio in un mondo che mi piace sempre meno. Forse però
sono più saggio, almeno un po', considero che finora ho avuto una vita
interessante e abbastanza piena.
Amici
qua non ne ho, ma attraverso Facebook ho contatti con gente, per lo più della
nostra disastrata ma bella penisola, che pare proprio voglia, suo malgrado,
entrare in guerra.
Vivo
di ricordi romantici, scarico film in internet, pubblico ogni giorno su
Facebook una pagina della storia della mia vita, una vita di nicchia, storia
della geografia e viceversa.”
“Pensi
anche alla situazione generale del mondo eccetera?”
“Vado a fasi, dipende dagli
stimoli attorno. Ora però c’è più confusione e attualmente questo mi ha portato
a valutare e a comprendere quanto male stiamo al mondo e quante poche
possibilità abbiamo di migliorare, se non cambiamo totalmente la nostra maniera
di vivere. E ritorna sempre un discorso filosofico, per me, oppure noto troppo
la sua mancanza negli altri.
A livello collettivo è sufficiente
abbandonare ogni progetto e risolversi a livello individuale. Essere un artista
mi aiuterebbe, ma io non lo so se sono un artista, a volte però mi sento come
se lo fossi. Voglio dire che ho dell’immaginazione, forse anche più del
necessario, visto che è una cosa non più apprezzata come in passato.
Ricominciare tutto da capo a
sessantaquattro anni? Ci sono dei lati positivi anche in questo, forse pochi,
ma andare per esclusione è sempre stata la mia più frequente tattica e maniera
di vivere.
Effettivamente si rinuncia a tante
cose diventate inutili o impossibili, anche per via dell’età, ma non solo.
Oltrepassata la grande tristezza
iniziale, non so ancora se essere lasciato dalla mia compagna, secondo la legge
brasiliana anche moglie, sia stato un bene o un male. Ultimamente avevamo poca
pazienza l’uno con l’altra e viceversa, poche cose in comune, sempre meno.
Certo mi ha sorpreso, non me lo
aspettavo, pensavo di finire la mia vita insieme a lei, legalmente sposato da
non so quanto tempo, ma convivente da quasi vent’anni. Credevo che fosse solo
un momento difficile, come succede a tutti, prima o poi, non abbiamo mai aver
avuto grosse crisi. Vent’anni passati in cinque minuti, non mi sono mai
annoiato, questo di sicuro. Ho cominciato a pensarci anche troppo, mentre lei
era ancora qui e cercava di organizzarsi per la sua vita futura.”
“Allora:
la nostalgia fa male o bene?”
“Dipende. Per me il momento della
vita in cui si tirano le somme è arrivato, se non altro quando si ha molto
tempo per scrivere e di conseguenza leggerlo, cosa che può sorprendere anche
chi l’ha appena messo giù, se non lo avessi fatto non ci crederei.”
“È successo anche a me, qualche
volta.”
“Quando il passato non vuol
passare si ragiona in una maniera, ma quando è già lontano, laggiù, tutto
diventa romantico, anche le cose che a quei tempi, lontani e remoti, parevano
piccoli pezzi di routine, senza ancora alcun particolare valore affettivo.”
“Ma per chi non ha memoria, quella
gente che non si ricorda niente o quasi?”
“Ne conosco alcuni, secondo me è
gente che non ricorda perché ha scelto di dimenticare, perché vive in una realtà
attuale che non gli piace. Sceglie, inconsciamente di dimenticarsi, di non
voler capire perché è arrivata all’oggi, frutto di un ieri che non hanno saputo
comprendere, per poi magari agire di conseguenza. Accettano tutto
meccanicamente, senza fare pause, senza fermarsi a pensare, attaccano il sonno
alla veglia e la routine per loro non è un peso, è l’unica maniera di vivere
che conoscono.”
“Allora credono nel destino?”
“Sì… o forse no. Non se lo
chiedono proprio, secondo me, non hanno alcuna filosofia, perché quella avrebbe
bisogno di un confronto, di atti e situazioni passate, per paragonarle al
presente, per scorgere un futuro.
Stamattina stavo guardando un
documentario che avevo registrato su Fabrizio De André, a un certo punto dice
che quello che non capisce gli fa paura. Il che è normale, capita un po’ a
tutti, ma io direi che la gente si rifiuta di cercare di capire quello che non
gli piace, lo liquida subito, lo mette da parte, ma forse è proprio quello che
ci si dovrebbe sforzare di capire di più. Non ci si può nascondere dietro al
solito dito, anche se è un pollice o peggio ancora un alluce. Sembra scomodo,
ma tentare d’ignorarlo è ancora meno confortevole, le cose vanno guardate in
faccia, per brutte che siano. Anzi a maggior ragione.”
“Da
scrittore hai un tipo di vita da artista, piuttosto sregolata, nonostante tutto
e fuori dai soliti schemi conformisti, ma come sta andando ora da vecchietto,
non è un po' più complicato?”
“Va bene che non rispondono a
parole, ma dentro di me ci sono già troppe persone, frasi e parole. La
complicazione spesso viene dagli esseri umani, avendoci pressoché rinunciato,
chiacchiero e discuto con i miei due cani e due gatti. In alternativa mi sento
più apprezzato e compreso da loro che da tutti quelli che pur parlando erano
troppo distratti, non mi ascoltavano e soprattutto non gliene fregava tanto di
capire o di interpretare, troppo distratti dai loro obbiettivi, dal lavoro,
dalle conseguenze della loro storia personale e via discorrendo.”
QUASI TAGLIATI FUORI
Da
casa mia si vede il fiume e intorno c'è una bella cornice di verde, la natura è
selvaggia e invadente, gli opossum vengono regolarmente ammazzati dai miei
cani, una volta nel mio terreno di 720 m2 vivevano anche dei Lagartos che sono
lucertoloni di una certa stazza, possono arrivare anche a un metro di
lunghezza.
Chi
vive qui non ha scelto per motivi di amore alla natura, in tanti casi, ma
perché costa meno. Una volta Vila Nova era un villaggio poi è diventato un
quartiere di Porto Alegre, ci sono favelas nascoste intorno e qui quasi tutti
hanno un allacciamento clandestino alla luce elettrica.
Un
giorno diventerà un quartiere residenziale, forse, ma ora chi vive qui è gente
che lavora parecchio e appena può festeggia mettendo la musica ad alto volume.
Attorno
a me ci sono dei vicini normali, credo, almeno per questa parte del Brasile,
dell'estremo sud, e comunque di un quartiere decentrato e pressoché campagnolo.
Sono io che non sono tanto normale qui in giro, ogni tanto è bene ricordarselo,
forse non lo sarei nemmeno in Italia, dove sono nato e cresciuto fino più o
meno ai 35 anni.
La
salita per arrivare quassù sul crinale della collina è ripida e foderata di
parallelepipedi di cemento, nella mia stradina invece è sterrata e quando piove
si formano buche e avvallamenti considerevoli.
Una
volta la strada ha ceduto e c'era un buco in mezzo, che cresceva ogni giorno,
sulla salita pavimentata. La fogna
pubblica di sotto, a cui siamo tutti allacciati clandestinamente, si era aperta
finché un enorme camion della birra Brahma ci si è incastrato e ha bloccato il
traffico, così dopo mesi di latitanza sono venuti ad aggiustarlo.
Ci
sono dei grossi uccelli che vivono sulla collina di fronte, che ci divide dalla
parte della città più fittamente abitata, che essendo considerata zona verde è
ancora ricoperta di foresta vergine. Si chiamano Jacù, sono grossi più o meno
come galline, però volano e ogni mattina formano un numeroso corteo
starnazzante che gira su nel cielo per una mezz'ora o più.
In
una certa epoca un rapace grande come un piccione si era stabilito dentro casa
mia e volava per le stanze non facendo certo attenzione a dove sporcava, la
notte usciva e si metteva sul punto più alto della casa, oltre gli otto metri,
e fischiava che a non saperlo sembrava una persona umana, dormire era un problema.
Ho
cercato di dissuaderlo in tutte le maniere, alla fine ho comprato una carabina
ad aria compressa e gli ho sparato, colpendolo più volte di striscio, ma lui
non la capiva, magari pensava che fosse un gioco, finché l'ho dovuto ammazzare.
Più
volte pipistrelli e uccelli più piccoli di quest'ultimo hanno svolazzato
dentro, forse entrando per sbaglio. Un uccello abbastanza comune qua veniva a
beccare i vetri di una finestra e ci stava delle ore. Non voleva entrare,
perché se la finestra era aperta la beccava lo stesso, non so se ce l'aveva con
la sua immagine riflessa, forse un disturbo della personalità, insomma anche
lui ha fatto una finaccia.
Nella vita spesso apprezziamo
soprattutto quello che non abbiamo, se poi i desideri si realizzano ci
sorprendiamo di constatare che non erano poi quel granché. Quando ero piccolo
sentivo meglio e di più l'importanza di certe situazioni e cose quando ce le
avevo in quantità limitata e in un luogo lontano da tutto, dove era difficile
procurarsele.
Tutto questo anche se poi questa
lontananza o difficoltà erano solo apparenti.
Per esempio i giornalini di Geppo
o Braccio di Ferro mi parevano molto più appassionanti se li leggevo nel letto
di Mologno, in quella camera freddissima dove potevamo resistere al gelo solo
immergendoci interamente sotto le pesantissime coperte. Le storielle dovevano
essere seguite in un fioco raggio di luce attraverso un piccolo varco tra le
coltri. L'effettiva distanza da un giornalaio era però la stessa di quella normale
di sempre, anche da lì.
A Massaciuccoli si mangiava di
solito peggio che a casa mia. Mio padre faceva dei goulash ignobili, pensava
che fosse sufficiente buttare tutto dentro la pentola e scaldare per un po'.
In seguito, un po' alla volta
imparò a fare degli spezzatini buonissimi, da lui detti firmati, che ci
lavorava dei pomeriggi interi.
Però a quei tempi lì alla baracca
sul lago anche un sudatissimo prosciutto e melone sembrava un cibo sopraffino,
perché per tornare sulla terra ferma si doveva addirittura usare la barca e
remare per un quarto d'ora, venti minuti.
Quassù sulla collina di Vila Nova,
se si rimane senza qualcosa, si deve fare dei chilometri in macchina. Prima
c'era l'alimentari di Tonico, non che c'avesse una grande scelta e spesso i suoi
già ordinari prodotti confezionati erano scaduti, ma per le emergenze anche i
suoi tremendi panini gommosi potevano soccorrerci. Dopo diverse rapine però
Tonico ha chiuso e scendere a valle per noi è diventata l'unica possibilità.
Qualche volta Tonico viene da me a bere qualche birra, se c'è qualche partita
da vedere alla TV, ma raramente. Di solito lo saluto da lontano, quando
entrambi ci troviamo a fare dei lavoretti fuori casa.
La spesa la faccio una volta alla
settimana, stringendo i denti resisto per 10 giorni. La mia vita da pensionato
in uno spazio di 720 metri quadrati si anima di coraggio e soprattutto di
necessità, per scendere nel traffico infernale del quartiere Cavalhada, come se
fossi in missione per conto di Dio.
STAMATTINA
Ci
vuole un’ispirazione per alzarsi dal letto la mattina? Forse sì, necessitiamo
di un valido incentivo per non rimanere lì, se non abbiamo niente di urgente da
fare e questo di solito è sempre stato il lavoro che ci ha fatto staccare dalle
coltri per una vita.
Mio
padre in vecchiaia diceva che si alzava presto, perché se stava a letto gli
venivano in mente le bischerate, cioè voleva dire i cattivi pensieri. Ed è
proprio quello che mi fa alzare ora, quando potrei dormire, io che - come mio
padre - nella rispettiva gioventù eravamo amanti del dormire fino a
mezzogiorno, quando si poteva. Ora all’alba, a volte prima, sono qua a guardare
le stelle e la luna che mi vogliono dare il cambio, hanno già fatto il loro
percorso e se ne vogliono andare a letto.
È
la prima volta che scrivo qua sotto il nespolo, sul tavolino di pietra, con
il nuovo e bruttissimo sgabello in
muratura, da me costruito con quasi una settimana di lavoro, ma solo un paio
di mezz'ore al giorno.
Bacche
grandi come grosse susine, ma più pesanti, cadono al suolo con botte
minacciose, da questo albero enorme, la cui provenienza del litorale dello
stato di Santa Catarina, ne rende difficile l’identificazione. Deve avere una
decina d’anni, forse quindici, è alto più di dieci metri e in qualche modo ci
sono affezionato, forse perché anche lui ha la sua storia da raccontare e ha
fatto intersezione con la mia, da quando lo prendemmo che era pochi centimetri.
C’è
una relativa pace qua oggi, a parte la brezza tra i rami, l'abbaiare di cani
lontani e la solita radio a tutto volume del vicino, uomo tra i più lontani da
me in ogni senso. Formidabile chiacchierone e urlatore, alla radio ascolta
programmi costituiti da voci di gente che parla e urla, si lamenta di rapine e
pericoli per le strade di Porto Alegre. Un fottuto programmino che nella mia
scala di valori starebbe alle ultimissime posizioni, ma che devo ascoltare
tutti i giorni, perché il mio vicino è anche sordo, come tanta gente qui, che
ha fatto per tutta la vita lavori in condizioni assordanti. Si trattava di un autista
di autobus, il che vuol dire stress e traffico intenso, molto rumore tutto il
tempo. Forse era già così anche prima, ma ora parla tanto e non dice niente, al
telefono poi è un massacro di urli e ripetizioni bissate o trissate.
Su
questo pezzo di strada ci sono due sue sorelle in fila, con le relative case e
famiglie, un suo fratello che va in giro a cavallo e vestito come un
tradizionale vaqueiro della pampa, abita qua sotto a un centinaio di
metri.
Provengono
da una cittadina dell’interno dello stato al confine con l’Argentina, ad almeno
trecento chilometri da qui. Ho notato che le sorelle hanno delle facce come la
sua e di suo fratello, con una cornice di capelli più lunghi, però. Non ho mai
visto altrove somigliarsi tanto tra fratelli, in Italia non so perché sono più
differenti tra di loro.
Qui
all’incrocio poi parte una fila di figli e fratelli di una stessa altra
famiglia, questi di origine italiana. Queste due famiglie sono state tra le
prime abitanti di questa zona collinare, ce n'è un’altra ancora, tra le poche
che conosco, sempre di origine italiana, con delle facce che sembrano fatte con
il copia e incolla.
Senza
alzarmi dallo sgabello rossastro in muratura, stacco una foglia di alloro da un
ramo che arriva lì accanto e la annuso. Mi ricorda le ballotte, le
castagne bollite, l’alloro ci veniva messo per aromatizzare. Dicono che fa bene
e ci fanno degli infusi, un mio vicino e amico viene a prenderne ogni tanto per
una parente malata, non so di cosa, e porta via delle sacchettate piene di foglie
e rametti.
Da
qualche mese la mia filosofia si è semplificata, è diventata tirar a far notte,
andare a dormire presto, spegnendo la luce subito appena tra le lenzuola.
Il
caldo dell’estate è provvisoriamente finito da qualche giorno, ma questo fresco
di stamattina, poi nel pomeriggio va già oltre i venticinque gradi e verso i
trenta. Siamo in autunno ma è pur sempre un autunno brasiliano, anche se qui
stiamo giù a sud, tra Argentina e Uruguay e il clima è quello subtropicale,
pieno di fottute turbolenze di venti freddi che vengono dall’Antartide, poi si
scontrano con quelli caldi dell’Amazzonia e quindi dell’Equatore.
Nella
vita bisogna anche sapersi orientare, figurarsi che recentemente ho scoperto
l'effettiva mia posizione geografica brasiliana, parlo della mia casa,
esposizione al sole eccetera.
Ed
è l'opposto di quel che pensavo.
I
venti provenienti dall'Antartide e quindi da sud-est, tra cui il famigerato e
violento Minuano, che sono quelli che portano normalmente la pioggia, che io
vedo arrivare sempre dal fiume e da lontano, fino a sentirne l'odore e poi il
rumore, arrivano invece da nord-ovest.
Avrei
dovuto capirlo dal fatto che il sole tramonta di fronte a me, allora lì c'è
l'ovest, allora a destra c'ho il nord, a sinistra il sud e dietro il restante e
logico est.
Quando
ci sono le tempeste noto pure che i venti qua sopra girano, essendo il punto
più alto del crinale in questione.
Sto
guardando il mondo e la vita attorno con la lente, prima le vedevo passare
velocemente al mio fianco, ma non avevo tanto tempo e ora ce ne ho troppo,
insomma in qualche modo si esagera sempre.
A 12.000 Km DA CASA
Recentemente ho notato
che considerando la vita e la gente al microscopio, come sto facendo da qualche
tempo, quello che mi piace sono più le - per fortuna - inevitabili e purtroppo
rare eccezioni, che invece la solita ripetizione di cose simili e stereotipate,
come è d'altronde quasi ovvio.
Le persone gentili qua
in Brasile sono fin troppo comuni, è proprio una maniera di essere che le fa
vivere in questa maniera e rarissimo è vedere qualcuno che si arrabbia, o che
si comporta in maniera scortese.
L'ottimismo anche è
una cosa che si nota poco, perché tutti, dal più ricco al più povero, dal più
filosofo al meno, sono animati ma anche schermati da un'incrollabile fede, non
solo cattolica e cristiana: che bisogna solamente ringraziare insomma, per
quello che abbiamo e non pensare proprio a quello che ci manca. Dentro di sé
poi alcuni invece soffrono, ma non lo mostrano, perché sarebbe una debolezza
che non vogliono far vedere.
Tutto questo mi fa
bene, ogni volta che scendo a valle, vedere che la gente continui a essere
così, nonostante la vitaccia che fa, le condizioni di scarsità di mezzi e di
rumore assordante in cui campa e il fatto che invece di migliorare le cose
peggiorino. Nel 1994 per esempio, quando sono arrivato qua, mi pareva che tutto
fosse più umano e vivibile, era un Brasile in generale forse più povero e meno
tecnologico, lo so, ma migliore dai punti di vista più importanti, che magari
alla gente comune sono proprio quelli che sfuggono.
Quando mi chiedono da
quale nazione io provenga e dall'accento lo sentono subito che non sono di qua,
rimangono stupiti, che io sia venuto dal cosiddetto primo mondo, in questo
posto dimenticato da Dio, o da chi per lui. Chi me l'ha fatto fare?
Due atteggiamenti
curiosi, in un certo senso, che cozzano tra di loro. Questo fenomenale
ottimismo di base e la generale concezione che là in Europa sì, o negli Stati
Uniti anche, la gente viva bene, non come qui, tutto al contrario.
Secondo me sono due
cose che fanno pensare, prima di tutto che dovrebbero protestare di più e
meglio per quello che è la vita qua, e anche capire, ma non so come, che
intanto là, nello scintillante primo mondo, la gente è tutt'altro che
soddisfatta e felice.
Che nonostante il
progresso tecnologico, nella medicina e via discorrendo, la vera qualità di
vita non fa che peggiorare, a cominciare - o terminare - dai rapporti tra le
persone, sempre più tese e intolleranti, le differenze invece di accettarle sono
ogni giorno di più rifiutate.
La grande flessibilità
e accettazione che hanno si perde un po' nel mare di questa specie di strana
indifferenza, di questo limite che hanno di credere che la vita debba per forza
essere così.
La maggior parte delle
persone sono molto ignoranti, non solo qui in Brasile, ma proprio qui noto che
anche chi ha studiato, per la maniera in cui lo ha fatto e per la realtà che
vive, ripetitiva e alienante, in cui la stanchezza e il voler tutto senza
rinunciare coscientemente a niente, agisce in maniera meccanica o fisiologica,
senza mai poter scegliere di testa propria.
Noto ignoranza in
tante persone che avrebbero elementi per poter capire che vivono come schiavi,
pur avendo denaro e possibilità maggiori, di quelli che effettivamente non ce
le hanno, ma non vivono in maniera molto diversa da loro.
Capiscono
istintivamente molto della vita e della convivenza con gli altri, ma non fanno
mai il salto di qualità necessario per usare questo istinto in maniera anche un
po' razionale.
Una cosa non esclude
l'altra, mi dico. Oppure invece no, una cosa esclude l'altra, magari.
Il brasiliano è molto
religioso, non importa per quale religione sia, ne sente un grande bisogno.
Nuove religioni nascono come funghi tutti i giorni, alcune politeistiche di
stampo e origine africani.
Il 9 luglio 1977 il vescovo Macedo fondò la Igreja Universal
do Reino de Deus (IURD). Suo cognato Romildo Soares fondò invece la "Iglesia
Internacional da Graça de Deus". Nel 1986 viaggiò per gli Stati Uniti,
imparò le varie tecniche di tele-evangelizzazione e di marketing nordamericane.
Il vescovo Macedo, della Chiesa Universale del Regno di Dio in un video
trasmesso alla Tv Record, (terza rete in ordine di importanza in Brasile, di
cui è proprietario) ha preso a calci una statua della Madonna, gesto simbolico
che ha avuto un mediatico successo.
Nel 2011 Macedo è
stato accusato dalla magistratura brasiliana di aver estorto ai fedeli, in
maggioranza persone povere, milioni di Reais (moneta locale) poi riciclati
illegalmente, con "false promesse di aiuti spirituali"; Macedo
predicava che «Il soccorso spirituale sarebbe arrivato solo a coloro che si
sarebbero sacrificati economicamente per la chiesa ed esortava al finanziamento
dei propri mezzi di comunicazione asserendo che «Miliardi di persone passeranno
l'eternità all'inferno semplicemente perché non c'è stato chi gli parlasse
della salvezza che esiste in Cristo [...] Se il popolo cristiano di tutto il
mondo guardasse con più amore coloro che non conoscono Gesù, non esiterebbe a
donare il massimo del suo denaro all'Opera di Dio»
La circonvenzione
d'incapace qua è un'attività abbastanza diffusa e redditizia, tutte queste
nuove fedi nascono e si arricchiscono a suon di soldoni.
La Scientologia di un
certo Hubbard, forse per caso ma proprio americano, ha fatto scuola: non c'è
niente di meglio per arricchirsi, fondate una nuova religione, più assurda e
sensazionalista che potete e il conto in banca vi ringrazierà.
In Brasile non c'è una
televisione statale, Silvio Santos ha una rete in espansione, la SBT, che è la
seconda in ordine di importanza dopo la grande rete Globo, gruppo finanziario
dai diversi indirizzi e poteri, che negli ultimi tempi ha cambiato bandiera e
dopo essere stata contraria per anni, ha appoggiato la sinistra di Lula e il
Partito dei Lavoratori, non apertamente ma affiancandolo per la prima volta al
governo, con il tacito beneplacito USA, ma attualmente sta perdendo piuttosto
terreno, per una dissennata politica aziendale.
Di religione ebraica,
Silvio Santos ha 92 anni. La gente lo vede come una specie di Berlusconi di
qua, ma era uno che vendeva cineserie su un tappetino per strada e ha fatto i
soldi in maniera esponenziale. Lui stesso presentava un programma a quiz, fino
a pochi anni fa.
Il governo brasiliano uscente di Jair
Bolsonaro si è affermato grazie alle fake news, era appoggiato da tutte
queste pseudo religioni anche finanziariamente. Si dice che la fantomatica
coltellata data da un fanatico al non ancora presidente, durante la campagna
elettorale, sia stata determinante per la sua elezione. Una cosa simile
successe a suo tempo a Berlusconi, provvidenzialmente colpito da una statuina,
per mano di un fanatico, che il cavaliere magnanimamente perdonò appena
possibile, per rialzare la sua credibilità in un momento in cui ne aveva un
certo bisogno. Pare che gli assessori di Trump, ieri l'altro, abbiano avuto la
stessa pensata.
Ulteriore religione
parallela è la ricchezza, qui si idolatrano i divini soldi come chi è riuscito
a fare una fortuna, non importa se illecitamente, anzi.
Viene in mente che in
India secondo la religione, dire la verità è una delle cose più importanti,
infatti gli indiani sono dei bravissimi venditori e dei bugiardi fenomenali.
Il denaro in Brasile è
simbolo diretto di illuminazione e d'intelligenza, il povero è così disgraziato
perché è stupido, secondo la concezione generale brasiliana.
Va da sé che molti o
quasi tutti vedono gli Stati Uniti come una terra promessa, gli americani sono
i loro cittadini ideali, quelli che hanno risolto ogni tipo di problema.
Figurarsi che un
brasiliano non può andare negli USA, nemmeno come turista, se prima non
dimostra che qui ha un benessere economico e non ha bisogno di andare a fare il
clandestino là.
Un mio ex allievo
psichiatra di sinistra, che ora vive negli States, ci è riuscito grazie al
passaporto italiano che pur non essendo nemmeno di origine peninsulare è
riuscito ad avere, non si sa come. Di là continua a esercitare la sua
professione facendo le sedute in videoconferenza ai brasiliani, perlopiù di
Porto Alegre.
Un mio altro allievo
che va spesso negli Stati Uniti, è un po' più critico, dice che i bambini, in
generale i giovanissimi, per via del comportamento aggressivo ed esageratamente
competitivo della gente di là, sono tutti problematici, con guai psichici.
Combinato con il fatto che si possono comprare armi facilmente, le munizioni
addirittura nei supermercati WalMart (catena che ha acquistato alcuni relativi
supermercati brasiliani negli ultimi anni) poi sfociano nei massacri fatti
regolarmente da adolescenti nelle scuole.
Anche qui in Brasile,
come in Europa, ci sono basi militari americane, di quello che succede là
dentro non devono assolutamente rendere conto a nessuno.
Certa musica popolare
del centro del paese imita il country americano, usando anche gli stessi
strumenti musicali, come la steel guitar dal suono caratteristico, poi
si fanno dei bei rodei e ci si mettono dei cappelli da cowboy.
L'Italia e forse
l'Europa hanno una cultura di maggiore se non esagerata attenzione all'errore.
Si vuole razionalizzare, catalogare e spiegare tutto, spesso senza considerare
il fattore umano, che poi è il più importante.
Il Brasile invece
tende più a un ottimismo generale e meno presunzione di accusare gli altri di
sbagliare. Il brasiliano ha una mentalità più aperta, data da motivi storici di
vicinanza tra varie razze in meno tempo.
Il miscuglio in Europa
è avvenuto in un tempo più lungo, questo può eventualmente far riflettere, ma
ci sono altri motivi storici come quello della partecipazione di gente di
colore in Brasile e in Europa solo recentemente e perlopiù in misura minore. In
genere gente dotata di maggior accettazione, nel bene e nel male,
filosoficamente meno competitiva e dal punto di vista pratico certamente meno
ansiosa.
In Italia vedo più
nervosismo, prepotenza e presunzione, si nota nei rapporti tra le persone e
perfino su Facebook, tutti dicono agli altri di essere dei cretini e vedo che
paradossalmente gli accusatori fanno notare in maniera seccata agli altri gli
stessi loro difetti, non si guardano mai allo specchio. Tipico chi corregge
errori di grammatica o sintassi mentre ne fa lui stesso altri o peggiori.
Si vuole sempre
correggere gli altri, anche per inezie, pure quando non ce n'è bisogno, come
per esempio nelle battute di spirito.
Trovo ridicolo che il
commentatore dica, durante la cronaca della partita di calcio e quasi con rabbia,
cosa avrebbe dovuto fare il giocatore nella situazione appena capitata in
campo, invece di fare quell'errore!
Come se il calcio
fosse uno sport in cui esiste solo una soluzione e una sola, per i vari
frangenti e non invece una serie di possibilità, da sviluppare seguendo per
esempio la fantasia del giocatore o di una squadra.
Ecco perché i
giocatori italiani assomigliano a dei robot programmati per fare quelle cose e
sempre alla stessa maniera.
Naturalmente questa è
una tendenza mondiale, non si fanno più dribbling, non si usa mai la fantasia
ma si esagera con la tattica.
SEDICESIMA PARTE
ATTUALITÀ AVANZATA
Seu Zé conosce tutti
qua in giro, anche se è arrivato a Vila Nova dopo di me. Giorni fa la macchina
mi si è rotta davanti al portone di entrata di casa e ho telefonato subito a
lui, mentre lo aspettavo altri due vicini sono accorsi per aiutarmi a spingerla
dentro, oltre il cancello.
Abbiamo dato
un'occhiata da profani e poi abbiamo consultato i primi meccanici in ordine di
distanza, a un centinaio di metri da me. Era venerdì pomeriggio e avevano già
diverse automobili alle quali stavano lavorando.
Mi hanno detto che
sarebbero passati più tardi, ma non lo hanno fatto. Il sabato mattina ci sono
andato e non c'erano, il loro nonno è un signore che vive qui a Vila Nova da
tanto tempo e mi è stato utile per avere la documentazione della casa, a suo
tempo, quando eravamo in dubbio se comprarla o no, all'incirca agli inizi del
1996. L'ultima volta che lo
avevo visto doveva essere stato quasi una trentina di anni prima, si chiama
Virgilio e mi ha dato il numero di telefono dei due nipoti meccanici, ma da
figli differenti.
Aveva una gran voglia
di parlare e mi ha raccontato che aveva perso la macchina, pochi giorni prima,
era posteggiato e gli avevano battuto addosso, ma con i soldi
dell'assicurazione ne aveva comprata un'altra, una piccola jeep, me l'ha fatta
vedere.
Saremmo rimasti lì a
parlare fuori dalla sua casa per un po', ma io avevo freddo e anche fretta di
risolvere il mio problema, gliel'ho detto e me ne sono andato.
Gli ho telefonato a
quei due, ma non mi hanno risposto, il lunedì seguente li ho chiamati più
volte, con zero considerazione, quindi ho chiamato Zé e siamo andati dai
numerosi meccanici che lui conosce, alle dieci di mattina la maggior parte non
erano ancora aperti.
Chi c'era però non
aveva intenzione di fare questo lavoro, prima di tutto perché bisognava venire
a prendere la macchina che non partiva, e poi perché la maggior parte non vuole
saperne di macchine vecchie, secondo quello che mi ha detto Zé, non gli conviene.
Poi gli è venuto in
mente un altro tipo, un ferrovecchio, che però fa anche il meccanico e che era
lì vicino. Ne avevamo visitati già diversi tutti nella zona, uno più
disponibile ci aveva dato un'idea di quello che poteva essere il guasto,
secondo lui della parte elettrica.
Io pensavo che fosse
una specie di cinghia che nelle Fiat va cambiata ogni tanti chilometri perché
sennò può dare dei guasti molto gravi e cari da riparare, mi era già successo e
la mia Elba si era improvvisamente bloccata in una zona dal traffico piuttosto
infernale, davanti alla Rodoviaria, la stazione degli autobus di Porto Alegre.
Invece ho saputo che
la mia attuale macchinetta, che è una Ford Ka, non ha questa cinghia ma una
catena, che non ha bisogno di essere cambiata, se non quando si guasta, per
fortuna è molto più resistente della cinghia.
Questo ferrovecchio è
gestito da Marcelo Lopez che da giovane avevo conosciuto, i primi tempi che
abitavo qui e lo chiamavano ancora Gordo, cioè grasso, mi spiegò a suo tempo,
ma prima che lo conoscessi, dopo era già dimagrito.
Insomma questo
ragazzone scherzoso e sempre con una gran fretta è venuto su a casa mia con un
assistente, ha capito qual'era il problema e si è portato via la macchina, me l'ha
aggiustata la mattina stessa, nelle prime ore del pomeriggio me l'ha riportata
su e per il pagamento, che non era caro, si è fidato che lo avrei fatto dopo
per internet. Nel prezzo erano incluse altre due riparazioni non richieste ma assai
utili.
Il signor Zè (Seu Zé)
è un vicino di casa che mi aiuta quando ho bisogno e quando ha bisogno lui
anch'io, se e quando posso. Per fare le mie girate a piedi passo sempre davanti
a casa sua, quando lo incontro mi ci fermo a parlare.
Se la macchina non
risulta nel garage, di giorno sempre aperto, significa che è uscita a fare
commissioni per la moglie che soffre di depressione, per la figlia non sposata
e con una figlia adulta che abita anche lì, ora c'è di nuovo anche il figlio
buttato fuori casa dalla consorte.
Stamattina la macchina non c'era e l'ho
incontrato giù a valle, Seu Zé, davanti al magazzino di un ferrovecchio che
tratta elettrodomestici e affini, parlava con il proprietario, omo
alquanto folkloristico che ho più volte chiamato per liberarmi di volta in
volta lavatrici, fornelli e altri elettrodomestici vecchi, ma non è mai venuto. Sotto banco deve
trattare altre cose, più redditizie, perché non lo vedo mai caricare o
scaricare; il suo stabilimento, che consta di due tettoie stipate di vecchie
cose, sembra sempre statico, abbandonato e disertato soprattutto da lui, ma
anche dagli altri.
Noto che conversano
animatamente e mi avvicino, chiedo se stanno parlando di affari e chiedo se
posso partecipare. Il professionista in questione mi domanda allora se c'ho dei soldi, io rispondo che mi dispiace,
di questa parte - ma solo di questa - gli rimarrò debitore, l'artigiano afferma
però che sarebbe stata una parte importante, chiede se ho qualcuno che si offra
come garante per me, Seu Zé generosamente si offre, ma il bassottino si
premunisce desiderando conoscere chi garantirebbe prima per Seu Zé, io mi
faccio avanti, ma pare che le norme vigenti siano assai chiare, non ci si può
garantire a vicenda.
Dopo la prima
scaramuccia rapida, durante la quale nessuno ha riso, avendo notato che in
precedenza parlavano guardando la casa a sinistra delle tettoie affollate da elettrodomestici
allo sfascio, arguisco che l'affare in questione riguardava la vendita della
suddetta.
Infatti arrivano a
citare la cifra che è 400.000 reais, a tutti ci pare poco, ma l'ometto aggiunge
che la casa era abbandonata da tempo e c'era perfino una perdita dentro, che
per un certo periodo scorreva acqua fuori fin sulla strada.
Pare che sia già stata
venduta, dicono con un certo rammarico. Chiedo ironicamente se l'avrebbero
voluta comprare loro, vista la manifesta convenienza, ma loro dicono - senza
nemmeno sorridere - di no e tutti e tre rimarchiamo di nuovo il prezzo,
sorprendentemente basso.
Una casa piuttosto
grande con il giardino e relativa staccionata metallica, edificio foderato di
piastrelle rosso scuro di gress, normalmente usate per il pavimento, si direbbe
in Italia, apparentemente in ottime condizioni. A me non piace proprio, ma non
lo dico.
Poi Seu Zé dichiara
che deve proprio andare e prontamente sale in macchina, dopo esserci salutati,
riprendo la mia passeggiata, il professionista torna al suo duro lavoro.
La nostra
conversazione è stata assai rapida, del consueto tipo botta e risposta, è
durata pochissimo, forse meno di un minuto. Nessuno dei tre lavora, eppure il
tempo continua a essere denaro.
A
MIO FRATELLO LEONARDO
Caro Leonardo
(supermegafamilybrother!)
come va? Tutto a posto
in loco?
Qui tutto al solito,
nessuna novità di rilievo, ho solo finito i lavori alla casa che ti avevo
detto. Come forse ti avevo accennato, qui ho finalmente deciso di rintuzzare
quel grande muro che mi dava alcuni problemi di umidità e muffa, se non di
cadere a pezzi nel prossimo futuro. Mi sono convinto che sperare che non fosse
quello anteriore non serviva a niente.
Ho colto l'occasione
quando mi è stato presentato un muratore che non conoscevo, e forse stavo
meglio così.
Caio mi è stato
indicato da Jefferson, bravo commesso del negozio di ferramenta e articoli per
la costruzione, ormai l'unico negozio che frequento, oltre al supermercato. Ha
detto che era un ottimo professionista e io ci ho creduto. Gli ho subito
chiesto se faceva anche i controsoffitti di plastica e lui ha detto di sì, che
faceva lavori di muratura e tutto il resto.
Di faccia assomiglia a
Fernandel, famoso comico francese che in Italia ha fatto vari film, tipo la
serie di Don Camillo e Peppone, uno anche con Totò. Quando gli ho fatto vedere
le foto dell'attore non gli è piaciuto, lui si sente più giovane o meno brutto,
ma non è vero, è proprio il suo sosia.
Come tutti i muratori
che fanno anche lavori di idraulica, carpenteria, elettricità e tutto quello
che riguarda la costruzione o il restauro della casa, mi ha dato subito
l'impressione di essere una persona che non avesse la stessa mia visione della
realtà, cosa affatto rara, non mi sono preoccupato.
Il primo lavoro che mi
ha fatto è stato buono, pur con vari problemi di sprechi, soprattutto sul
materiale che mi aveva fatto comprare, che risultava poi essere del trenta per
cento in più del necessario, che non è poco e dopo non sai più che farci,
pazienza.
Prima di questo
controsoffitto vecchio doveva togliere il legno pieno di tarli, che qui sono
velocissimi e soprattutto con il perlinato di pino fanno dei danni non
indifferenti, lasciando praticamente solo la parte di fuori e mangiando tutto
il dentro in poco tempo, dato che non si capisce perché continuino a usare il
pino che praticamente è il loro cibo.
Mi ha fatto dei rinforzi di mattoni pieni e
cemento per il terrazzo che sono risultati abbastanza buoni, anche se l'ultima
parte l'ha lasciata incompiuta, un pezzettino difficile perché alto e
difficilmente raggiungibile, aveva fretta di andare a fare un altro lavoro ed è
scappato senza dire niente.
Caio e i suoi due
aiutanti erano una rottura di scatole continua perché mettevano la radio a
tutto volume, poi gridavano e lui non stava mai zitto un secondo.
Inoltre faceva tutto
il contrario di quello che diceva: se dichiarava che una cosa andava fatta
assolutamente in una maniera poi faceva nell'altra. Dopo due settimane sono
stato contento che se ne sia andato, anche se non ha finito completamente il
lavoro, era solo una rifinitura, ma il compenso pattuito era abbastanza caro.
Poi aveva preso degli
articoli a nome mio senza dirmi niente che io avevo pagato e se non guardavo lo
scontrino del negozio mi avrebbe fregato, alla fine ha detto che che se l'era dimenticato, ma ormai avevo
capito che era un bugiardo anche troppo naturale e sfacciato.
Non mi è sembrato affatto onesto, avevo
pensato di non chiamarlo più, però dovevo fare questo lavoro sulla parte
esterna della casa sul confine e il muratore che una volta era mio vicino e
aveva intrapreso un lavoro grande, qui nei pressi, l'aveva finito, ma si era
guardato bene dal venire da me, come annunciato, perché secondo lui io dovevo
stare a chiamarlo continuamente, sennò si dimenticava e dire che doveva
riscuotere anche una metà dei lavori fatti in precedenza, più o meno cinque
anni fa. Quindi, secondo la sua ferrea logica arrugginita, mi evitava.
Brandina, la mia
vicina, l'avevo già interpellata per poter fare questo lavoro, in pratica tutto
sul suo terreno, perché la casa è sul confine e avevo dei problemi di
impermeabilità, cioè entrava acqua quando pioveva da quel muro alto otto metri
e più o meno lungo quattordici.
Era un lavoro grosso,
l'intonaco circa venticinque anni prima lo avevo fatto io stesso, era forte ma
discontinuo, come me, tutto storto e il muro sotto di suo lo era già la sua
parte, quindi per farlo nuovo e pareggiarlo c'era da metterci una quantità
industriale di cemento e sabbia.
Ci voleva del tempo e
lui mi aveva detto, prima di andarsene, che pensava di farlo in due settimane.
Poi invece ha detto che ce ne volevano quattro, dopo un mese, che doveva togliere
l'intonaco vecchio, che invece a me sembrava buono e alla fine ne ha tolto solo
una piccola parte. Il prezzo che poi ha ritoccato, dopo qualche giorno, è
aumentato naturalmente. Non doveva più fare questa parte di lavoro che era
preventivata, invece di diminuire, il prezzo è aumentato. Con Caio ragionarci è
improbabile, se non impossibile, ogni volta che ci ho provato sono andato su
tutte le furie, ma non sono riuscito a spostarlo minimamente dal suo proposito.
Sapevo che non era
facile trovare qualcuno per fare un lavoro del genere, perché l'intonaco è uno
dei lavori più noiosi e faticosi, ci vuole nel tempo e ci vuole soprattutto
della forza fisica, che ormai vecchietto lui non aveva, quindi doveva metterci
qualcun altro a farlo e poi nel frattempo prendeva altri lavori, anche se aveva
spergiurato che non lo avrebbe mai fatto.
Quando pioveva non
venivano, quando qui non pioveva, a volte, Caio diceva che a casa sua invece
sì. Abita a Itapoan, piuttosto lontanuccio, d'accordo, ma non potevo sapere se
era vero, essendo lui un tremendo bugiardo.
Certi giorni non si
presentava proprio, oppure andavano via a mezzogiorno o alle due. Insomma
lavoravano mezza giornata e considerando che bisognava anche affittare le
impalcature, lui aveva detto che sarebbe bastato per quindici giorni e invece,
dopo averne parlato il giorno prima, è andato là da solo, senza dire niente e
le ha prese per un mese. Il preventivo che avevo fatto io era la metà del
prezzo.
La macchina gli si
rompeva tutti i giorni, a volte forse era vero, altre volte invece era una
scusa. Mi ero già arrabbiato con lui per queste sue assenze ingiustificate, per
queste sue sbruffonate, che diceva di fare una cosa e poi senza dir nulla, come
se fosse la cosa più naturale del mondo, faceva l'opposto, e c'aveva un
repertorio di opposti non indifferente.
Anche per questo ennesimo atto di scarso
rispetto e zero considerazione nei miei confronti mi sono infuriato invano, lui
poi ha continuato come se niente fosse a inventare bugie e a fare alla sua
maniera, dopo aver detto di fare in un'altra, o in un'altra ancora, però mai in
quella originale e dichiarata.
Per l'ultima
ordinazione dell'impermeabilizzante per pareti esterne, siamo andati insieme
alla Pontosul, il nostro negozio di fiducia. Jefferson, tanto per fare una
battuta, ha detto che aveva pensato che poteva perdere la mia amicizia
indicandomi Caio e io ho colto l'occasione per dire che stava quasi per
succedere.
Tutti e due sono
rimasti imbarazzati, ma in Brasile bisogna avere una grande flessibilità, non
so se io ne ho acquisito almeno una parte, dopo averci passato la metà o quasi
della mia vita. Dentro di me sapevo che i muratori, come tante altre categorie
qua, non hanno certo la pretesa di essere seri, di essere persone che dicono la
verità, ma quando mai, qui nessuno lo fa! O semplicemente di mantenere la loro
parola su quello che avevano detto prima, figuriamoci, che non si sa se non lo
ricordano nemmeno, oppure fanno solo finta.
Uno dei miei tre
alberi di avocados quest'anno è stato particolarmente generoso, dopo avergliene
dato due borsate piene, nei primi giorni di lavoro, Caio ha insistito spesso
per averne ancora e io, siccome non ero per niente soddisfatto delle cose come
andavano, era passato più di un mese e loro non avevano nessuna fretta, non glieli
volevo dare e ho anche alzato la voce alla sua insistenza che se ne è scappato
via come un topo.
In diverse occasioni
gli ho detto più volte che era un fottuto bugiardo e che lo faceva spesso anche
senza utilità, per lui parlare e mentire era la stessa cosa, naturalmente
negava e continuava a negare.
Com'è che potevo
pretendere che dicesse che era vero? Il bugiardo quando nega ammette e quando
ammette nega.
L'ho anche mandato
affanculo diverse volte, almeno mi sfogavo, lui non capiva l'italiano, ma credo
che abbia capito il messaggio. Per quanto, se l'aveva capito, non ha certo
migliorato il suo modo di essere o di lavorare, non si è spostato di un
millimetro.
Tra le altre sue
prodezze ha rubato l'acqua per giorni alla vicina di casa, finché lei non se ne
accorta e gli ha chiuso il registro con il lucchetto. Io glielo avevo chiesto
prima, se non ne aveva bisogno, bastava allungare la sistola oltre il muro, lui
ha detto di no, che se la portava da casa con un bidone. Aveva già tentato di
rubare anche l'energia elettrica per la betoniera, ma Brandina se ne era
accorta subito.
I suoi muratori o
manovali però gli volevano bene, hanno detto che li aiutava sempre quando
avevano bisogno, non so come, ma si vedeva che c'avevano un buon rapporto.
Gli ho regalato tutto
quello che era di troppo in casa, roba che occupava spazio, che non avevo
speranza di usare, non sempre di nullo o scarso valore, ma ho visto che se era
gratis accettavano tutto e ne ho approfittato.
Alla fine, per il
saldo finale, gli ho dato altre due sacchettate di quei frutti, che lui diceva
che facevano diventare forti-forti, o facevano mentire meglio e di più, per
darli anche ai suoi operai, che loro sì che si facevano il culo e guadagnavano
una miseria.
Ti e mi chiederai: ma
alla fine, come è venuto il lavoro?
Mi e ti risponderò che
stilisticamente fa schifo, il muro è tutt'altro che liscio, però è una parte
della casa che non vedo mai, se non da lontano scendendo a valle e credo che
sia forte e impermeabile ora, che duri almeno finché io sono vivo, figli ed
eredi non ce ne ho e non credo che ne avrò facilmente.
D'accordo: la costruzione civile qui è
abbastanza incivile, ma forse i tempi sono cambiati anche là da voi. Insomma,
non so come sia oggigiorno in Italia, te hai fatto dei lavori grossi alla casa
da non molto tempo e lo sai.
Spero di non averti
annoiato, con queste mie lunghe storie che non so più a chi raccontare, la
gente non ha più pazienza di ascoltarmi e a pensarci bene io ce ne ho anche
meno di loro.
Avendo ormai poco da
fare, oltre alla pulizia, eventuali riparazioni e uno scarso giardinaggio,
attualmente mi soffermo piuttosto a riflettere sul pensiero dei miei gatti e
cani, alla loro maniera di considerare i casi di ordinaria e straordinaria
amministrazione quotidiana. Pur convivendo, io ho ragione di credere assai
diversa da quella umana.
Noto che anche tra
gatti e cani il relativo approccio alla vita differisce piuttosto con il
cosiddetto pensiero occidentale, probabilmente anche da quello orientale.
Tra gatti femmine e
gatti maschi ulteriormente direi, lo stesso avviene con cani e cagne. Ognuno ha
il suo carattere, ma influisce anche l'età, l'educazione ricevuta o la sua
relativa mancanza.
Per esempio Tamara ora
è quaranta chili, poco più di un anno fa era un chilo e settecento grammi.
Dicono che avesse undici fratellini, certo con qualche numerosa sorellina di
mezzo.
Non credevo che fosse
possibile e mi sono informato: il numero dei cuccioli varia in base alla razza,
da un minimo di uno
a un massimo
di una quindicina, normalmente le razze di taglia piccola fanno
un numero di cuccioli minore, rispetto a quelle di taglia grande.
La ragazza che me l'ha
data, aveva detto che era di taglia media, che io pensavo corrispondesse a cani
di circa venti chili, ma ultimamente ho notato su vari testi e sulle confezioni
delle crocchette, insomma il cibo secco per cani, che alcuni considerano il
pastore tedesco una taglia media.
Questa ragazza è di
origine italiana e fa di cognome Frusciante, gestisce insieme alla sua famiglia
un ristorante fuori da Porto Alegre. Qualche giorno fa la ho messaggiata con il
pratico Whatsapp, per sapere di che razza fossero i genitori della ex cagnetta,
che oltre che diventata grande, anche da adulta è rimasta piuttosto pestifera.
Della madre mi ha mandato qualche foto, assomiglia parecchio alla Tamara
tricolore: nero, bianco e beige, ma molto più piccola. Ha detto che il padre
non si sa, ma il responsabile principale deve essere lui, ho pensato io. Tale
Marina però ha tagliato la conversazione quando le ho detto che Tamara era
quaranta chili, forse temeva che gliela volessi restituire.
Invece già non saprei
immaginarmi la vita senza di lei, anche i gatti e Franco sono importanti e ci
sono assai affezionato, ma lei mi riempie le giornate, nel bene e nel male, è
così appiccicosa e rompiscatole che non mi lascia solo un secondo, anche quando
sono in bagno devo lasciare la porta aperta, anche lì entra, pretende coccole e
attenzione.
Quando è arrivata qui
se vedeva la ciotola del mangiare arrivare ci saltava sopra con tutta la forza
e mangiava forsennatamente e selvaggiamente, ora non lo fa più. Da questo ho
capito che non era facile, in quel mucchio, riuscire a cibarsi senza essere
sopraffatte dall'agguerrita concorrenza.
Non vorrebbe che io
accarezzassi i micetti, ma soprattutto il cane maschio, Franco, anche se nel
frattempo accarezzo lei stessa. Piange, si lamenta, è gelosa.
I gatti Gina e Paco
dormono accoccolati sul divano, attaccati l'una all'altro e spesso anche a
Tamara, ma non vanno d'accordo tra di loro, ogni tanto si danno zampate e
soffiano alla loro maniera aggressiva. Mi è venuto il dubbio che scherzino, ma
non ne sono affatto sicuro.
Tamara gioca con Paco,
gli abbaia, fa finta di morderlo al collo, gli gira intorno, ma lui non so se
gradisce, se la sua reazione di fingere di saltargli addosso con le zampe
anteriori tese in avanti sia da considerarsi seccata o no.
Franco va
relativamente d'accordo con Tamara, soprattutto ora che lei è diventata il
doppio di lui, ma dipende dalle occasioni e dal tipo di cibo, che uno faccia il
prepotente con l'altra, o viceversa. Essendo la più giovane e piena di energia,
Tamara ha preso un po' il comando della ciurma e Franco, (che è l'unico non
sterilizzato, e ormai ha più di dieci anni,) passata la mattinata a far lotte,
inseguimenti e simulazioni di violenza varie con lei, nel pomeriggio si ritira
nella cuccia fino a notte e ringhia a chiunque si avvicini, anche a me.
Va bene, io la mattina
quando mi alzo sono allegro, avrei tanta voglia di fare, invece poi non faccio
nulla, nel senso che non vedo molti sbocchi, perché è la mia maniera di vedere
la vita, attualmente, che rifiuta tutte le cose che possono farmi scorgere un
presente in carne e ossa, che poi anche per sbaglio potesse diventare un futuro
più interattivo e ciccioso, perché semplicemente le opzioni a tiro ormai non mi
piacciono e allora ci rinuncio quasi automaticamente.
Sento la solitudine,
mi fa male soprattutto la sera, però la presenza umana in genere mi annoia, mi
disturba, se prolungata più di una mezzoretta. O è la gente che è peggiorata o
sono io, forse tutti e due.
Mi piace la natura, ma
vivo in una città di circa due milioni di abitanti, e uscire in giro,
presuppone prendere la macchina e attorno a me c'è un vortice di motociclette,
automobili, camioncini e autobus che mi fanno passare la voglia. Qui ci sono
migliaia di persone che hanno fretta e ti spingono, che sono indaffarate a far
soldi per sopravvivere, cosa che io non faccio più, da un po' di tempo e anche
prima procuravo lo stretto necessario e mi rendeva ansioso solo pensare che
ero, come tutti sono, imprigionati in questa morsa mortale, dover lavorare, non
poter fermarsi per potersi mantenere.
Non mi riesce di
immaginare come sarebbe la mia vita ora, se fossi rimasto al Quercione, certo
sarebbe differente se ci fossi poi tornato dopo.
La lontananza,
opportunamente sfruttata, può diventare una cosa quasi virtuale, ma i
chilometri in mezzo sono tanti, se non erro, 12.000 corrisponde anche
all'ampiezza dell'Oceano Pacifico, mi pare, tipo dalla Cina alla Colombia.
Per mantenere viva la
nostra amicizia, ti avevo proposto di scrivere qualcosetta insieme, ma intuisco
che non te la senti e lo so che ho sbagliato a insistere, ma era a fin di bene.
Stavamo dicendo
piuttosto che la musica è importante, almeno per chi vive di atmosfera, di
sensazioni, di ricordi... insomma di sentimenti.
Certo che ci vuole
anche della tecnica, almeno per produrla e sono contento che tu abbia
cominciato a suonare la batteria.
A suo tempo anch'io
tentai di intraprendere la carriera di musicista, insieme al nostro fratello
Umberto, il quale suona diversi strumenti e piuttosto bene la chitarra.
Quando ascoltai la
prima registrazione del gruppo, però decisi che era una cosa aldisopra delle
mie capacità e tanta pazienza per imparare a suonare la tastiera non ne avevo.
A livello di pazienza non direi che non ne ho per niente, forse solo per
determinate cose, ma non saprei dire quali, anche per via della mia famosa
discontinuità.
Per cantare poi ho
avuto una seconda ma buffa occasione, qua in Brasile. Alla fine di ogni lezione
d'italiano, portavo sempre una canzone nuova per gli allievi, che intonavamo
insieme a squarciagola. I risultati a livello di bellezza canora erano pessimi,
i brasiliani e soprattutto le brasiliane ballano bene, ma a cantare sono
piuttosto negati.
Però, in seguito,
anche esercitandomi, scoprii che stavo cantando meglio e a casa, da solo o con
la mia sopraggiunta prima moglie, mi cimentavo con pezzi, soprattutto italiani,
più adatti alle mie possibilità vocali.
Nei miei primi tempi brasileiros,
quando abitavo nell'appartamentino di Rua Riachuelo, nel centro di Porto
Alegre, facendo la doccia, cantai con autentica passione Le cose della vita
di Antonello Venditti. Non mi ero reso conto che dagli altri sette
appartamenti, (con finestre su un cortiletto che era più che altro uno stretto
pozzo di luce e aria,) si sentiva tutto, e alla fine mi applaudirono entusiasti
e si congratularono.
In ogni epoca storica
della mia esistenza la musica è stata fondamentale e gradevole compagna, ancor
oggi cerco spesso canzoni nuove su Youtube, in più ascolto quelle vecchie, le
pubblico sul gruppo di Facebook.
Mi sarebbe piaciuto
suonare uno strumento, come fai te, ma alla fine nella mia vita di cose ne ho
fatte tante e non potevo certo pretendere di farle tutte, che
me ne piacevano erano tante, oppure troppe. Sai che ho fatto anche il DJ alla
radio Tirreno Nord a Viareggio?
E la musica
contemporanea come si sta sviluppando? Il pur bravo figliuolo Sandro è poi
andato in vacanza da solo? E dove?
Ora ti saluto e ti
auguro di stare bene
a te alla tua famiglia
a presto
Moreno
TENEREZZE A CREPAPELLE
Era iniziato l'inverno e ormai da
tre anni interi mi ero separato dalla mia seconda moglie. A dire il vero quegli
anni erano volati ed era stata proprio lei ad andarsene.
Tre
anni di solitudine, di Facebook e notizie false. Da una decina almeno avevo
cominciato a fondare e ad abbandonare ciclicamente gruppi di Facebook, ad
alimentare la mia amicizia con gli animali, cani e gatti e a credere sempre di
più di aver sbagliato pianeta.
Non
che la Terra fosse brutta, anzi, la natura era proprio meravigliosa, ma era
troppo piena di gente. Non credevo più all'amicizia, e anche se la colpa fosse
stata solo mia, cambiare a sessantacinque anni era piuttosto arduo e
improbabile.
E poi io mi piacevo ancora, con
tutti i miei difetti, dentro di me ero così pieno di personalità differenti, di
prove di capacità inframezzate da altrettante incompetenze, ricordi buffi e
situazioni tragicomiche. Insomma non mi sembrava di aver bisogno degli altri,
da solo mi facevo compagnia, senza sforzo producevo abbastanza movimento e
stronzate. Sapevo anche di sbagliarmi, in un certo senso, ma era troppo tardi e
non avevo voglia di discuterne con nessuno, tantomeno con me stesso.
Non credevo più
all'amore per una donna, oppure ci avevo sempre creduto poco, forse perché mi
rendevo conto che io ero troppo complicato e diverso dalla maggior parte della
gente, maschi o femmine che fossero.
Non so se il
matrimonio sia la morte dell'amore. A dire il vero non so nemmeno l'amore cosa
sia. All'inizio era infatuazione, poi amicizia, condividere interessi e sogni,
poi è sopraggiunta la noia.
Sapere già tua moglie
cosa sta per dire, che cosa pensa, ripetere le stesse situazioni all'infinito.
Naturalmente anche da parte sua capisco che sia lo stesso, perché una persona
può essere anche intelligente, imprevedibile, divertente e simpatica, ma va
avanti con una specie di comportamento, che rimane sempre simile a sé stesso.
Noi, bambini a
oltranza, in generale abbiamo bisogno di sicurezze, ma poi sono proprio quelle
che ci stancano, che invece di essere
rassicuranti, alla fine ci annoiano.
L'amore per me me sarebbe voler tanto bene
a questa tua compagna che ogni cosa che fa, (anche se spesso prevedi cosa e come,)
ti fa tenerezza, ti diverte e non ti annoia. Dovresti ammirarla e apprezzarla,
anche nei suoi difetti, senza riserve, senza volerla cambiare.
Mi è capitato di
pensare che con qualcuna questo miracolo avviene e non si stanca di avvenire
ogni giorno, ma non è facile trovarla, e un altro miracolo sarebbe che quella
poi voglia condividere con te tutta questa attenzione, tenerezza e ammirazione
senza voler piantare tutto, desiderare qualcos'altro o qualcun altro.
Forse non sono riuscito a trasmetterglielo, la criticavo spesso,
magari per abitudine, anche se non erano cose importanti. Tutte le altre lo
erano molto di più. Con lei mi pareva di essere una coppia di persone che
giocassero a far finta di essere due adulti, che poi alla fine fosse tutto per
gioco.
Non mi era mai capitato, perché anche per me quando sono da solo,
è tutto per gioco eppure sul serio. Non mi ero mai trovato a vivere la stessa
situazione con qualcun altro, in maniera stabile, specialmente di sesso
femminile. Insomma eravamo in due, ma condividevamo uno stile di vita, che era
giocare a essere quello che gli altri fanno troppo seriamente, spesso in
maniera ossessiva.
Questo per me non è
facilmente ripetibile.
C'è da dire che i miei interessi e
le mie necessità sono simili a pochi individui, poche persone mi piacciono,
eppure starci insieme mi stanca, mi ci
vogliono delle pause. Forse loro parlano troppo o io troppo poco, in
generale in compagnia i silenzi disturbano, ma secondo me sono necessari.
Ecco perché il rapporto con i cani
e i gatti per me è decisamente migliore. Loro mi stimano e io apprezzo la loro
vicinanza senza parole, senza giudicare, senza fare commenti.
Agata è morta a tredici anni,
esattamente come tutti i miei cani precedenti, non sono certo superstizioso, ma
il numero tredici ricorre nella disgrazia. Per ovvi motivi avrei preferito il
diciassette, ma è evidente che non sia disponibile.
Al suo posto, meno di un mese
dopo, ho adottato Tamara, che ho subito soprannominato Cocca. Forse
perché avevo rivisto diversi telefilm del Maresciallo Rocca con Gigi
Proietti, ambientato a Viterbo e una serie con Nino Manfredi chiamata Commissario
a Roma. Come forse si usa nella regione Lazio, affettuosamente chiamavano
Cocca le rispettive figlie, entrambe già adulte.
La vita dell'emigrante con
l'internet è migliorata. Nel senso che si possono trovare, registrare,
ascoltare e vedere video del proprio paese a migliaia di chilometri di
distanza. In più si possono scaricare musiche e libri, fumetti e altre cose
ripescate dalla nostra infanzia. Insomma ci si trasferisce nello spazio e nel
tempo, in maniera spesso piacevole e romantica.
Dopo aver bevuto assai
fino a una ventina di anni fa, sono diventato praticamente astemio. Magari una
birretta gelata quando è caldo e se trovo del vino buono al supermercato, ogni
tanto me lo sbafo con piacere.
Droghette leggere sì,
ne ho consumate un po' in gioventù, ma mai quelle pesanti. A dire il vero la
cocaina l'ho provata due volte, ma non mi è sembrata quel granché. Forse perché
io apprezzavo già la calma e la lentezza più del contrario eventuale e se il
mondo corre sempre di più io freno con tutta la mia forza. Nella vita bisogna
essere pratici, fuori non lo so, non ci sono ancora mai stato, ma non manca
tanto tempo.
Parlando di Facebook,
durante gli anni sono arrivato a fondare e successivamente a non abbandonare un
unico gruppo, dove non si parla tanto, per sua stessa definizione, ma si
apprezzano canzoni, video, foto e frasi fondamentali, quasi tutte copiate
altrove, ma a volte anche mie.
Il gruppo si chiama Senza
Parole (La Lingua è un Virus) ispirato a una canzone e al relativo film
musicale di Laurie Anderson.
"Evitiamo
stereotipi e mode, le polemiche che diventano tormentoni teleguidati, la
pubblicità e la propaganda, naturalmente riavvicinamoci alla natura. Gli
animali ci fanno capire tante cose sugli uomini. Parlare è bene, starsene zitti
anche. Qualche ululato ogni tanto non fa male a nessuno."
Ci ho scritto di lato
per far capire cosa e come, dove, quando... e soprattutto perché. Voglio che
s'intenda di schianto che le apparenti democrazie e il politicamente corretto
mi hanno ormai scassato il meridione del corpo. Se nel gruppo in questione
qualcuno si azzardasse a fare il furbo, io lo butto fuori pressoché subito.
Per ovvi motivi io non
avevo mai detto la verità su me stesso, nel mio profilo risulta che io abiti in
Cina e abbia settant'anni, addirittura ho tre profili e tre nomi differenti,
che uso a turno, ma quello con il mio vero nome è quello che uso di meno.
Nel mio gruppo ci sono
duecentodiciotto persone, alla sua massima estensione, ma poche partecipano,
forse meno di cinquanta.
Io sono curioso in
generale, ma non a livello personale, non mi piace infilarmi nella vita delle
persone, anche perché non desidero che si ficchino nella mia.
VITA BRASILEIRA
Recentemente mi faccio
quasi ogni giorno delle passeggiate per i dintorni, non proprio nelle favelas,
ma ci sono troppe viuzze dove ci si trova in universi intermedi, di catapecchie
un po' rappezzate, cani legati e gatti spelacchiati, vecchi elettrodomestici,
moto, biciclette e automobili abbandonate a formar ruggine e far da decorazione
tra arbusti e angoli con vista sui palazzoni là sotto, in mezzo alla nebbia
mattutina.
Tra questi elementi
romantici ecco una donna spettinata in accappatoio seduta su una sedia da
spiaggia che spippola un cellulare, una madre che taglia i capelli al figlio,
tanti o troppi cani che abbaiano. Una volta cinque o sei randagi mi hanno
aggredito e li ho presi a calci, ma non desistevano e mi sono messo a correre,
alternando lanci di pietre e ogni oggetto che trovassi a tiro.
Qualche anno fa era
più pericoloso fare questo mio tipo di sport podistico combinato con
l'osservazione sociologica. Mi hanno detto che la polizia ha cominciato a
investire direttamente i soldi guadagnati con aste giudiziarie di beni
confiscati e almeno la delinquenza spicciola è stata rintuzzata meglio, pare
che rubino meno anche le automobili, compreso quelle vecchie che dopo
smontavano di più per rivendere i pezzi.
Certo gli ammazzamenti
tra trafficanti proseguono indisturbati. Tempo fa hanno anche fatto sommaria
esecuzione di un ragazzotto, figlio di una donna di servizio di nostra
conoscenza. Non che non se lo meritasse, era veramente un teppista stupido e
prepotente, ma lei disse che non stava facendo niente di male, in quel momento
magari no, ma si riposava raramente secondo me.
La madre di un mio
amico anni fa ha tentato di ammazzare il marito, mentre dormiva, con un machete,
perché lo tradiva con altre donne. Lui però si è salvato, nel frattempo è
andato in pensione, dopo la pandemia non esce più di casa e lei era diventata
testimone di Geova già da prima.
Sotto casa mia è
cresciuta una piccola favela, quando
sono arrivato qui la stretta viuzza non esisteva proprio, c'erano due casette e
intorno tutti alberi di pesco. Ora attaccata l'una all'altra ce ne sono una
ventina, non si sa dove finisce una e comincia quell'altra.
Da una decina di anni
poi è arrivata una famiglia che si ciba di musica a tutto volume tutto il
tempo, per fortuna che lavorano e quando non ci sono il mondo è meraviglioso.
Stanno sempre fuori:
con il caldo, con il freddo, con la pioggia anche non smettono di arrostire
carne e ubriacarsi. Trattasi di madre e figlia ciccionelle, che si procacciano
sempre innamorati nuovi, che poi non ce la fanno e desistono.
Ne ho visto uno che
non ha preso nemmeno le scarpe, si è infilato in macchina seminudo ed è fuggito
con la pur brava madre, (ex obesa dopo operazione di chirurgia
bariatrica,) che lo inseguiva giù per la
stradina strillando.
Ogni tanto quando
esagerano con le urla e la musica alta gli tiro dei pietroni sul tetto. Allora
per qualche giorno continuano a far baccano per non dimostrare che si sono
preoccupate, dopo per incanto stanno tranquille per qualche settimana, a volte
anche mesi. Poi ricominciano, come se niente fosse, eppure ricordandoselo bene,
alzano progressivamente, un po' alla volta, il volume, almeno fino alle
prossime botte. Credo che facciano anche uso di droghe, ma non so quali.
Due volte gli abbiamo
fatto causa, due volte non si sono nemmeno presentate in tribunale. Anche gli
altri vicini le hanno denunciate, senza apparenti risultati. Una volta la
figlia si era sposata ed era andata a scassare le altrui minchie altrove, in
contemporanea la mamma era scappata per via delle denunce, ma sono ritornate in
forma più che mai.
Per anni hanno vissuto
lì anche il padre e il figlio, rispettivamente denunciato per aver tentato di
violentare la figlia, (forse quella storia però è stata inventata,) il secondo
più volte diffidato dal giocare a pallone tirando tremende botte contro il muro
alle quattro di notte.
Ricordano un po' il
film di Scola, Brutti sporchi e cattivi , ma i personaggi sono molto
meno simpatici.
ANIMALETTI ABBESTIA
Tra tutte le porcherie
che i miei cani mangiano, nei settecentoventi metri quadrati di natura quasi
selvaggia racchiusa nel mio terreno, ci sono anche pezzi di legno, scelti con
non so quale criterio e le cacate dei gatti.
Nessuno mi aveva
avvisato e all'inizio mi sono anche preoccupato, ma poi ho saputo che per loro
è perfettamente normale, come poi venire a leccarti il naso.
Franco qualche volta
porta nella cuccia i cadaveri di roditori di circa mezzo chilo senza coda, (che
non ho mai visto da vivi, probabilmente cacciati dai gatti e strappati a loro,)
o anche opossum uccisi da lui stesso. È probabile che gli facciano compagnia,
ma se non ce li levo io, rimangono lì a oltranza con il relativo fetore.
Ho trovato sparsi per
terra spesso pezzi di topo e gechi che i mici amichevolmente ammazzano per
divertirsi, ma dipende dalle parti del loro corpo, alcune sono meno buone e dal
momento in cui possano aver già mangiato o meno.
Gli uccelli anche
vengono spesso acchiappati, specialmente quelli appena volati dal nido e gli
altri poi si vendicano in parte, mangiando il cibo dei felini e dei cani dalle
ciotole e già che ci sono ci cacano anche.
I gatti saltano due
metri da fermo e sono capaci di notevoli acrobazie, alternano lunghi momenti di
pigrizia assoluta e definitivamente non sono animali da guardia, se vedono gli
uccelli che gli rubano il cibo loro se ne fregano, di giorno dormono quasi
sempre e cacciano di notte.
Ho visto i miei due,
maschio e femmina, vagare nei terreni limitrofi e ho ragione di credere che di
là portino alcune prede già massacrate. Quando succede di solito miagolano in
maniera diversa, per farmele vedere, qualche volta me le hanno portate anche in
casa.
Qui attorno ci sono
catapecchie di legno abbandonate da tempo e anche vere e proprie foreste
vicine, dove gli esseri umani non passano per via delle della vegetazione
chiusa, ci può senz'altro vivere una cospicua serie di animali medi e piccoli,
forse non grandi.
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